venerdì 28 giugno 2019

Tra istruzione e cultura

In un articolo su Micro-Mega, Edoardo Lombardi Vallauri sostiene che “forse la cosa più di sinistra è l'istruzione, [perché] dove la maggioranza degli elettori è abbastanza attrezzata intellettualmente e culturalmente, i pifferai non vincono le elezioni.“
A parte il fatto che i pifferai abbondano ovunque, a ‘sinistra’ come a ‘destra’, è indiscutibile che l’istruzione, e quindi la scuola (nei suoi vari gradi), rappresenti uno dei problemi principali nella gestione dello Stato.
Quelle che seguono sono le riflessioni di Aldo Giannuli (tratte dal suo sito), sulla difficile “mission” della scuola moderna, sempre in bilico tra la necessità di fornire una semplice istruzione e l’opportunità di formare una vera e propria cultura. 
LUMEN


<< Nella società più recente, si è affacciata una figura socio culturale poco osservata o al massimo considerata alla stregua di una macchietta di cui ridere: il semi-acculturato che, invece, merita di essere studiato, anche perché il fenomeno tende ad estendersi. E vale la pena di prendere il discorso dall’inizio.

La scolarizzazione di massa, storicamente, ha avuto più successo sul piano dell’istruzione professionale che su quello della diffusione della cultura. Anche la formazione culturale di base è stata tradizionalmente affidata alla scuola media e, segnatamente quella superiore, mentre cessa quasi del tutto nell’Università (salvo che per quei corsi di laurea in cui professione e cultura coincidono come per la formazione degli insegnanti) e questa tendenza è andata via via accentuandosi.

Ad esempio, il corso di laurea di Legge ha via via rinunciato o molto ridimensionato insegnamenti quali Filosofia del diritto, Diritto canonico, Storia del diritto, per non dire del gruppo romanistico che, sino mezzo secolo fa, era ritenuto il fulcro formativo dell’intero corso. Il tutto a vantaggio dei “diritti” immediatamente operativi (commerciale, del lavoro, penale, amministrativo e relative specificazioni ed ibridazioni). Quindi sempre più scuola di istruzione professionale, che scuola di formazione generale.

Il risultato è stato quello di produrre operatori più o meno buoni del diritto, dell’economia, dell’ingegneria o della medicina e così via, muniti di una sommaria infarinatura culturale negli altri campi (talvolta anche contigui: quanto capiscono di economia e finanza i laureati in legge? E quanto spazio ricevono gli insegnamenti di psicologia a Medicina?).

Ovviamente ci sono precise ragioni di ordine economico che spingono in questa direzione: gli studi universitari costano tanto allo Stato quanto agli studenti, per cui è giusto contenere la durata dei corsi con materie non strettamente utili all’impiego lavorativo. Questo, però, ha avuto una serie di ricadute non sempre positive, per cui, più che giuristi, si è finito per produrre “idraulici del diritto”, al posto di economisti “ragionieri di lusso” e così via.

Probabilmente, qualche ritocco (neanche troppo insistito) tanto a livello di medie superiori quanto a livello universitario, potrebbe ottenere risultati diversi. Il problema è quello di fornire allo studente una dose sufficiente di curiosità e mezzi culturali adeguati ad una vita di costanti aggiornamenti ed approfondimenti. In fondo, che un medico legga di tanto in tanto un romanzo, che un avvocato visiti una mostra di pittura o un architetto cerchi di capire il contesto politico, economico ed anche teologico-filosofico del barocco, alla fine, può produrre anche migliori risultati in clinica, in tribunale e nel recupero di una piazza.

E, per la verità, non mancano (anche se sono troppo pochi) avvocati, medici ed architetti che dedicano qualche pezzo del proprio tempo ad attività di questo genere. Il guaio è che questo avviene molto a casaccio, senza alcuna “struttura di insieme” che organizzi le acquisizioni culturali man mano realizzate e su tutto si abbatte il bombardamento mediatico (di giornali, radio, Tv, cinema e, più di recente, il web) che dà vita ad un costante rumore di fondo, magari “rimbalzato” dalle conversazioni che un po’ nutre e di più confonde.

E tutto questo ha una crescita esponenziale per la crescita tumultuosa dell’offerta culturale sempre più diversificata, ma spezzettata. Ottant’anni fa, il bagaglio di conoscenze letterarie di una persona di media cultura includeva necessariamente i grandi classici della letteratura italiana (Dante, Petrarca, Leopardi, Manzoni, ecc.), qualche rudimento di letteratura Latina (almeno Virgilio), e greca (soprattutto per quelli che avevano fatto il classico) e poi - non era obbligatorio, ma non guastava - la conoscenza di qualche testo francese (ad esempio Balzac), russo (ad es. Tolstoj) o inglese (Shakespeare).

