sabato 30 maggio 2015

Morte bella parea

Diceva Epicuro che: “La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi, non c’è la morte, e quando c’è la morte, noi non ci siamo piú”.
“Et de hoc, satis” aggiungerei io. Invece il pensiero della morte, con tutti i suoi annessi e connessi, domina da sempre ogni cultura umana, arrivando, in molti casi, ad essere uno dei suoi tratti distintivi.
E proprio sulle profonde differenze che si sono sviluppate su questo argomento tra la cultura occidentale e quella islamica è incentrato questo breve articolo di Aldo Giannuli (tratto dal suo sito), che ho trovato molto interessante. 
LUMEN



<< Lo scontro in atto fra Occidente e Jihadisti, come spesso si dice, è di tipo asimmetrico, perché è combattuto fra Stati e formazioni clandestine, fra eserciti pensati per la guerra regolare e soggetti che conducono una guerra irregolare.

Questo è noto; quello che invece, quasi sempre, sfugge è la principale asimmetria dello scontro che, prima ancora che militare o politica, è di carattere psicologico, e dalla quale discende tutto il resto. Ed è il diverso atteggiamento di fronte alla morte dei due schieramenti combattenti.

Una delle chiavi interpretative della modernità può essere il suo rapporto con la morte. A lungo l’Europa ha condiviso con tutti gli altri modelli di civiltà il carattere prevalentemente religioso e, come tale, ha risolto il suo rapporto con la morte dentro un rapporto di fede, che assicurava un “oltre” dopo la morte; quel che, in qualche modo, conciliava l’uomo con l’idea della sua fine personale.

Man mano che si è proceduto sul sentiero della secolarizzazione, questa conciliazione è andata via via evaporando ed oggi, giunti all’età dell’ateismo e dell’agnosticismo di massa, è praticamente svanita. Oggi anche una parte dei credenti (peraltro minoranza, nella società europea) non è più tanto sicura della vita ultraterrena.

Finita anche la breve stagione romantica della “morte eroica” (per la patria o per la classe, poco importa) ed approdati all’epoca dell’iper-individualismo, l’uomo europeo (ma diciamo meglio: occidentale) si scopre solo e del tutto impotente davanti alla morte. La modernità si è costruita intorno all’idea di un dominio totale dell’uomo sulla natura e, con esso, il sogno inconfessato della vittoria sulla morte, supremo punto di arrivo di quel dominio.

Tutto l’Ottocento ha esorcizzato la morte, con strategie che decostruivano l’idea stessa della mortalità, attraverso la promessa di progressi scientifici che annullassero, se non il fenomeno stesso della mortalità, ogni singola ragione specifica di morte degradata da “destino dell’uomo” a incidente. Si muore per una malattia, per un sinistro o perché uccisi, dunque per una qualche causa efficiente accidentale. Dunque, occorre cercare di neutralizzare ogni singola causa e la scienza prometteva di farlo.

Ma con il sopraggiungere del disincanto della modernità, segnato dal “nuovo senso di disperazione”, l’uomo “moderno” ha scoperto sempre più limiti al suo sogno di onnipotenza. Il progresso non è più infinito e senza effetti imprevisti e non auspicabili.

Freud dice che ciascuno, nel suo subconscio, si ritiene immortale e l’angoscia di morte è solo il senso di colpa per un desiderio rimosso. In qualche modo, l’illusione della vita ultraterrena, coltivata dalla fede prima, e con la fede nell’onnipotenza della scienza, rendeva in qualche modo plausibile quella convinzione profonda. Ma essa ha iniziato a vacillare con la crisi della modernità, e, nel subconscio ha iniziato a manifestarsi il molesto senso di una fine individuale, senza riparo e senza speranza.

Incapace di elaborare il lutto del senso di immortalità personale, l’uomo occidentale ha decostruito l’idea della morte, lasciandola “disadorna, nuda, priva di significato. La morte non è che uno scarto di produzione della vita; un residuo inutile, lo straniero totale nel mondo semioticamente ricco, affaccendato e fiducioso abitato da abili e ingegnosi attori”. Qualcosa di indicibile, da rimuovere e nascondere.

Esaurita la strategia della modernità, affidata all’onnipotenza della scienza (anche se qualche equipe medica continua a coltivarlo dedicandosi, in tutta serietà, al delirante “progetto immortalità”) è subentrata una nuova strategia di aggiramento: la decostruzione dell’immortalità, affidata alla negazione del tempo, alla riduzione della vita ad un eterno presente, che abolisce ogni futuro e, con esso, la prospettiva di un mondo senza di noi individualmente presi.

