domenica 26 marzo 2023

A cosa servono i Filosofi ? – 1

I Filosofi e la Filosofia (scritti rigorosamente con la maiuscola) hanno rappresentato una parte importante, anzi fondamentale, nella storia del pensiero umano.
Oggi, però, con il continuo progresso del pensiero scientifico, si ha l'impressione che il meglio di loro sia già dietro le spalle.
A questo intrigante argomento è dedicato il post di oggi, che riporta le riflessioni, ironiche e disincantate, dell'amico Sergio Pastore.
Buona lettura (prima parte di due).
LUMEN


<< À quoi bon les philosophes?

Ovvero: a che cosa servono i filosofi? Anticipo subito la risposta che cercherò poi di dimostrare. I filosofi o cosiddetti tali sono una sotto-elite alimentata dalle elite vere e proprie che se ne servono per i loro scopi. Anche le elite hanno infatti bisogno di teste pensanti per mantenere il potere.
Un sottoprodotto del lavoro dei filosofi è l’intrattenimento dello strato sociale più o meno acculturato a cui si assicurano delle belle prebende (docenze universitarie per strologare sul nulla, fornire illusioni alla sotto-elite della sotto-elite, ovvero a studenti e tapini vari in cerca della verità).

Da questo proemio si sarà capito che chi scrive ha un po’ il dente avvelenato contro i cosiddetti filosofi. Però in gioventù ne ha subito il fascino e continua a nutrire per loro una certa simpatia (come gli ex cattolici che restano volenti o nolenti almeno un po’ cattolici: il marchio di gioventù è pressoché indelebile).

Una premessa: non sono né un filosofo di professione, né uno storico della filosofia e nemmeno uno studente di filosofia deluso. Di filosofia ne so ben poco. E allora come oso burlarmi di una materia che non conosco?

Be’, intanto pur non essendo un filosofo di professione, sono pur sempre un “piccolo filosofo”, come mi assicurava Alois Sustar buonanima, mio primo insegnante di filosofia al liceo, bravissima ma noiosissima persona che una volta presi in giro in un compito in classe. Poverino, non se lo meritava, ma era così noioso, santo cielo.

Comunque per animarci a studiare la sua materia ci assicurò che tutti - chi più chi meno - siamo filosofi: chiunque rifletta sulla sua condizione, si ponga le famose e ultime domande (chi sei? donde vieni? dove vai?) è già sulla strada maestra della filosofia, che condurrà alla verità e alla felicità.

Naturalmente converrà o sarà necessario poi leggere e studiare ciò che altri hanno già pensato in passato: reinventare la ruota non ha senso, esiste già, come già esiste la philosophia perennis, quel tesoro di riflessioni sull’uomo accumulatosi nel tempo e che risulta ancora utile, anzi lo sarà sempre (perciò è perenne).

Bene, i piccoli filosofi se vorranno diventare dei veri filosofi all’altezza dei tempi dovranno quindi leggere e studiare almeno le grandi opere dei filosofi maggiori (non basta leggere, bisogna anche studiare, cioè capire ciò che si legge).

Da chi cominceremo? Magari da Platone e Aristotele. Oppure possiamo cominciare da un contemporaneo e risalire a Platone. Comunque la strada per arrivare alla comprensione di noi stessi e del mondo è lunga e impervia.

Passeremo anni e anni a leggere e cercare di capire ciò che le grandi menti hanno pensato e scritto. Ma non è detto che arriveremo a una conclusione soddisfacente: sapere finalmente chi siamo e qual è il nostro posto nel mondo, nel sistema solare, nell’intera galassia e nell’universo.

Alcuni pensatori o ricercatori approdano a qualche conclusione o verità soddisfacente (per loro). Indubbiamente Monod pensava di aver capito qualcosa, qualcosa di fondamentale che lo appagava almeno in parte. “Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te.” Così Agostino nei suoi soliloqui con Dio.

Sì, per sentirci bene e appagati dobbiamo, vogliamo sapere come stanno davvero le cose, perché l’apparenza inganna, ci sono troppi soggetti che vogliono confonderci le idee, farci credere panzane per sfruttarci meglio (in genere questi soggetti li chiamiamo elite).

Ma esistono davvero queste elite di potere che vogliono dominarci? Ecco una questione interessante. Non sarà facile rispondere se non si ha un minimo d’intelligenza e di cultura (la premessa fondamentale per capire è ovviamente l’intelligenza innata, ma anche la cultura aiuta, anzi è importante anch’essa, sempre per lo stesso motivo: reinventare la ruota non ha senso).

