Dopo la prima guerra sino–giapponese, combattuta sul finire dell’800 e vinta dai nipponici, l’isola di Taiwan (Formosa) passò sotto il dominio giapponese. La guerra segnò anche la fine dell’impero cinese, che cadde dopo duemila anni lasciando il posto alla Repubblica di Cina, con a capo il partito nazionalista Kuomintang.
Al termine della 2° guerra mondiale, con la resa del Giappone, Taiwan tornò sotto il controllo cinese. Il paese, però, era alle prese con una sanguinosa guerra civile tra il partito comunista e quello nazionalist. Il Kuomintang venne sconfitto, e Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese.
Il leader nazionalista Chiang Kai-shek si rifugiò a Taiwan, portando con sé tutte le risorse del paese e trasformandola nella Repubblica di Cina. La sua legittimità, però, non venne mai riconosciuta dal governo di Pechino, che considera l'isola parte integrante del proprio territorio.
A questa lunga controversia ed ai suoi possibili sviluppi futuri, è dedicato il post di oggi, scritto da Giorgio Cuscito e tratto dal sito di Limes.
LUMEN
<< Sin dall’epoca imperiale, Taiwan ha sempre avuto un valore strategico per il potere centrale cinese. L’isola, che dista solo 180 chilometri dalla Cina continentale, è oggi percepita da Pechino sia come una barriera a protezione della costa (lungo cui si concentra il nucleo geopolitico del paese), sia come una minaccia alla sicurezza del paese qualora cadesse in mani nemiche. (...)
L’area tra le isole di Formosa e Hainan formerebbe una fascia protettiva per la florida economia sudorientale del paese. La riunificazione di Taiwan inoltre amplierebbe la portata dell’assertività militare di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, bacino d’acqua di cui Pechino rivendica la sovranità per circa il 90%, e romperebbe la c.d. “prima catena di isole”. Infatti, l’antagonismo con il Giappone, la presenza Usa nelle Filippine e il complesso rapporto con Taipei ostacolano l’accesso della Repubblica Popolare all’Oceano Pacifico.
La riunificazione avrebbe anche un forte impatto sull’identità nazionale della Repubblica Popolare. Questa cicatrizzerebbe le ferite subite ad opera dal Giappone e dalle potenze straniere nei “cento anni d’umiliazione nazionale”. Inoltre, l’evento si tradurrebbe nel successo del Partito comunista, a cui il Kuomintang ha impedito di prendere Formosa nel 1949. (…) Insomma, per Pechino riconquistare Taiwan significa restituire la statura imperiale all’odierna Cina.
Taipei non è per ora disposta alla riunificazione, ma allo stesso tempo sa che annunciando ufficialmente la sua indipendenza potrebbe innescare la reazione della Repubblica Popolare. Non solo economica (la Cina continentale è il primo partner commerciale taiwanese), ma anche militare. (...) Xi Jinping ha detto che qualunque tentativo di mettere in discussione la politica “una sola Cina” è destinato a fallire, incontrando la “punizione della storia”.
Dalla prospettiva di Pechino, l’ideale sarebbe una riunificazione “morbida”, sulla falsa riga della politica “un paese, due sistemi”. Dal 1997, questo assetto regola i rapporti con Hong Kong, la quale tuttavia sta diventando progressivamente sempre più dipendente dalla Cina continentale sul fronte politico ed economico.
Tale impostazione sancirebbe ufficialmente la sovranità della Repubblica Popolare sull’isola e allo stesso tempo preserverebbe – per un tempo probabilmente limitato – le libertà politiche, economiche e sociali dei taiwanesi che i dirimpettai continentali non hanno. Taiwan, però, non gradisce questa soluzione e i sondaggi [d'opinione lo confermano]. (...)
La Repubblica Popolare cerca di lavorare ai fianchi Taiwan in tre modi. Primo, approfondisce i rapporti economici a cavallo dello Stretto. La dipendenza economica può ridurre il margine d’azione di Taipei e persuadere la popolazione della rilevanza dei rapporti con Pechino. Soprattutto se abbinata a un lavoro mediatico volto a ricordare che gli abitanti del Continente e di Formosa appartengono alla stessa nazione.
Secondo, Pechino cerca di indebolire la politica estera di Taiwan. Ad oggi Taipei intrattiene rapporti diplomatici con venti paesi, tra cui spicca la Santa Sede. Nel corso degli anni, diversi governi stranieri hanno deciso di non riconoscere più la sovranità taiwanese per consolidare i rapporti con Pechino. Non è da escludere che l’accordo in fase di sviluppo tra Repubblica Popolare e Vaticano spinga anche quest’ultima ad allentare i rapporti con Taipei.
Terzo, Pechino sta potenziando le sue Forze armate, con lo scopo di trasformarsi in una potenza marittima. L’Esercito popolare di liberazione non può ancora competere con gli Usa, ma ha intensificato le manovre militari in prossimità dello Stretto per mandare un segnale a Taipei. Il messaggio veicolato è chiaro: Pechino è tecnicamente in grado di prendersi Formosa. (...)
La Repubblica Popolare potrebbe prendere Taiwan in tre giorni. (…) La conquista avverrebbe combinando “sei tipi di combattimento”. Il primo è la “potenza di fuoco”, che prevede tre ondate di assalti con missili d’artiglieria più tre di attacchi aerei. Il secondo prevede di colpire le strutture militari taiwanesi, che sono concentrate in pochi luoghi e molto esposte. [Seguirebbero] poi la “battaglia a tre dimensioni” (terra, mare, aria), la guerra informatica, le operazioni speciali e la guerra psicologica, che include la manipolazione dell’opinione pubblica.
Eppure, un conflitto a cavallo dello Stretto sarebbe controproducente per Pechino su almeno tre livelli. Il primo riguarda le perdite umane, i danni infrastrutturali e psicologici subiti da Formosa, di cui Pechino dovrebbe poi prendersi carico.
In secondo luogo, l’intervento militare innescherebbe la reazione degli Stati Uniti e del Giappone, che vedono proprio nel rinnovato rapporto con Formosa una soluzione per estendere il raggio d’azione della loro politica estera nel Mar Cinese Meridionale. Difficilmente Washington e Tokyo lasceranno che Pechino acquisisca il vantaggio strategico di prendersi Taiwan.
Infine, il conflitto danneggerebbe l’immagine della Repubblica Popolare nel mondo e soprattutto in Asia-Pacifico. Ciò alzerebbe il livello di allerta anche dei paesi vicini, inclusi i partner di Pechino.
La riunificazione pacifica resta quindi la prima alternativa di Pechino per perseguire l’obiettivo prefissato. In tale contesto, colmare il margine con gli Usa sul piano militare sarebbe comunque essenziale, poiché potrebbe scoraggiare l’opposizione di Washington e togliere certezze a Taipei. Invogliandola a trovare un accordo. Parafrasando l’Arte della Guerra di Sunzi, in questo scenario dagli esiti affatto scontati, Pechino preferirebbe vincere senza combattere. >>
GIORGIO CUSCITO