Si vive in un presente eternizzato, che teme il confronto con la storia, che abolisce ogni previsione di lungo periodo, che rimuove il passato. E’ intollerabile l’idea del tempo in cui non ci saremo come quello del tempo in cui non eravamo. La morte è “horror vacui” e l’uomo occidentale è sempre più cenofobico, detesta l’assenza di suoni, di attività, la meditazione, la solitudine, il silenzio, ha bisogno di “fare”.

Negli ultimi venti anni le foto da satellite dimostrano l’aumento esponenziale, in tutto il pianeta, delle lucanie in orari notturni. Nello stesso tempo è in vertiginoso aumento anche il rumore: non c’è attimo della giornata in cui non siamo raggiunti da un rumore di fondo crescente. Silenzio e buio – qualità proprie della notte - sono troppo simili al “vuoto” del “dopo esistenza”, per poter essere sopportati ed anche la notte è bandita.

Ma il resto del mondo, e quello islamico in particolare, è restato estraneo a questo percorso psicologico, non ha rimosso il suo credo religioso, che resta largamente presente e creduto non tiepidamente.

Nella complessa rivolta contro la modernità segnata dal fondamentalismo, il richiamo alla fede fonda quel senso di superiorità dell’Islam rispetto alla “decadente” civiltà occidentale, che caratterizza proprio la rivalsa jihadista, documentata dallo sprezzo della vita dei suoi combattenti e dalla loro ricerca del martirio.

E qui si annida il punto critico della resistenza psicologica dell’uomo occidentale rispetto all’offensiva islamista. Gli jihadisti terrorizzano l’uomo europeo secolarizzato sia per il carattere volutamente cruento delle proprie azioni, che gli “sbattono la morte in faccia” sia, e molto di più, con la loro disponibilità al martirio, che li rende esseri “mostruosi” agli occhi della nostra società iper-individualista.

Che deterrenza puoi avere nei confronti di qualcuno che non teme la morte e che esibisce questa sua fede cieca? Di qui l’idea dell’impossibilità di un confronto politico – anche il più aspro - e la riduzione del tutto a scontro militare che deve estirpare questa presenza demoniaca. E di qui anche il tipo di comunicazione adottato dagli jihadisti che sottolineano a più non posso la morte inflitta e cercata.

Di fatto, questo fenomeno è alla base dell’ideologia sicuritaria che si è diffusa nelle nostre società rendendole fragilissime. Ed allora, chiediamoci con Marc Augè: “Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte ?” >>

ALDO GIANNULI

sabato 23 maggio 2015

Cartoline dal “Nuovo Mondo” - 2

Concludiamo qui il lungo post di Antonio Turiel sul “nuovo mondo” che ci attende nell’era delle risorse energetiche decrescenti (da Effetto Risorse). Lumen.

(seconda parte)


<< Il problema di questa riforma tanto profonda del sistema finanziario [abolizione del prestito con interesse - ndr] è anche maggiore di quello con la pianificazione che ponevamo prima. Se quella poneva ostacoli all'espansione del commercio non tutelato, questa riforma punta contro il cuore stesso del capitalismo.

Chi tenti di promuovere questi cambiamenti sarà tacciato di essere un comunista obsoleto o qualcosa di peggio, visto che un tale grado di intervento suona come appropriazione e statalismo. Ed è una critica, questa, fatta un po' alla leggera, poiché il comunismo di taglio statalista che il mondo ha conosciuto è nocivo tanto quanto il capitalismo o di più (…). Ma di sicuro c'è un fondo di ragione in essa, visto che i marxisti classici attaccavano i diritti remunerativi del capitale ed in questo senso la coincidenza con ciò che è esposto sopra è piena.

Dato che l'enorme carico ideologico del dibattito capitalismo-comunismo durante i decenni della Guerra Fredda non si è ancora dissipato del tutto e potrebbe ravvivarsi mentre si mettono in discussione le basi teoriche e pratiche del nostro sistema economico, mi sembra praticamente impossibile avere un dibattito ragionevole fra i cittadini sull'impossibilità logica di mantenere il credito con interessi e l'imperiosa necessità delle riforme espresse sopra: qualsiasi tentativo di procedere con questa discussione si impantanerà in diatribe interminabili sui vecchi argomenti di 30 anni fa.