Ricorderemo che uno dei trucchi del Diavolo per tentarci meglio è di farci credere che il Diavolo non esiste. Così ci raccontavano le suore da piccoli. E se non esiste siamo liberi di fare ciò che vogliamo, dunque anche peccare (e il Diavolo se la ride).

Oggi sappiamo che il Diavolo in carne e ossa sicuramente non esiste, l’ha detto persino il generale attuale dei gesuiti (contraddetto però nientemeno che dal papa, anche lui un gesuita – un’umile domanda: non potete mettervi d’accordo, Sousa e Bergoglio, invece di confondere le idee del gregge?).

Comunque le elite esistono davvero, almeno così crede il sottoscritto. Vivono nell’ombra, non sono appariscenti. In genere vediamo solo le sotto-elite (capi di stato, docenti universitari, filosofi e filosofastri).

La filosofia nasce duemila anni e mezzo fa, in Grecia, ed è pura scienza all’altezza dei tempi. Aristotele è dunque uno scienziato che si pone alcune domande alle quali trova risposte ancora oggi appaganti (il principio di non contraddizione tiene ancora, almeno così mi pare – sembra però che nella fisica quantistica non funzioni, ma non me ne intendo).

Nei millenni successivi sono state composte opere ritenute importanti e che una persona colta, non solo i filosofi di professione, dovrebbe o farebbe bene a conoscere.

Ma per vivere e sopravvivere l’umanità ha avuto ed ha tuttora bisogno di cose elementari (cibo, acqua, casa, rifugi ecc.) per cui il 99,999% degli attuali circa otto miliardi di esseri umani non solo non ha letto e studiato i classici della filosofia, ma non conosce nemmeno i nomi degli illustri autori.

Eppure in qualche modo se la cava, anzi procura ai sedicenti filosofi i mezzi di sopravvivenza, talora persino in abbondanza, benché in realtà non lo meritino (ma le elite lavorano per abbindolare le masse convicendole a fornire i mezzi di sopravvivenza alle sotto-elite, appunto i filosofi e filosofastri).

L’insegnamento della filosofia nei licei europei

Una volta la filosofia era una materia importante, almeno al liceo classico: aveva lo stesso rango di italiano, latino e greco. Ma a partire dagli Anni Sessanta circa l’importanza e il rango di questa materia decadono, almeno in Italia e in Francia.

È comunque interessante sapere che questa materia in Svizzera non si studiava, nemmeno al liceo: se ne deduce che non la si considerava così importante. In Svizzera si faceva filosofia solo nei cantoni cattolici della Svizzera interna. Dunque i cattolici consideravano la materia importante per puntellare l’educazione religiosa: un cattolico della classe superiore doveva ben saper ragionare, saper fare l’apologia del cristianesimo, e all’uopo un po’ di filosofia poteva servire.

Mentre in Italia si studiava piuttosto la storia della filosofia, in Svizzera si studiava soprattutto S. Tommaso e le sue ridicole prove dell’esistenza di Dio, che sono poi una rimasticatura di Aristotele.

Ma ormai anche nelle antiche roccheforti dell’insegnamento della filosofia – Italia e Francia – la materia non ha più rango e attrattiva, è ormai una materia facoltativa, interessante e forse di qualche utilità, ma non proprio necessaria.

L’uomo moderno non ha, apparentemente, più bisogno di filosofia (e anche la Storia se la passa male). Un ex presidente della repubblica italiana, ex stalinista e oggi atlantista, raccomandava di studiare bene soprattutto le materie scientifiche (per le quali il grande Croce nutriva – incredibile – un certo disprezzo: erano materie ancillari della filosofia dello spirito!).