Già fra gli anni cinquanta ed i sessanta, questo sarebbe stato ritenuto un bagaglio meramente scolastico, al di sotto di uno standard medio e autori come Pirandello, Pavese, Calvino, Gadda, Ibsen, Kafka, Lorca, Proust, Joice, Mann o Sartre o classici di altre letterature come Shakespeare iniziavano ad affacciarsi fra quanti non potevano essere ignorati. Fra i settanta e i novanta si imponevano all’attenzione altri importantissimi come Sciascia, Bufalino, Morselli, Yourcenar, Saramago, Borges, Garcia Marques, Schnitzler, Roth, ecc. ecc. E non è difficile immaginare che nei prossimi anni assisteremo alla scoperta di almeno alcuni classici cinesi, indiani, egiziani ecc.

Quindi il bagaglio base si è fatto ben più pesante, ma a questo ha sopperito una offerta mediatica sempre più invadente e disordinata. E pazienza se ci sono persone che, fra una trasmissione di Rai Storia ed una conferenza di Alessandro Barbero su ‘You tube’ (prodotti culturali molto buoni in sé, ma fuori “cornice”), si convincono di essere un esperto di storia: magari si tratta di una formazione un po’ confusa, ma pur sempre basata su roba buona.

Il guaio è quando la gente si abbevera alle fonti più che inquinate di tanto web o a trasmissionacce di questa o quella rete. E qui comincia a nascere la figura del mezzo acculturato: l’orecchiante che ha sommato alla sua formazione professionale un po’ di chiacchiericcio televisivo, qualche titolo di quotidiano, mezza trasmissione radio ascoltata in auto eccetera e si convince di essere una persona acculturata.

Le stimmate sicure dell’acculturato recente e parziale sono nel linguaggio: capita sempre più spesso di sentire persone che sdottoreggiano di politica, diritto, economia o quel che vi pare, usando in modo del tutto improprio espressioni tecniche. Ora, il guaio di questa “divulgazione alle vongole” è la nascita di un robusto strato di semi-acculturati che poi votano e votano male, comprano con effetti disastrosi sul mercato culturale, parlano diffondendo idee sempre più confuse. Ed è in questo spazio che si profila il fenomeno del semi-acculturato che diventa un castigo di Dio e produce involuzione culturale.

Ovviamente la soluzione non è mettere il bavaglio ai mass media o costringere la gente a corsi scolastici di richiamo. La soluzione sta nel dare una robusta base culturale, che esige una didattica scolastica molto più adatta ai nostri tempi e dall’altro ripensare la divulgazione dandogli più spessore metodologico: fare divulgazione nel 2020 non è la stessa cosa di farla nel 1960 al tempo di “Non è mai troppo tardi”. >>

ALDO GIANNULI

venerdì 21 giugno 2019

Punti di vista – 8

NUOVE IDEE
Ogni buona idea [sociale] prima o poi degenera, e si trova a dover lasciare il passo a un’altra buona idea, che a sua volta degenererà. Anzi: ogni buona idea contiene in sé i germi della sua perversione.
Successe al cristianesimo, per dire, al comunismo, al nazionalismo, alla globalizzazione; per alcuni queste idee erano pessime già da subito, ma per altri contenevano un potenziale emancipatorio, o di progresso, che offriva una soluzione ai problemi del momento.
Generalmente, chi ‘ci credeva’ pensava di aver trovato una soluzione definitiva, non temporanea. Il fatto è, però, che la stasi non è di questo mondo e nessuno stato di cose può considerarsi permanente.
Come un eco-sistema, qualsiasi società umana non può aspettarsi di approdare alla perfezione, ma solo di adattarsi via via alle circostanze che inevitabilmente mutano. Le idee sono risposte alle circostanze.
GAIA BARACETTI


FAMIGLIA MODERNA
La famiglia [tradizionale] è stata assolutamente funzionale al modo di produzione capitalista-manufatturiero che l’ha propugnata e difesa fino agli anni sessanta, poi il modo di produzione ed i desiderata delle élite sono cambiati e, la famiglia, non era più necessaria, almeno in occidente.
Nel terzo mondo serviva e serve ancora, chiaramente, per la delocalizzazione a basso costo che sfrutta, come nell’ottocento, non solo le braccia dei genitori ma anche quelle dei bambini nella produzione di merci per un occidente asservito al consumismo trionfante.
Nell’attuale società liquida occidentale, al momento, serve il singolo; esso è perfettamente funzionale al consumo: la casa, gli acquisti, le spese che, prima, venivano divisi all’interno di un nucleo familiare o di coppia, sono a carico di singoli individui, tutto è moltiplicato all’infinito. “Single è bello”.
MICAELA BARTOLUCCI