Come modalità più pratica, il mio suggerimento sarebbe, semplicemente, di prescindere da qualsiasi tipo di finanziamento convenzionale, ricorrendo all'appoggio delle comunità locali per portare avanti piccoli progetti concreti, mentre il sistema finanziario collassa da solo.
Questa strategia ha il rischio che lo Stato possa lanciare qualche iniziativa legislativa per perseguire [giuridicamente] queste strade alternative (…). Pertanto, le comunità dovranno che sondare molto bene il terreno che calpestano ed assicurarsi che le loro iniziative siano sempre scrupolosamente legali e che quindi non vengano individuate dal radar.  

CAMBIAMENTO DEL SISTEMA PRODUTTIVO
 In un mondo con energia disponibile in netta decrescita e risorse sempre più scarse, è impossibile conservare un sistema orientato alla produzione. Strategie come l'obsolescenza programmata dovranno essere progressivamente abbandonate e gli sforzi dovranno essere diretti ad ottenere nuovi progetti che assicurino una maggior riparabilità, riciclabilità e riutilizzo. Ciò crea un problema per le imprese, che dovranno ri-orientare i loro modelli d'affari, in modo che i loro risultati non dipendano dal vendere di più, ma dal vendere meglio.

Nel caso delle imprese che producono beni di consumo di massa, che siano materiali o immateriali, il cui target di clientela sia la classe media calante, avranno il problema aggiuntivo di adattarsi alla diminuzione della capacità d'acquisto dei loro clienti e la diminuzione obbiettiva del loro mercato potenziale.

In aggiunta, le imprese dovranno ricorrere sempre di più alle proprie risorse finanziarie visto che la loro prospettiva non sarà quella di crescere, ma all'inizio di calare e alla fine, se hanno fortuna, di stabilizzarsi. Ciò renderà tutto molto più difficile e l'evoluzione generale dei progetti molto più lenta, a meno che non possano contare sul finanziamento partecipativo a interesse zero (e non riescano ad aggirano i problemi indicati sopra).

Aggiungete, a tutto quanto si è detto, che assegnare le risorse per riscattare le imprese la cui sostenibilità a lungo termine è dubbia è una strategia destinata al fallimento. Per esempio, pensando a medio e lungo termine non ha senso aiutare il settore dell'automobile, come di certo non ha senso puntellare le compagnie aeree o il settore del trasporto su strada, nonostante il peso economico così importante che questi settori hanno in questo momento.

Il grande problema del cambiamento di sistema produttivo è che le riforme proposte sono anche molto radicali e sono diametralmente opposte a tutto ciò che si insegna oggigiorno nelle scuole di economia di tutto il mondo. Gli specialisti di queste scuole obbietteranno che tutti questi cambiamenti portano ad una perdita di produttività e di efficienza economica enorme. Ed hanno tutte le ragioni. Ciò che succede è che il problema è di impossibilità, non di convenienza: con risorse limitate ed in decrescita il loro modello semplicemente non funziona.

E' dubbio che accetteranno tali argomenti, così non si può far altro che aspettare che la forza degli eventi finisca per convincerli. [Inoltre] è anche vero che, durante la transizione, un'impresa che puntasse fortemente sul cambiamento di modello sarebbe meno competitiva, mentre ancora c'è una certa abbondanza energetica, pertanto avrebbe molti problemi a sopravvivere fino al momento in cui il modello fossile attuale smette di funzionare.

Per questo motivo, molti autori danno per assodato che la società industriale finirà necessariamente con la fine dei combustibili fossili. Che l'industria dovrà essere ridefinita è evidente, che scompaia del tutto dipenderà dalle decisioni che si prendono, ed in ogni luogo la storia sarà diversa.

GESTIONE DELLE INFRASTRUTTURE
Nel momento in cui sono state create, le infrastrutture hanno fornito un grande valore tanto economico quanto sociale: le ferrovie mettevano in comunicazione città un tempo lontane, i porti permettevano di trasportare grandi volumi di mercanzie su grandi distanze, la rete elettrica portava luce nella notte, ecc.  Ma nella misura in cui le infrastrutture stavano crescendo in dimensione ed estensione, ed allo stesso tempo invecchiavano, si sono trasformate progressivamente in un maggior carico, il che implica un maggior consumo di risorse.

Salvo eccezioni onorevoli, nella maggior parte delle infrastrutture è mancata una pianificazione a lungo termine e il beneficio marginale che supponeva ogni nuovo livello delle infrastrutture è andata diminuendo (e probabilmente in alcuni casi è diventata negativo). Riasfaltare periodicamente le strade è molto oneroso, la rete elettrica ha bisogno di essere controllata e mantenuta, le ferrovie richiedono una manutenzione continua (specialmente le linee ad alta velocità), persino mantenere le luci accese di notte implica una spesa costante.