Il consumismo, che è ormai l’aspirazione universale di tutti gli uomini, può ben fare a meno della filosofia, anzi troppa filosofia può frenare il consumismo, la crescita, il rimbecillimento collettivo che è in funzione di consumismo e crescita. Meno si pensa più si consuma, questo conta. O vogliamo un’umanità di disoccupati e sottoccupati? >>

SERGIO PASTORE

(segue)

martedì 21 marzo 2023

La forza della Superstizione

E' ben noto che le credenze superstiziose non corrispondono alla realtà oggettiva dei fatti, eppure sono diffusissime nella società, e spesso ne guidano il modo di pensare ed i comportamenti collettivi in modo decisivo.
Ma perchè nascono ? E perchè, pur essendo false, si sviluppano con tale intensità ?
A questo apparente paradosso è dedicato il post di oggi, scritto da Marco Pierfranceschi per il suo blog Mammifero Bipede.
(N.B. - Con il termine di 'Bias Cognitivo' l'autore intende l'insieme dei preconcetti e dei meccanismi irrazionali che guidano il nostro comportamento.)
LUMEN


<< [Guardando] alla sfera sociale, osserviamo come i Bias Cognitivi individuali trovino un rinforzo se condivisi con altri membri del proprio gruppo. Una convinzione irrazionale, se collettivamente condivisa, risulta consolidata nella sua funzione di sostituirsi ad una realtà oggettiva.

Dalla condivisione dei Bias Cognitivi e dalla loro elaborazione collettiva si sviluppano narrazioni utili a cementare le relazioni sociali, costrutti culturali che tendono a propagarsi alle generazioni successive. Nella loro forma più semplice si tratta di gesti apotropaici, o propiziatori, di convinzioni condivise da piccoli gruppi sul momento migliore per effettuare specifiche operazioni, come la semina.

Col tempo queste convinzioni si consolidano dando luogo a quelli che ho definito, in mancanza di termini preesistenti, Bias Culturali. I Bias culturali si propagano attraverso ‘meme’ e forme proverbiali, e lentamente si accumulano nella cultura condivisa, in genere rafforzandosi a vicenda sulla base delle rispettive affinità.

A titolo di esempio, un Bias Cognitivo classico riguarda la convinzione che la ‘fortuna’, ovvero l’esito positivo desiderato di un determinato processo, possa essere influenzata da gesti propiziatori. La forma che assumono questi gesti propiziatori varia da cultura a cultura, ed è il prototipo dell’idea di Bias Culturale.

In alcune culture si tratta di indossare (o evitare di indossare) determinati indumenti o colori, effettuare gesti rituali (dal minimalista gettare il sale dietro la schiena, su su fino ai sacrifici di animali, o esseri umani), o recitare formule scaramantiche, più o meno accompagnate da gesti specifici.

Esempi di Bias Culturali appaiono in ogni cultura umana conosciuta. Si va dall’ossessione dei popoli preistorici per la fertilità e la morte, culminati nella cultura dell’antico Egitto, con tutto il suo corollario di riti propiziatori, tecniche di imbalsamazione e monumenti funebri, ai sacrifici umani nelle civiltà mesoamericane, alla celebrazione megalitica degli antenati sul più remoto ed isolato fazzoletto di terra del pianeta, l’isola di Pasqua.

Nessuna di queste convinzioni può essere giudicata, a posteriori, utile o efficace rispetto alle esigenze pratiche: benessere, sopravvivenza e riproduzione, ma tutte hanno in comune una funzione di collante sociale, incarnando i desideri e le aspettative dei diversi popoli e fornendo loro una spinta propulsiva, in mancanza della quale si registra una stagnazione sociale.

Il principio che se ne può dedurre è che, laddove ci si trovi di fronte all’assenza di evidenze fattuali, o all’impossibilità di applicare un ‘principio di causa-effetto’, si apre lo spazio per l’emergere di tesi e supposizioni infondate.

In assenza di una specifica metodologia di validazione oggettiva della realtà, il cosiddetto ‘Metodo Scientifico’ (peraltro sviluppatosi ed affermatosi solo in epoche relativamente recenti), tendiamo ad integrare la porzione di realtà mancante con una narrazione di fantasia, che viene quindi socialmente condivisa.

Un costrutto culturale irrazionale come quelli fin qui descritti svolge sia una funzione tranquillizzante (dalla consapevolezza del valore del sapere discende la paura di non sapere abbastanza) che una spinta motivazionale, derivante dal rimuovere i freni inibitori innescati dalla consapevolezza delle conseguenze di quanto si intende fare.

Il vantaggio di ciò, in termini sociali, è evidente: i tempi decisionali vengono abbreviati, si fa quello che si è deciso di fare senza troppe analisi e discussioni. Questo sistema presta il fianco a decisioni arbitrarie, non di rado errate. Ma a giudicare l’efficacia del processo sono i risultati finali, non le ipotesi di partenza, ed il giudizio può variare a seconda del momento storico in cui viene emesso.