STATO BANCHIERE
I vantaggi di avere la piena disponibilità del sistema creditizio per uno Stato che vuole intervenire nell’attività economica sono innegabili.
Si può infatti obbligare il sistema ad assorbire una quota voluta di titoli di debito pubblico al tasso politico deciso dal Governo; si può determinare la riserva obbligatoria per manovrare la liquidità monetaria; si possono indirizzare i capitali su settori strategici; si gestisce direttamente il mercato valutario.
In questo senso, tutta la Prima Repubblica è dominata dalla banca pubblica.
Il capitale finanziario è sottoposto a una forte repressione, essendo il mercato borsistico quasi inesistente, mentre il risparmio popolare è intercettato in larga parte dall’amministrazione postale e dalle casse di risparmio.
Volente o nolente, il miglior impiego della rendita diviene l’attività produttiva, con i riflessi positivi del caso. (…)
Il “mercato” bancario è fortemente regolamentato. La cd. “foresta pietrificata” vede una regolazione minuziosa circa l’apertura di nuovi sportelli, la fusione e la costituzione di nuovi istituti, la gestione delle masse monetarie.
La banca diventa un servizio pubblico di alto livello: si hanno clienti, non consumatori.
Gli istituti non ragionano in termini di profitto o di creazione di valore, perché non hanno investitori da remunerare o dividendi da distribuire: la partecipazione estera al sistema bancario è pressoché irrilevante. (…)
I fallimenti bancari nel periodo 1945-1990 possono grosso modo ricondursi ai casi Sindona e Calvi, ambiti straordinari e assai oscuri.
Mettere i soldi in banca diviene un sinonimo di sicurezza e di fiducia nell’Italia del risparmio e della crescita.
ANTONIO MARTINO


AUTOCRATI DI OGGI
Gli autocrati dell'antichità si dovevano esporre in prima persona, comandare eserciti da una collina, arringare le folle da un palco, sfilare in parata. Gli imperi si conquistavano con gli eserciti e si mantenevano con fortezze, valli, guarnigioni.
Oggi tutto questo non esiste, non ha più senso.
Può esistere un solo impero, planetario e si conquista con la persuasione, col lavaggio del cervello. (…) Il mondo non è più organizzato sulla base di "chi controlla la risorsa X ...", è invece organizzato sulla base di "chi racconta la storia che ...".
L'interruttore principale sono i "media", una tecnologia che nel Novecento era agli inizi e i "potenti" dovevano usare lo "Istituto Lvce" o la carta stampata.
I "media" di oggi sono la "connessione permanente", sono le stazioni ricetrasmittenti 5G che ti cuociono come un forno a microonde, ma consentono di mettere ovunque e addosso a chiunque, degli schermi con cui imporre lo "info-tainment", cioè l'insieme di "prodotti di intrattenimento" e di "informazione" che vanno a formare la "cultura popolare", la "vulgata". (…)
Non esistono più guerre, perché non servono.
Esistono "operazioni di polizia" e anche quelle saranno sempre meno necessarie mano a mano che gli stessi strumenti di controllo delle masse saranno portati dove ancora non ci sono.
LORENZO CELSI


CANISTI E GATTISTI
Qualcuno ha operato la distinzione fra ‘gattisti’ e ‘canisti’.
I ‘canisti’ sono ovviamente coloro che amano i cani, animali affettuosi, obbedienti, maldestri e teneri come bambini.
I ‘gattisti’, al contrario, sono degli ammiratori pressoché disinteressati dei gatti.
Per amare i gatti bisogna accettare che uno li chiami e non vengano, gli dia ordini e non li eseguano, li ami appassionatamente e ne riceva solo un dignitoso e riservato affetto.
I cani - anche in questo simili ai bambini - sono rumorosi; i gatti, come mafiosi siciliani, parlano con gli occhi.
Per manifestarvi il suo amore un cane vi salterà addosso per leccarvi la faccia, un gatto, a distanza, si limiterà a socchiudere gli occhi.
GIANNI PARDO

venerdì 14 giugno 2019

La Sinistra e il Nazionalismo – 4

Le differenze tra il nazionalismo di destra e quello di sinistra, secondo Carlo Formenti (quarta ed ultima parte). LUMEN


<< 17 - Lo scetticismo nei confronti della nazione va di pari passo con lo scetticismo nei confronti dello Stato. Il ripudio delle esperienze storiche del socialismo reale e l’ideologia “orizzontalista” che, dopo la svolta libertaria dei nuovi movimenti, accomuna tutte le componenti della sinistra radicale, hanno fatto sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo Stato in quanto tale non può più essere usato.

Per questa ideologia neo-anarchica lo Stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque il nemico del popolo; di conseguenza, il concetto stesso di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, la speranza di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello Stato borghese lascia il posto a pratiche di contestazione permanente, alle manifestazioni sistematiche di sfiducia nei confronti del potere, a una sorta di democrazia dell’opinione che ha come protagonista un popolo che diffida ma non aspira a governare.