Ma se le risorse disponibili calano, la parte necessaria per mantenere tutte le infrastrutture semplicemente non ci sarà. Di fronte a questo problema ci sono due possibilità. La prima è far finta di far vedere all'opinione pubblica che non c'è alcun problema, ma di fatto trascurare alcune infrastrutture, in modo poco ordinato, per cui i problemi si aggravano – e sono pertanto più costosi da sistemare – col tempo (...).

La seconda opzione consiste nel prendere decisioni audaci – non sempre ben recepite dall'opinione pubblica – e procedere con uno smantellamento ordinato di alcune infrastrutture con l'intenzione di sostituirle con altre meno costose e più resistenti. Per esempio, la decisione che hanno preso alcune contee degli Stati Uniti di non riasfaltare le strade sotto la loro responsabilità e, al contrario, riportarle a strade di terra e ghiaia.

Fra tutte le infrastrutture in pericolo di abbandono volontario o involontario, quelle collegate al trasporto sono particolarmente a rischio: in un mondo con meno energia l'iper-mobilità che ha caratterizzato gli ultimi decenni è condannata a scomparire; quindi così tante strade, porti, aeroporti e persino ferrovie - che per giunta sono anche molto costose - perdono di senso.

La cosa ideale, di nuovo, sarebbe progettare un piano di decrescita energetica e, in base a quello, decidere cosa si deve abbandonare, cosa si deve sostituire e a cosa fare manutenzione. Ed anche prendere decisioni su ciò che ora non esiste, ma che è necessario costruire per affrontare il futuro (per esempio, porti fluviali).

Il problema più grande per il cambiamento di modello di gestione delle infrastrutture ha radici, soprattutto, nella grande capacità di pressione ed influenza che ha il settore dei trasporti, che interpreterà come un'aggressione qualsiasi decisione in linea con la decrescita energetica che lo colpisca, negando probabilmente di accettare che non solo i giorni di gloria del trasporto non torneranno, ma che le cose andranno sempre peggio.

E' problematica anche le tendenza elitaria, che convergerà verso la creazione di mezzi di trasporto per ricchi e mezzi di trasporto per poveri.

RILOCALIZZAZIONE
Giustamente, se manca l'energia, né i materiali né le persone potranno viaggiare per lunghe distanze.

Dall'altra parte, mentre diminuisce la dimensione dell'economia diminuiranno anche i legami di lunga distanza e sarà l'attività locale quella che genererà una parte sempre maggiore del reddito delle persone. Insomma, i soldi non viaggeranno per grandi distanze e l'industria locale sarà quella che crea l'impiego locale e soddisfa il consumo locale, formando un ecosistema economico chiuso in se stesso e di dimensioni sempre più piccole.

Per evitare la carenza di beni e servizi cruciali, come lo sono gli alimenti o i vestiti ma anche la sanità e l'educazione e cose più prosaiche ma fondamentali come motori di base e macchine elementari, così come veicoli ed automobili semplici, si dovrebbe pianificare accuratamente quello che si produrrà e dove, in modo da assicurare un minimo livello di funzionalità senza dover uscire dalla scala locale.

Il grande problema delle rilocalizzazione è che la parola è già stata abbastanza umiliata da queste parti e molto spesso si trova in discorsi vuoti, senza contenuto. E' molto più facile parlarne che fare qualcosa di positivo nella sua direzione. >>

ANTONIO TURIEL

sabato 16 maggio 2015

Cartoline dal “Nuovo Mondo” - 1

Per “Nuovo Mondo” si intende, in senso geografico, il continente americano, in quanto “scoperto” da Cristoforo Colombo solo alla fine del XV secolo.
Ma di fronte alla decrescita energetica che ci attende, con tutte le gravi conseguenze che ci possiamo immaginare (ed anche quelle che non ci possiamo immaginare), il “nuovo mondo” sarà, molto semplicemente, tutta la Terra prossima ventura.
Ma come sarà ? Cosa ci dobbiamo aspettare ?
Ce ne parla Antonio Turiel in questo lungo post (tratto da Effetto Risorse), in cui vengono analizzati i diversi possibili aspetti del nuovo scenario.
LUMEN


<< Il nostro sistema economico attuale si basa su una premessa di fondo: che la quantità di energia disponibile aumenterà ogni anno ed avrà prezzi accessibili. Per questo il suo modello di assegnazione delle risorse è espansivo: si deve produrre sempre maggior attività economica per sfruttare quella pletora di energia e materie prime che abbiamo a nostra disposizione.