Possiamo pensare che una società analitica e riflessiva sia migliore di una frenetica ed impulsiva, perché in grado di attingere alle risorse ambientali in maniera più graduale, consentendo alle specie predate il tempo di ristabilire l’equilibrio. Tuttavia, in Natura, in presenza di abbondanti risorse, è in genere la specie più energivora ad avere il sopravvento, perché saccheggiando con maggiore efficacia priva le altre di quanto necessario al sostentamento.

Anche in termini di Civiltà, quelle con un approccio più aggressivo riescono in genere a sottomettere e cancellare le civiltà più fragili, indipendentemente dal fatto che questo ottenga solo di posticipare un collasso inevitabile. Quando una cultura pacifica e rispettosa del proprio ecosistema ne incontra una predatrice, è solo l’esito finale a sancire la validità dell’approccio scelto. (...)

Come già detto, i processi biologici, ivi inclusa l’ascesa di specie invasive come quella di cui facciamo parte, non rispondono ad esigenze etiche e/o morali: si sviluppano e basta. Quello che è premiante nel breve termine può risultare letale su una dimensione temporale più estesa, ma il saperlo o meno difficilmente riesce ad influenzare processi che si sviluppano in tempi più lunghi dell’arco vitale dei singoli individui.

Convinzioni irrazionali portano a condotte irrazionali, che tuttavia sono spesso premianti sul medio termine il che, ragionando di civiltà, può ben coprire un arco temporale di secoli.

La storia umana è costellata di esempi di civiltà che hanno sviluppato un approccio tecnologicamente aggressivo, hanno dato vita ad imperi e sono quindi scomparse con l’esaurirsi anzitempo delle risorse predate (un portato dello sfruttamento eccessivo consentito dai processi tecnologici innovativi). >>

MARCO PIERFRANCESCHI

mercoledì 15 marzo 2023

Pensierini - LV

FELICITA' E DINTORNI
La domanda più importante di tutte, ovvero 'Qual è lo scopo della vita ?', ha una risposta, tutto sommato, abbastanza facile, cioè 'Essere felici'.
Ma questa risposta porta poi con sé un'altra domanda, che risulta invece molto più difficile da risovere: 'E come si fa ad essere felici ?'
Molte persone, diciamo pure quasi tutte, sono convinte che la felicità sia un fenomeno vago ed inpalpabile, che avviene per conto suo, casualmente, senza che noi possiamo fare qualcosa per raggiungerlo.
Io penso invece che sia possibile, in quanto – riflettendoci sopra - mi sono reso conto che siamo felici in due situazioni ben precise: quando abbiamo superato un problema o quando ci sentiamo superiori a qualcun altro.
La prima situazione, in genere, deriva da eventi esterni al nostro controllo, ma la seconda, essendo soggettiva, dipende solo da noi stessi.
Quindi alla domanda ' Come si fa per essere felici ?' si può rispodere semplicemente 'Facendo o pensando qualcosa che ci fa sentire superiori'.
Non dico che sia sempre facile riuscirci, ma non è nemmeno così difficile, se uno conosce bene se stesso.
E poi, si può sempre seguire questa semplice regola pratica: se una situazione ti fa senitre inferore, cerca di uscirne prima che puoi; se invece ti fa sentire superiore, cerca di dedicarle più tempo possibile.
LUMEN


ELOGIO FUNEBRE
Ai funerali delle persone famose, ovviamente, si deve parlare bene del defunto.
E' curioso però che lo facciano anche i loro nemici storici, che con il defunto, in vita, hanno avuto mille occasioni di scontro.
Perchè lo fanno ?
Perchè sono così sollevati al pensiero di non avere più tra i piedi un avversario così ingombrante, che sentono il desiderio di festeggiare.
E lo fanno con l'elogio funebre.
LUMEN


LA PREGHIERA DEL RAZIONALISTA
Genoma nostro che sei nel nucleo,
sia conosciuto il tuo nome,
venga il tuo progetto,
sia fatta la tua replicazione
come nelle cellule, così nel fenotipo.
Dacci oggi la nostra energia quotidiana,
e tieni lontana da noi l'entropia
come noi la rimettiamo nell'ambiente;
e non abbandonarci alla procreazione,
ma liberaci dalla sofferenza. Amen.
LUMEN