Tale atteggiamento rispecchia un punto di vista che non mira ad abolire il capitalismo bensì, nella migliore delle ipotesi, ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova evidente il ruolo svolto da Terzo settore, ONG e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordo-liberale del “capitalismo sociale”. Ne è inoltre prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “bene-comunista”, che invita a voltare le spalle al comunismo statale, a immaginare nuove istituzioni estranee alla logica della sovranità e al principio di autorità, che dà per scontato infine che un partito rivoluzionario che pretenda di essere autonomo dai movimenti non solo non serve, ma è controproducente.

Siamo dunque di fronte a discorsi che assumono come obiettivo una radicale spoliticizzazione della società civile. Come se non bastasse, a evidenziare la sostanziale convergenza fra liberalismo e “bene-comunismo” è lo slogan, in sintonia con le tesi dell’economista liberale Elinor Ostrom, secondo cui la gestione dei beni comuni non dovrebbe essere ”né pubblica né privata”: si tratta d’una doppia negazione apparente, nel senso che la vera negazione è solo quella che ripudia il pubblico, mentre la negazione del privato è mistificatoria, ove si consideri che, una volta sottratto al controllo pubblico, qualsiasi bene è inesorabilmente destinato a diventare privato.

18 - Le ideologie criticate nelle tesi precedenti possono essere sintetizzate con la formula “cambiare il mondo senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo”, e la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi... Del resto, nella formulazione gramsciana, le classi subordinate non “prendono” il potere, si fanno Stato; il punto non è dunque abolire lo Stato in quanto ente distinto dalla società, bensì abolirne il carattere di classe.

Questo è il programma massimo, ma anche in situazioni in cui conservava il proprio carattere di classe, lo Stato si è dimostrato capace di funzionare come strumento di emancipazione: dopo la crisi del 1929, ha interpretato la reazione di autodifesa della società civile nei confronti di un sistema capitalistico senza regole, tornando a governare terra, lavoro e capitale; dal 1930 al 1980 la logica del mercato ha dovuto piegarsi alle esigenze di ridistribuzione sociale del reddito e gli Stati-nazione non apparivano impotenti di fronte agli interessi del capitalismo globale.

Il vero problema quindi – appurato che il potere politico può, a determinate condizioni, garantire reali miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini – non è Stato sì Stato no, bensì quale tipo di organizzazione del potere può favorire la transizione a una società post-capitalista. Prima di affrontare tale nodo, occorre prendere congedo dal mito dell’estinzione dello Stato, mito che si basa su una visione salvifico-religiosa di un futuro in cui la società sarà liberata da qualsiasi tipo di conflitto. Una società del genere non può esistere né mai esisterà, perché anche dopo l’eliminazione delle classi sociali continueranno a sussistere contraddizioni e quindi conflitti, e perché anche la “semplice amministrazione delle cose” (…) non potrà fare a meno di specialismi e gerarchie burocratiche.

19 - Le rivoluzioni bolivariane, assieme al concetto di “socialismo del XXI secolo” da esse introdotto, hanno indotto i marxisti latino-americani a riprendere lo storico dibattito sull’alternativa riforme/rivoluzione. Engels e la Luxemburg avevano by-passato tale contrapposizione sostenendo che nulla impedisce alle classi subalterne di conquistare il potere attraverso riforme radicali, a condizione che tali riforme non siano fini a se stesse bensì un mezzo per arrivare alla rivoluzione socialista.

Ora è evidente che nessuna delle rivoluzioni in questione può essere definita socialista: pur avendo introdotto costituzioni avanzate che prevedono la possibilità del superamento dell’economia capitalista e delle istituzioni politiche borghesi, i governi bolivariani di Venezuela, Bolivia ed Ecuador non hanno abolito la proprietà privata, né hanno avviato un processo di trasformazione radicale della matrice produttiva. Tuttavia la dicotomia secca fra socialismo e capitalismo pecca di euro-centrismo. Si tratta piuttosto di capire in quale misura queste rivoluzioni hanno messo in moto un processo di democratizzazione dello Stato e creato i presupposti per l’indipendenza nazionale di questi Paesi dall’imperialismo occidentale.

Questo perché non va dimenticato che la lotta di classe in certe circostanze assume forma geo-politica, e che il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili.

20 - La novità storica è che oggi, a causa degli effetti che la rivoluzione liberale degli ultimi decenni ha avuto sulla composizione di classe all’interno dei singoli Paesi e sulle relazioni di subordinazione fra centri e periferie, sorte anche nel campo capitalista occidentale, nemmeno eventuali rivoluzioni anti-liberiste all’interno di tale campo potrebbero evitare di attraversare una fase nazional-democratica e riformista.