Proprio per questo, lasciando da parte la questione ambientale (che è a sua volta grave), questo modello è potenzialmente catastrofico quando la tendenza nella disponibilità di energia si inverte, che è proprio ciò che sta succedendo adesso. Definire le linee guida dell'assegnazione di risorse nella decrescita energetica non è un compito facile. (…) Ecco la lista questioni di cui si dovrebbe tener conto nel momento dell'assegnazione delle risorse in una situazione di decrescita energetica.

PIANIFICAZIONE
Se le risorse non sono tanto abbondanti come vogliamo e se ogni anno avremo in realtà di meno a nostra disposizione, è necessario razionare il loro possesso, visto che non ce ne sono per coprire tutte le opzioni che possiamo immaginare. Quindi, si deve decidere quali attività sono prioritarie e quali sono accessorie o superflue. Non solo questo: si deve fare una previsione informata e realista di come evolverà negli anni a venire la disponibilità di risorse, visto che attività che oggi ci possiamo permettere forse ci sarà impossibile mantenerle l'anno successivo.

Peggio ancora: forse per conservare una certa capacità di soddisfare le necessità della popolazione negli anni a venire dovremmo cominciare ora a destinare parte delle risorse che abbiamo in questo momento e che se non facciamo questo investimento non avremo in futuro (…). Il nostro futuro può dipendere in modo determinante dalle azioni che intraprendiamo nel presente. Senza una pianificazione adeguata, la nostra evoluzione più probabile non sarà certo ottimale.

Per esempio, può essere [preferibile] investire ora in sistemi di produzione di energia rinnovabile, o in miglioramenti dell'isolamento delle case, o nel riorganizzare la popolazione, o cambiando gli usi del suolo, o in altre forme molteplici di ottenere una società meno dipendente dall'energia. Tutti questi cambiamenti sarebbero molto più facili da fare con tutta l'energia che abbiamo adesso. Potrebbe persino essere che alcune di queste siano impossibili se non abbiamo fatto le adeguate trasformazioni in tempo.

Per questo si deve analizzare il problema con attenzione sulla base delle necessità locali e fare un piano di transizione, condiviso con tutte le parti in causa. Il problema più grave posto dalla pianificazione nell'assegnazione delle risorse è che cozza frontalmente con idee molto consolidate durante gli anni di abbondanza di materie prime, fondamentalmente con due: l'ideale del libero mercato e il timore di un eccessivo interventismo da parte dello Stato.

L'ideale del libero mercato è un'ipotesi condivisa dalla maggioranza degli economisti e responsabili politici, secondo cui un mercato libero è il sistema migliore di assegnazione delle risorse. Proprio per questo, qualsiasi tentativo di controllare il mercato porta a inefficienze e ad una dispersione di risorse. E di tutte le forme di intervento, quella che abitualmente viene considerato più dannoso è l'intervento dello Stato, in parte perché la sua grande dimensione gli permette di squilibrare il mercato più di altri attori, ed in parte perché, secondo questa visione parziale delle cose, gli enti pubblici sono i più inefficaci nella gestione economica.

Coloro che sostengono questo tipo di argomentazioni di solito basano la loro visione su una sfilza di dati che mostrano la bontà delle loro ipotesi, ma in generale la premessa è contenuta nelle sue conclusioni (il che le rende inconfutabili). In realtà le cose sono molto più complicate: anche quando il libero mercato, come ente ideale, potrebbe essere efficiente nell'assegnazione delle risorse, quello che si ha nella pratica è un mercato naturale, che somiglia di più alla legge del più forte. Si difende il fatto che il mercato è libero, quando [invece], se lo si osserva in dettaglio, si vede che è fortemente condizionato dagli attori economici più potenti.

In quanto al ruolo dello Stato, molte volte questo agisce cooperando coi grandi poteri economici (mi spingo oltre: a mio modo di vedere, Stato e capitalismo hanno bisogno l'uno dell'altro). Lo Stato è interventista, sì, ma con troppa frequenza in favore di interessi privati e questo si riflette non solo nel mercato ma anche in molte altre relazioni umane ora “mercificate”. Con tutto ciò, l'interventismo dello Stato è ancora un passo indietro [rispetto a] ciò che avverrebbe nel contesto di un mercato completamente naturale, in cui i forti imporrebbero le proprie regole.