FONDAZIONI
Che cosa sono le Fondazioni, che tanta parte hanno nella nostra vita sociale ?
Secondo il Codice Civile, le Fondazioni sono degli Enti giuridici particolari, costituiti da un fondatore per l’attuazione di uno scopo determinato.
Esse non hanno soci, ma sono dotate ugualmente di personalità giuridica e possono svolgere attività economiche tramite il patrimonio iniziale assegnato loro dal fondatore.
In genere, le Fondazioni godono di un'immagine sociale molto positiva, in quanto si dedicano principalmente alle opere di bene, di cultura o di carità.
In realtà, dal punto di vista sociale ed economico, le Fondazioni svolgono un compito molto diverso.
Sono il meccanismo ideale con cui gli opportunisti di mestiere possono realizzare il loro sogno più ambito: spendere i soldi di qualcun altro, senza correre rischi e senza responsabilità, visto che non vi sono dei soci a cui rendere conto.
Un vero e proprio paradiso in terra, che, infatti, è molto frequentato dai personaggi della politica.
LUMEN


PROGRESSI DELLA TECNICA
Molti si sono illusi che il progresso della scienza e della tecnica, sempre più vorticoso, potesse non solo aiutare l'umanità nella vita quotidiana, ma anche renderla migliore.
Questo però non è avvenuto - e non poteva avvenire - perchè la bontà e la cattiveria dell'uomo dipendono dal suo DNA, che con la tecnica ha ben poco a che fare.
Diciamo che il progresso della tecnica ha reso l'uomo più efficiente, ma se lo ha reso più efficiente nel fare il bene, lo ha reso più terribile anche nel fare il male.
(E' vero, oggi esistono le Bio-Tecnologie, che possono anche interagire col DNA; ma l'uso che se ne potrebbe fare è talmente pericoloso che, per il momento, preferisco non considerarle).
LUMEN

mercoledì 8 marzo 2023

Baracca e Burattini - 2

Si conclude qui il pezzo di Paolo Gulisano, tratto dal Blog 'Duc in Altum', sulle tecniche moderne di propaganda collettiva. (seconda e ultima parte).
LUMEN


<< Dopo la guerra Bernays si dedicò a lucrose campagne pubblicitarie. L’America era una società di massa industrializzata, con milioni di abitanti raggruppati nelle città. Bernays era deciso a trovare nuovi modi per controllare e alterare il modo in cui queste nuove masse pensavano e sentivano. Per farlo, attinse agli scritti di suo zio Sigmund Freud.

In particolare Bernays era rimasto molto colpito dalla lettura di Introduzione alla psicoanalisi. Vi aveva scoperto l’esistenza descritta da Freud di forze irrazionali nascoste all’interno della mente umana, e si domandò se fosse possibile guadagnare manipolando l’inconscio.

Occorreva passare da una cultura dei bisogni a una cultura dei desideri, e i desideri potevano e dovevano essere anche inventati. Bernays cominciò a creare molte delle tecniche di persuasione di massa utilizzate ancora oggi.

Fu assunto da William Randolph Hearst per pubblicizzare le sue nuove riviste femminili, e lui le rese affascinanti, inserendo articoli e inserzioni pubblicitarie che collegavano oggetti che venivano prodotti da altri suoi clienti, e cominciò anche a inserire pubblicità occulte nei film.

Organizzò su commissione dei grandi produttori di tabacco una spettacolare – e purtroppo efficacissima – campagna pubblicitaria per iniziare al fumo di sigaretta le donne. Fino agli anni ’20 la percentuale di donne fumatrici era bassissima. Dietro parole d’ordine di tipo progressista e femminista, Bernays riuscì a determinare un radicale cambiamento di stile di vita, portando al tabagismo milioni di donne.

I profitti dei produttori di sigarette andarono alle stelle, a scapito della salute delle donne. Bernays sosteneva la necessità di una manipolazione “scientifica” dell’opinione pubblica, per controllare il caos sociale e i conflitti della società.

Questo per Bernays era assolutamente un bene in quanto solo in questo modo larga parte della popolazione avrebbe potuto “collaborare e cooperare” in modo da rendere possibile il funzionamento ordinato della società.

Ispirandosi a Freud, Bernays descriveva il pubblico come “un gregge che ha bisogno di essere guidato” e fu sempre fedele al principio che bisognava controllare le masse senza che queste lo sapessero.

Infatti sosteneva: “in quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico, o negli affari o nella nostra condotta sociale, o nel nostro pensiero morale, siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone”.