In primo luogo, perché è da un secolo abbondante che il proletariato occidentale non vuole fare la rivoluzione, ma preferisce seguire le forze politiche che gli promettono miglioramenti graduali. Inoltre, dal momento che tutti i mercati del lavoro mantengono carattere locale, le solidarietà politico-sociali devono essere costruite su basi geografiche (ma non etniche!), il che significa:
1) che la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di una lotta anti-capitalista;
2) che anche qui in Occidente i singoli Stati-nazione sono chiamati a rivendicare la propria autonomia per rendere possibili politiche di ridistribuzione e tutela dei diritti sociali;
3) che lo smarrimento delle identità e la forma populista del conflitto fanno sì che la lotta anticapitalista si presenti sotto le spoglie neo-giacobine di lotta dei cittadini contro l’uso capitalistico dello Stato (il cittadino ribelle rimpiazza il proletario).

Ecco perché tutti i programmi politici dei movimenti populisti di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Mélenchon a Podemos) sono programmi “riformisti” che non presentano chiari caratteri anticapitalisti: ricondurre i settori strategici dell’economia (banche, trasporti, comunicazione, tecnologie avanzate ecc.) sotto mano pubblica, rinazionalizzare i servizi pubblici (sanità, trasporti, educazione ecc.), piena occupazione, sostegno alle piccole medie imprese ecc.

Si tratta di programmi che cercano il sostegno di blocchi sociali maggioritari e trasversali e che, qualche decennio fa, sarebbero stati definiti socialdemocratici, ma oggi, nell’epoca del totalitarismo liberal-liberista, suonano sovversivi, nella misura in cui possono rappresentare un primo passo verso la trasformazione delle lotte del cittadino ribelle in lotta di classe.

21 - Nelle attuali condizioni storiche, una rivoluzione nazional-popolare che si ponga l’obiettivo di conquistare il potere per avviare il processo costituente di un regime politico democratico non appare meno difficile da realizzare di quanto non lo siano state le rivoluzioni socialiste del passato.

Oggi come ieri essa può avvenire solo in presenza di una profonda crisi dello Stato, della società e dell’economia; di più: può avvenire solo se a tali condizioni si aggiunge una diffusa sensazione di insicurezza, paura e minaccia, la sensazione che un cambiamento radicale sia necessario per difendere il proprio mondo vitale. Oggi come ieri il verificarsi di tali condizioni non è prevedibile né programmabile, si potrebbe dire che la rivoluzione è sempre matura e non lo è mai, o che la rivoluzione avviene dove e quando avviene. >>

CARLO FORMENTI

sabato 8 giugno 2019

La Sinistra e il Nazionalismo – 3

Le differenze tra il nazionalismo di destra e quello di sinistra, secondo Carlo Formenti (dal sito di Sollevazione - terza parte di quattro). LUMEN


<< 12 - L’obiezione più ricorrente al sovranismo di sinistra consiste nell’affermare che, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale è illusoria. Tuttavia autori come Hosea Jaffe e Samir Amin hanno contestato questa affermazione, dimostrando che il ‘de-linking’ dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l’unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo.

Solo gli Stati sovrani possono negare agli strozzini della finanza globale il pagamento dei debiti imposti da Fmi, Banca mondiale, Bce e consimili istituzioni sovranazionali, prive di legittimazione democratica. ‘De-linking’ non significa autarchia: vuol dire ridurre al minimo indispensabile le importazioni, massimizzare e ottimizzare l’uso delle risorse locali, conquistare la sovranità alimentare; vuol dire accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, promuovendo la piena occupazione e la difesa degli interessi delle classi subalterne; vuol dire sfruttare i confini nazionali e la sovranità monetaria per regolare i flussi commerciali e di capitale.

Chi sostiene che tutto ciò è impossibile concepisce la storia come un processo lineare e irreversibile, sovradeterminato da ferree leggi economiche rispetto alle quali la politica non può fare altro che adattarsi.

13 - L’economicismo e l’idea di necessità storica che regnano a sinistra si manifestano chiaramente non appena si affronta il problema dell’Unione Europea: ignorando le prove inconfutabili della sua irriformabilità, la palese impossibilità di democratizzarne le istituzioni, gli europeisti “critici” ripetono ottusamente la tesi che la globalizzazione ha prodotto trasformazioni politiche e socioeconomiche tali da non poter essere più gestite dagli Stati-nazione.

Dal presupposto secondo cui il campo di azione e organizzazione politica deve necessariamente coincidere con il livello di strutturazione più elevato del capitale, deducono che il piano sovranazionale è oggi l’unico sul quale si possono rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici. Si argomenta che la sovranità nazionale, nell’attuale contesto economico e geopolitico, possono permettersela solo gli Stati-continente come Stati Uniti, Cina e Russia, mentre i Paesi europei devono integrarsi se non vogliono finire schiacciati dalla concorrenza di quei colossi.