Da un lato, la pianificazione è già una parte essenziale del capitalismo: le grandi imprese pianificano con mesi di anticipo le tendenze di consumo della stagione seguente e manovrano per compensare qualsiasi deviazione. La supposta soddisfazione piena dei desideri dei consumatori non è altro che una finzione. In realtà l'unica cosa che serve cambiare sono gli obbiettivi di questa pianificazione, che al posto di essere la massimizzazione del profitto del capitale dovrebbero essere la soddisfazione delle necessità fondamentali della popolazione con criteri di vera sostenibilità.

RIFORMA FINANZIARIA
Semplificando in modo un po' furbo, potremmo dire che in un sistema economico feudale il signore del feudo aveva il diritto di ricevere una remunerazione annuale che era una percentuale della produzione dei suoi vassalli, tipicamente un 10%. Il nostro sistema economico è caratterizzato dal fatto che il capitale, per il semplice fatto di esistere, ha diritto ad una remunerazione annuale che è una percentuale del capitale stesso, tipicamente il 5% nominale (in modo effettivo, questa percentuale si riduce a un 3% tenendo conto dei vari effetti di riduzione del capitale: investimenti falliti, inflazione, usura del patrimonio, ecc.).

Con tutte le ingiustizie che aveva il sistema feudale (e il continuo tira e molla fra il signore e i vassalli e il via-vai di ufficiali giudiziari che si assicuravano del corretto pagamento al proprio signore) era un sistema sostenibile: se la produzione era minore, la remunerazione era minore e se la remunerazione era maggiore era in conseguenza di una maggiore produzione.

Invece, il sistema capitalista è intrinsecamente insostenibile: ogni remunerazione che il capitale riceve, lo fa crescere e ciò obbliga al fatto che l'anno successivo la remunerazione necessaria sia ancora maggiore, poiché è proporzionale alla dimensione del capitale. Ad un ritmo effettivo del 3% il capitale si moltiplica per 20 in un secolo, il che obbliga la produzione a crescere nella medesima proporzione soltanto per poter pagare i suoi interessi. Ciò obbliga a crescere in continuazione, ad aumentare la produzione senza sosta per soddisfare le ansie di un nuovo signore feudale, la cui ingordigia non conosce limiti e cresce a ritmo esponenziale.

Il problema grave che si pone nella situazione attuale di declino energetico è che è impossibile far crescere la produzione. Con la scarsità dell'energia e alla fine delle materie prime, la produzione non può continuare ad aumentare. Tuttavia, il signor capitale esige il pagamento delle obbligazioni, che vengono imposte attraverso titoli di debito (prestiti ed ipoteche) ed ha lo Stato come ufficiale giudiziario per assicurarsi che siano pagati.

Questa impossibilità fisica di continuare a pagare i debiti farà sì che il capitale, incapace di alimentarsi di una produzione che non crescerà più, ma che addirittura diminuirà al diminuire della rendita disponibile di coloro che dovrebbero pagarla, cannibalizzerà – come sta già facendo – il resto degli attori, principalmente la classe media (…) ed il proprio Stato (attraverso salvataggi forzati di imprese considerate strategiche, i cui debiti hanno la loro origine ultima nella fagocitazione del grande capitale).

La prima cosa che bisogna capire, pertanto, è che non ha senso mantenere il sistema attuale del debito, perché la sola cosa alla quale può portare in una situazione di decrescita energetica è la liquidazione frettolosa di attività che saranno preziose nella transizione, unicamente per ingrassare il capitale e rendere ancora più grande il problema della devoluzione dei debiti futuri (visto che questo capitale ora incrementato, in virtù del nostro sistema finanziario, sarà prestato per mettere in moto altri progetti ed imprese, che a loro volta falliscono a causa della decrescita energetica).

Nella misura in cui si mantenga l'attuale struttura del nostro sistema finanziario, il pompaggio di risorse col solo obbiettivo dell'accumulo improduttivo di capitale continuerebbe fino a che non rimanga virtualmente niente da pompare. Nel cammino, si distruggeranno tutte le strutture che servono a creare la coesione sociale. (…) E' ovvio che un tale modo di assegnare le risorse provocherebbe carestie, epidemie, rivolte ed alla fine guerre, sia civili sia con altri paesi.

Dall'altra parte, quando la suzione di risorse da parte del capitale giungesse al limite del sostentamento minimo vitale della maggior parte della popolazione, già esclusa, il capitalismo come tale cesserebbe di esistere e si trasformerebbe, probabilmente, in un sistema feudale tradizionale, in cui la democrazia risulterebbe definitivamente abolita.