Il vero potere dunque non è nei parlamenti o nel popolo, a cui si assegna formalmente la sovranità, ma in un ristretto gruppo di persone che dominano effettivamente, realmente, la società.

Nel 1928 pubblicò 'Propaganda', il suo libro più celebre, in cui esponeva le sue teorie. La sua convinzione era che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse, svolge un ruolo importante in una società democratica.

Chi è in grado di padroneggiare questo dispositivo di condizionamento sociale, può ritrovarsi un potere – che rimane invisibile – capace di dirigere una nazione: “Coloro che hanno in mano questo meccanismo costituiscono il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. (…) Sono loro che manovrano i fili…”

Bernays non fa mistero nel libro che occorre controllare le masse a loro insaputa, facendo leva sui desideri e le paure più profonde, operando un’ingegneria del consenso attraverso bugie e manipolazioni.

Bernays applicò ancora una volta le sue teorie per obiettivi politici, collaborando alla macchina di propaganda bellica nella Seconda Guerra Mondiale. E ancora, negli anni ’50, architettando un colpo di Stato in Guatemala ai danni di un presidente legittimamente eletto dal popolo.

Il presidente Arbenz aveva promesso di liberare il Paese dal controllo della United Fruit Company, che da decenni sfruttava con la corruzione vaste piantagioni di banane nel paese Centroamericano. La Compagnia si rivolse a Bernays, il quale organizzò una massiccia campagna mediatica ai danni del Guatemala, fatto passare per un regime comunista controllato da Mosca che minacciava gli interessi degli Stati Uniti.

Bernays creò anche una finta agenzia di stampa indipendente, la Middle America Information Bureau, la quale bombardò il pubblico americano con la notizia che Mosca intendeva usare il Guatemala come testa di ponte per attaccare gli Stati Uniti.

Tutto ciò sortì l’effetto desiderato: la Cia fu incaricata di organizzare un colpo di stato. In collaborazione con la United Fruit, la Cia addestrò e armò un esercito di combattenti che seminò il terrore nel Paese.

Alla fine il presidente Arbenz fu costretto a lasciare il Guatemala sostituito da un nuovo capo di stato fantoccio di Washington. Fu l’ultima grande impresa di Bernays, divenuto famoso come “l’uomo che capiva la psiche della folla”.

Ciò che in realtà Bernays inventò, e che ora trova nuove espressioni, ancora più drammaticamente efficaci, sono state le tecniche di condizionare l’opinione pubblica, di instillare idee e convinzioni, di nascondere la verità, di diffondere sistematicamente la menzogna. Un’opera che non si può non definire sulfurea. >>

PAOLO GULISANO

giovedì 2 marzo 2023

Baracca e Burattini - 1

Il post di oggi è dedicato alla nascita delle tecniche moderne di propaganda collettiva, che tanta importanza hanno acquisito nelle società moderne.
Il pezzo, scritto da Paolo Gulisano, è tratto dal Blog 'Duc in Altum' del cattolico tradizionalista Aldo Maria Valli.
La fonte è decisamente insolita per il mio blog, ma il testo è chiaro, interessante e documentato, per cui merita di essere letto.
E poi - se mi perdonate la battuta – chi meglio di 'loro' può parlare di questi argomenti, visto l'uso intensivo che ne hanno fatto per quasi duemila anni ?
Il post, data la lunghezza, è stato diviso in 2 parti (prima parte).
LUMEN


<< Quanto è accaduto e sta ancora accadendo con l’avvio del processo definito “Grande Reset”, ha suscitato non poco stupore in chi ha conservato intatto un pensiero libero e critico. C’è a chi sembra inverosimile che una massa enorme di persone abbia ciecamente seguito le direttive del Pensiero Unico, e tra questi anche persone colte, istruite, informate. Qualcuno ha persino parlato di una forma di ipnosi collettiva.

In effetti, se non proprio in uno stato di ipnosi, le masse sono state manipolate attraverso metodologie i cui princìpi sono noti da molto tempo, ma che grazie alle attuali tecnologie di comunicazione hanno potuto raggiungere un’efficacia unica nella storia.

Per cercare di capire a fondo, occorre raccontare la storia di colui che è il padre della manipolazione di massa, una figura di cui i libri di storia parlano pochissimo o nulla affatto, ma che è stato uno dei personaggi più influenti del XX secolo, e destinato a diventare ancora più importante oggi, quando le sue teorie possono essere realizzate in modo tremendamente efficace.