Per inciso, questa tesi coincide – non a caso! – con quella delle élite industriali e finanziarie del Vecchio Continente, così come, analogamente, sinistre e settori capitalistici più avanzati convergono nel bollare come conservatrice e reazionaria ogni rivendicazione di indipendenza nazionale. Anche i filosofi portano il loro contributo, tentando di evocare un improbabile “patriottismo europeo” le cui radici risalirebbero millenni addietro, a partire dallo scontro fra democrazie greche e imperi asiatici e dalla successiva cristianizzazione dell’Impero romano, eventi nei quali sarebbe già stata presente in nuce l’idea di uno spazio geopolitico unitario, congiuntamente a una rappresentazione ideale di tale spazio.

Ma la verità è un’altra, ed è contenuta nel celebre detto che definisce l’Europa come una mera espressione geografica. L’Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l’utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l’istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare.

14 - Ma se la UE non è, né mai potrà diventare, uno Stato unitario o una federazione di Stati, come possiamo definirla?

La risposta è che si tratta di un mostruoso esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek. Muovendo dalla constatazione che il capitalismo non conosce frontiere né radicamento territoriale – mentre la gabbia dello Stato-nazione lo costringe a tener conto degli interessi delle classi subordinate, nella misura in cui queste si organizzano nei corpi intermedi fra Stato e mercato – l’utopia di von Hayek si propone di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica.

Indebolendo l’autonomia decisionale degli Stati membri e integrandoli in un nuovo ordine di mercato, la Ue crea una superstruttura che opera come una sorta di polizia economica, sfruttando l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare i conflitti e condizionare i comportamenti individuali e collettivi. Il sistema dei trattati assume valore costituzionale, agisce di fatto come una costituzione senza Stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la ‘governance’, vale a dire con un processo decisionale di tipo negoziale (nel quale però non tutti i negoziatori hanno lo stesso peso!) che produce regole con il consenso dei destinatari, i quali le accettano “volontariamente” conservando – ma solo sul piano formale! – le loro sfere di facoltà e poteri.

L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordo-liberalismo che, contrariamente al liberismo classico basato sul ‘laissez faire’, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi – a partire da quello della forza lavoro – e di vegliare sul fatto che il principio di concorrenza non venga messo in questione da oligopoli, corpi intermedi e interventi statali diretti in campo economico.

15 - Si insiste spesso sul fatto che le regole della UE vengono decise e imposte dalla nazione egemone: è l’interesse nazionale della Germania a prevalere su quelli di tutti gli altri partner europei. La linea dell’austerità, all’interno della Germania, ha infatti favorito il contenimento dei livelli salariali e, assieme all’alto tasso di produttività del sistema industriale tedesco, ha sostenuto il modello mercantilista dell’economia di quel Paese; viceversa per i Paesi del Sud Europa ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche.

Tutto vero, ma è altrettanto vero che questa relazione asimmetrica è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dagli Stati periferici. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, vanno ricordate le scelte dei vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, a partire dalla promozione dell’indipendenza della banca centrale dal potere politico, decisione che ha messo il nostro debito pubblico nelle mani della finanza privata internazionale, favorendone la levitazione e ponendoci in condizioni di subordinazione nei confronti dei Paesi che controllano le linee di credito.

Già Guido Carli auspicava un mutamento costituzionale (…) che avrebbe dovuto ridefinire la composizione della spesa pubblica (penalizzando la spesa sociale) e promuovere la ridistribuzione del potere politico a favore dell’esecutivo e a danno del legislativo. I suoi eredi “di sinistra”, preoccupati per gli alti livelli di conflittualità sociale e per l’uso “spregiudicato” del bilancio pubblico, hanno pensato bene di importare dall’esterno nuove regole.

L’ingresso nello SME, prima, e nella UE, poi, hanno avuto proprio questa funzione. A partire da quel momento, il richiamo al vincolo esterno (“non lo vogliamo noi, ma l’Europa”) è servito sistematicamente a legittimare le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazione di tutto il privatizzabile, precarizzazione del lavoro e, last but not least, l’implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane.

16 - La speculazione finanziaria colpisce soprattutto quei Paesi che non possono contare su una banca centrale come prestatore di ultima istanza, ecco perché la UE espone sistematicamente i propri membri a tale rischio. Trattati e regole costringono i Paesi che hanno bisogno di denaro a rivolgersi al mercato, il quale assume così una funzione disciplinare nei confronti delle politiche economiche dei governi: l’assistenza finanziaria viene concessa in cambio di “riforme”, cioè dell’impegno a tagliare spesa sociale e salari, privatizzare i servizi pubblici e contenere drasticamente il costo del lavoro.