E' per questo che risulta imprescindibile spezzare una dinamica tanto nociva. Il modo più logico per farlo è di “hackerare” completamente il sistema finanziario. Il primo passo sarebbe, ovviamente, ristrutturare tutti i debiti: se la prospettiva è che non ci sarà crescita, concedere prestiti sarà sempre più complicato fino a diventare impossibile (…). Ma il primo giubileo del debito non è sufficiente.

Dato che l'economia nel suo complesso si contrarrà, per la perdita di capacità produttiva implicata dalla perdita di energia disponibile, non si può aspirare a portare avanti progetti che si basino su un finanziamento in cui il capitale abbia un interesse percentuale, esattamente per lo stesso motivo: anche se si ponesse il debito a zero, la mancanza di sostenibilità finanziaria dei nuovi progetti si manifesterà fin dal primo minuto, perché in un mondo in contrazione energetica la maggioranza dei progetti non hanno un rendimento sufficiente a garantire il pagamento degli interessi. (…)

Questo problema di scarso rendimento è una manifestazione della diminuzione generalizzata dell'EROEI delle fonti energetiche delle quali ci riforniamo ed è nell'origine dello scarso entusiasmo dell'investimento attuale in progetti di produzione di energia rinnovabile in molti paesi del mondo. E tuttavia forse sono quei progetti che potrebbero garantire loro un accesso ragionevole all'energia dei prossimi decenni.

Dato che l'iniziativa privata, continuando con la logica finanziaria appresa durante gli ultimi secoli di prosperità energetica, non investirà mai nella maggior parte dei progetti, si rende necessario non solo cancellare i debiti pregressi e impagabili, ma bisogna anche stabilire un sistema pubblico di finanziamento, senza interesse associato, il cui dovere sarebbe di fomentare la rapida implementazione di quei sistemi e attività che si considerano più convenienti per garantire una decrescita energetica ragionevole.

Inoltre, si dovrebbero proibire tutti i prestiti con interesse, compresi quelli non destinati ai fini prioritari, data l'urgenza della situazione, il che nella pratica significherebbe la proibizione o sorveglianza molto stretta del credito privato e la persecuzione dell'usura (intesa come la richiesta di “qualsiasi” interesse per un prestito).  >>

ANTONIO TURIEL

(continua)

sabato 9 maggio 2015

Di gracile Costituzione - 1


La Costituzione della Repubblica Italiana è la nostra legge fondamentale e risale, come noto, al 1947.

A fianco della Costituzione formale, però, grazie all’alacre, diuturno ed indefesso lavoro dei nostri politici, si è sviluppata in questi decenni anche una c.d. Costituzione Materiale, che ha finito per modificare sensibilmente, nel concreto, quanto previsto dal testo ufficiale.
Quello che segue è un tentativo (molto modesto, ovviamente) di reinterpretare il testo della Costituzione formale alla luce di quella materiale. LUMEN


COSTITUZIONE della REPUBBLICA ITALIANA
Principi fondamentali

Art. 1 - L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Lum. - L'Italia è una Repubblica elettorale, fondata sul lavoro di qualcuno, a beneficio di qualcun altro.
La sovranità appartiene ai ricchi ed ai potenti, che la esercitano tramite gli organi dello Stato previsti dalla Costituzione.


Art. 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Lum. - La Repubblica riconosce e garantisce l’inviolabilità dei ricchi e del potenti, sia come singoli sia nelle associazioni di cui fanno parte, e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale a tutti gli altri.


Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Lum. – I cittadini hanno diversa dignità sociale e sono diversi davanti alla legge secondo la ricchezza ed il potere, ferme le ulteriori distinzioni vigenti in materia di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica fingere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale esistenti, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono giustamente il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.


Art. 4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Lum. - La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto a cercarsi un lavoro e promuove le condizioni che rendano meno disagevole le code all’ufficio di collocamento..
Ogni cittadino che non trova lavoro ha il dovere di svolgere, secondo le circostanze, un'attività di volontariato che concorra al vantaggio economico di qualcun altro.


Art. 5
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.

Lum. - La Repubblica, formalmente una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali onde moltiplicare i centri di potere; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo allo scopo di incrementarne i costi; adegua la sua legislazione alle esigenze di maggiori spese rese necessarie dall'autonomia e dal decentramento.


Art. 6
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.

Lum. - La Repubblica prevede apposite complicazioni normative, ed appositi capitoli di spesa, in presenza di minoranze linguistiche,


Art.7
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

Lum. – La Chiesa Cattolica ed i suoi Ordini sono, nei confronti dello Stato, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, richieste dalla Chiesa Cattolica ed accettate dallo Stato Italiano, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.. 