Si chiamava Edward Bernays. Era nato a Vienna nel 1891 ed era nipote di Sigmund Freud. Coniugando gli studi sulla psiche elaborati dallo zio con le idee di Gustave Le Bon, autore della 'Psicologia delle folle', divenne un pioniere della comunicazione di massa, di tipo pubblicitario, ma non solo. Fu il primo vero 'spin doctor' capace di influenzare gusti, scelte, comportamenti, persino scelte politiche.

La sua attività non si limitò a far vendere più pacchetti di sigarette o vestiti, ma applicò i suoi metodi anche alla politica, influenzando la partecipazione della sua patria d’adozione, gli Stati Uniti, a due guerre e provocando colpi di Stato in Centroamerica. La relazione con lo zio Freud era costantemente al centro del suo pensiero e del suo lavoro di “consulente”.

Dopo la laurea in Agricoltura alla Cornell University di Ithaca, New York, una facoltà scelta per accontentare il padre, iniziò a lavorare nel giornalismo come pubblicista. Cominciò la sua carriera con la collaborazione con due mensili di medicina, e fu l’inizio del suo successo. 

Bernays capì che era molto utile alla diffusione delle riviste accendere polemiche, organizzare campagne, fare anche un po’ di scandalo (ad esempio affrontando tematiche di tipo sessuale) e infine promuovere comitati con lo scopo di appoggiare determinati progetti e ricevere fondi. Inventò la figura del testimonial, utilizzando molti volti noti, soprattutto dello spettacolo.

Bernays fu uno dei primi a commercializzare metodi per utilizzare la psicologia del subconscio al fine di manipolare l’opinione pubblica. A lui si devono le espressioni “mente collettiva” e “fabbrica del consenso”, concetti che diventeranno fondamentali nelle varie attività di propaganda.

Un primo grande successo di questi metodi fu ottenuto nel 1917, quando l’America entrò in guerra al fianco delle potenze dell’Intesa contro la Germania e l’Austria mentre la maggior parte del popolo americano si mostrò ostile a questa scelta.

Per risolvere questo problema, il presidente Woodrow Wilson istituì un comitato sull’informazione pubblica, il Committee on Public Information, e Bernays fu chiamato a farne parte con un ruolo molto importante. Il Committee fu organizzato come un mezzo di propaganda bellica in grado di sfruttare più strumenti possibili per rendere dapprima accettabile e quindi doveroso l’ingresso dell’America in guerra.

La macchina si mise subito al lavoro, facendo arrivare ad ogni giornale del Paese migliaia di comunicati stampa; su tutto il territorio nazionale vennero diffusi milioni di poster, tra cui il più noto raffigurante lo Zio Sam e la celebre frase “I Want You for US Army”, oltre a manifesti, immagini e vari tipi di documenti propagandistici.

Anche all’interno dell’informazione e del cinema vennero introdotti metodi di propaganda pro-bellica, rispettivamente con la New Division e la Film Division. L’industria di Hollywood produsse una serie di film dal chiaro messaggio antitedesco, con titoli assai eloquenti come “Il delinquente prussiano” e “Il Kaiser la belva di Berlino”.

Sei mesi di martellante campagna propagandistica determinarono il sorgere e il diffondersi di decine di organizzazioni patriottiche, portando il paese ad un’isteria antitedesca così intensa da impressionare permanentemente il mondo degli affari statunitense, che comprese immediatamente quali fossero i potenziali vantaggi che davano queste strategie pervasive per la capacità di controllare l’opinione pubblica su larga scala.

La Commissione creò anche i 'four minute men', un gruppo di circa 75 mila volontari autorizzati dal presidente, per diffondere discorsi della durata di quattro minuti che venivano proiettati nei cinema su argomenti forniti loro dal Comitato. Riuscirono a tenere oltre 750 mila discorsi in 5.200 località. Il presidente Wilson aveva annunciato che “l’America non entrava in guerra per ristabilire i vecchi imperi, ma per portare la democrazia in tutta l’Europa”.

Bernays dimostrò capacità eccellenti nel contribuire a promuovere quest’idea sia in patria che all’estero e, alla fine della guerra, fu tra i ristretti collaboratori che accompagnarono il presidente alla conferenza di pace a Parigi per tutta la sua durata. Uno degli slogan che inventarono era “fare del mondo una democrazia più sicura”, con Wilson nella parte di colui che avrebbe creato un mondo nuovo. >>

PAOLO GULISANO

(segue)