La macelleria sociale imposta alla Grecia dopo la capitolazione del suo governo nei confronti dei diktat della Troika (Commissione Europea, Bce e Fmi) è un esempio del destino tragico che incombe sulle nazioni e sui popoli che aderiscono all’area dell’euro. È vero che le borghesie dei Paesi europei periferici si sono volontariamente assoggettate a vincoli esterni, pur di conservare il potere sulle proprie classi subalterne, ma è altresì vero che la moneta unica ha consentito alla Germania di costruire il proprio successo economico sulla miseria altrui: l’euro ha diviso l’Europa fra un centro esportatore e una periferia dipendente, ha “sud-americanizzato” le nazioni dell’Est e del Sud Europa.

Ecco perché il principio di de-linking teorizzato da Samir Amin a proposito della relazione fra potenze imperiali e Paesi ex coloniali può e deve essere fatto proprio anche dai Paesi euro-mediterranei. Solo uscendo dall’euro e riconquistando la sovranità monetaria sarà possibile ridare spazio al conflitto ridistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e rinazionalizzando i servizi pubblici, e infine adottare politiche fiscali progressive.

Solo gli Stati sovrani dispongono degli strumenti per realizzare giustizia sociale e piena occupazione, e per gestire il debito sovrano e gli effetti delle crisi senza cadere nelle mani degli strozzini della finanza privata. Certamente i costi dell’uscita dall’euro non sarebbero trascurabili – benché non tragici, come ventilato dalla propaganda dei media di regime e come smentito dal caso della Brexit –, ma ben peggiori sono i costi della permanenza in termini di democrazia, sovranità popolare, povertà e disuguaglianza sociale. >>

CARLO FORMENTI

(continua)

sabato 1 giugno 2019

La Sinistra e il Nazionalismo – 2

Le differenze tra il nazionalismo di destra e quello di sinistra, secondo Carlo Formenti (dal sito di Sollevazione - seconda parte di quattro). LUMEN


<< 6 - Che la globalizzazione sia l’esito di una tendenza di sviluppo “oggettiva” del modo di produzione capitalistico (oltre che portatrice di benefici per tutti) è una mistificazione alimentata dalla narrazione liberal-liberista, nonché fatta propria da una sinistra intrisa di progressismo, la quale pensa che ogni balzo evolutivo del capitale, pur comportando spiacevoli “effetti collaterali”, avvicini l’avvento di un mondo migliore.

Accettare questa narrazione significa non saper distinguere fra internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali – processo da sempre associato al capitale – e globalizzazione come strategia di quella “guerra di classe dall’alto” che il capitalismo ha avviato a partire dalla crisi degli anni Settanta del secolo scorso. Il centro di irradiazione del cosiddetto processo di globalizzazione è stato, non a caso, la potenza egemone degli Stati Uniti che, attraverso la deregulation dei flussi di capitale e di merci, ha messo in atto un progetto di “mercatizzazione del mondo”, in base al principio secondo cui chi domina i mercati domina il mondo.

Il braccio armato di tale progetto sono le grandi imprese transnazionali (in larga maggioranza americane), in ragione della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò comporti la fine dello Stato-nazione è un’idiozia.

In primo luogo, le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi Stati di origine; inoltre, se è vero che sono abbastanza potenti per condizionare le scelte della politica (in misura inversamente proporzionale alla forza degli Stati in cui operano), è altrettanto vero che gli Stati al centro del sistema mondo le utilizzano a loro volta per pompare valore dai Paesi periferici. In conclusione: la globalizzazione è un processo politico non meno che economico, sostenuto e accompagnato dagli Stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale con la complicità delle élite nazionali subordinate.

7 - Quanto asserito nella tesi 6 può essere formulato anche così: l’obiettivo della globalizzazione come progetto politico non è liberare il capitale dal giogo degli Stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo Stato, al contrario vuole costruire uno Stato forte ma non democratico.

La battaglia ideologica contro il nazionalismo va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo strategico di spezzare il legame fra Stato e democrazia. L’unica forma di democrazia accettabile dal capitalismo globale è quella rispettosa del mercato, vale a dire la democrazia puramente formale garantita dallo Stato liberale. Il nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra quali ideologie ufficiali del sistema.

8 - Eventi come l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit inglese, i successi elettorali dei populismi di destra e sinistra in vari Paesi del mondo e il ritorno di politiche protezioniste non sono tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto sintomi del fatto che la macelleria sociale innescata dai processi di globalizzazione ha delegittimato la narrazione globalista che ha a lungo alimentato le speranze di milioni di esseri umani in un futuro migliore. “Trump non è il boia del globalismo ma il medico legale che ne certifica il decesso”.

La crisi della globalizzazione era già in atto prima degli eventi in questione, come certifica il calo degli scambi commerciali che ha anticipato la, più che fatto seguito alla, reintroduzione dei dazi, oltre al riaccendersi del conflitto imperialista fra grandi potenze per la spartizione del mercato mondiale. Tuttavia le cause principali sono sociali e politiche, a partire dalla resistenza crescente delle larghe masse dei perdenti nel gioco della globalizzazione nei confronti delle politiche liberiste.

9 - La crisi della globalizzazione ha colto di sorpresa e gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo, le quali, non disponendo – al contrario dei liberali – di soluzioni politiche di ricambio, reagiscono, se va bene, etichettando come reazionarie, se non fasciste, le idee “sovraniste” (aggettivo che, al pari di populista, viene usato con significato spregiativo, senza distinguere fra le differenti modalità di impostare la questione della sovranità nazionale); se va male, confluendo, con il plauso dei media mainstream, assieme a liberali e socialdemocratici, in un fronte anti-populista e antinazionalista.

Parole come patria e nazione suscitano rabbia e incutono terrore negli eredi di quella cultura politica che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state anche, talvolta soprattutto, rivoluzioni nazional-popolari, che ancora masticava gli insegnamenti di Marx e Lenin sulla questione nazionale. (…) Nei decenni successivi, le sinistre hanno viceversa adottato un internazionalismo astratto che ha finito per somigliare sempre più all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici.

Questa ideologia da cittadini d’un mondo senza frontiere rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Per “salvarsi l’anima”, e dimostrare che conservano attenzione nei confronti degli ultimi, costoro sbandierano la propria solidarietà nei confronti dei migranti e difendono una politica ‘no border’ di accoglienza illimitata.

Tale atteggiamento rimuove:
1) il fatto che il principio di libera circolazione delle persone serve a nascondere che tale circolazione non è affatto libera, ma il prodotto di coazione economica e politica;
2) il fatto – ampiamente riconosciuto e analizzato da Marx – che l’immigrazione fa comodo in primo luogo al grande capitale, che può così attingere a un ampio bacino di mano d’opera a basso costo e priva di ogni potere contrattuale;
3) il fatto che il fenomeno accelera e favorisce il processo di smantellamento del welfare, fondato sull’esistenza di una comunità nazionale socialmente e culturalmente sufficientemente omogenea.

Se poi i proletari autoctoni reagiscono all’impatto del fenomeno sui quartieri popolari, e ai suoi effetti di dumping sociale, votando per i movimenti populisti, vengono derisi (si nega l’esistenza stessa del problema, declassato a effetto di propaganda e manipolazione ideologica) ed accusati di razzismo.

10 - La difesa della sovranità nazionale è necessariamente di destra? La risposta negativa è implicita nelle tesi precedenti, ma vale la pena di aggiungere ulteriori considerazioni.

In primo luogo, è evidente che esistono due idee di nazione: la prima “naturalistica”, la quale presume che la nazione esistesse ben prima della nascita degli Stati moderni e delle rivoluzioni borghesi, perché affonda le radici in fattori fisici, climatici, di sangue e suolo ecc.; la seconda è invece consapevole che la nazione (al pari del popolo) è un prodotto storico della vita politica. Per questa seconda visione la patria non è comunità immaginata bensì ‘res publica’, una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare.

È il punto di vista che oggi sostengono i movimenti populisti/socialisti (da Sanders a Podemos, a Mélenchon) e che in passato sostennero autorevoli esponenti della Terza Internazionale come Karl Radek (…), il quale invitava il Partito comunista tedesco ad assumere la guida della resistenza del popolo tedesco alle condizioni neo-coloniali che gli erano state imposte dalle potenze vincitrici della 1° Guerra Mondiale, argomentando che, in caso contrario, sarebbero stati i nazisti ad assumersi il compito e a conquistare il potere (com’è puntualmente avvenuto). È, infine, il punto di vista che afferma che l’internazionalismo può esistere solo come rapporto di solidarietà fra nazioni indipendenti e sovrane, come cooperazione fra uguali.

11 - Il rapporto fra nazioni del centro e nazioni semiperiferiche e periferiche incorpora una relazione di dominio e sfruttamento fra classi straniere e locali. Sia Marx che Lenin avevano ben presente il fatto che il saccheggio perpetrato dai Paesi occidentali ai danni del resto del mondo era la causa fondamentale dell’imborghesimento del proletariato delle nazioni industrialmente avanzate. Autori come Fanon, Amin, Wallerstein e altri hanno arricchito la teoria marxista dimostrando come le nazioni periferiche non ospitino economie pre-capitaliste, ma siano pienamente integrate in un sistema capitalistico mondiale nel quale la loro arretratezza è condizione necessaria per la crescita e lo sviluppo delle nazioni del centro.

Questa verità non vale oggi solo per quei Paesi ex coloniali che stanno rapidamente ricadendo sotto il dominio delle potenze imperialiste occidentali (e di altre potenze emergenti), vale anche per la relazione fra Paesi del Nord e del Sud Europa e in alcuni casi – come quello italiano – vale per il rapporto fra Nord e Sud all’interno di un singolo Paese. Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone. >>

CARLO FORMENTI

(continua)