Art. 8
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Lum. - Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, anche se quella Cattolica è più uguale delle altre.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, purché non contrastino con le esigenze e gli interessi della Chiesa Cattolica.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze, previo nulla osta della Chiesa Cattolica.


Art. 9
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Lum. - La Repubblica promuove lo sviluppo di appositi organismi, purché inutili e costosi, nel campo della  cultura e della ricerca scientifica e tecnica.
Può elaborare piani per la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, senza obbligo di attuazione.


Art. 10
L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.

Lum. -  L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale, salvo che siano di ostacolo alla tutela dei ricchi e dei potenti.
La condizione giuridica dello ‘straniero irregolare’ è stabilita dalla legge, in conformità alle esigenze della Chiesa Cattolica..
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'esercizio del culto cattolico, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, purché a spese dello Stato e non della Chiesa.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero, qualora risulti amico di un ricco o di un potente.


Art. 11
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Lum. - L'Italia accetta la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, qualora le venga  richiesto da un organismo internazionale; consente, in condizioni di subordinazione con gli Stati Uniti, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri il controllo delle fonti petrolifere; accetta e favorisce le organizzazioni occidentali rivolte a tale scopo.


Art. 12
La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.

Lum. - La bandiera della Repubblica è il vessillo bianco, simbolo della resa.

venerdì 1 maggio 2015

Anche l’occhio vuole la sua parte

Abbiamo un ospite davvero eccezionale per questa intervista virtuale, nientemeno che il grande biologo evoluzionista Richard Dawkins. Con lui affronteremo uno dei principali cavalli di battaglia dei creazionisti, ovvero l’apparente difficoltà di spiegare in termini evolutivi la nascita e lo sviluppo degli organi complessi, come, ad esempio, l’occhio. LUMEN

LUMEN – Professor Dawkins, voi citate spesso, nei vostri libri, il teologo anglicano William Paley, fervente creazionista. Come mai ?
DAWKINS – Paley aveva pubblicato alla fine del Settecento un'opera dal titolo “Teologia naturale o sia prove della esistenza e degli attributi della divinità ricavate dalle apparenze della natura”. In quest'opera Paley passava in rassegna alcune delle più sorprendenti forme di teleonomia presenti nel mondo naturale, quali erano conosciute dalla scienza del suo tempo, e mostrava come non fosse razionalmente possibile postulare che il puro caso stesse all'origine di strutture di tale perfezione e complessità, ma si dovesse necessariamente risalire alla volontà di un Creatore intelligente.
 
LUMEN – Per “teleonomia” si intende una attività biologica tendente ad un fine.
DAWKINS – Esattamente. Organi come l'occhio umano, argomentava Paley, superano per complessità e organizzazione delle parti i più perfetti orologi meccanici, perciò, come noi affermiamo che un meccanismo complesso come un orologio non può esistere senza un orologiaio che lo abbia progettato e realizzato, così non possiamo pensare che gli organismi viventi esistano indipendentemente dal piano di un artefice.
 
LUMEN – Un ragionamento che, in effetti, ha un certo fascino.
DAWKINS – Ed infatti io ammiro molto il testo di Paley. Il reverendo inglese ha saputo mettere in luce molti aspetti meravigliosi del mondo naturale, sottolineando così l'esigenza, da parte della ragione umana, di cercare una spiegazione di fenomeni tanto sorprendenti. Paley cercò tale spiegazione in quella che era, ai suoi tempi, la sola prospettiva ragionevole, ossia l'esistenza di un "orologiaio" che, con intelligenza e sapienza, ha progettato l'universo; oggi però la scienza ha aperto i nostri occhi, mostrandoci che tale orologiaio è cieco, non agisce in vista di alcun fine, e si chiama selezione naturale.
 
LUMEN – L’intuizione geniale di Darwin.
DAWKINS - Di tutti i trilioni e trilioni di modi di cui le parti di un corpo dispongono per potersi mettere insieme, soltanto un'infinitesima minoranza dà la possibilità di vivere, di procacciarsi il cibo, di nutrirsi e di riprodursi. E' vero, vi sono molti esseri viventi diversi - almeno dieci milioni, se contiamo il numero delle singole specie oggi viventi - ma per quanto numerosi essi possano essere, vi saranno pur sempre molti più infiniti modi di non-essere! Possiamo pertanto concludere con ragionevole certezza che gli esseri viventi sono miliardi di volte troppo complessi - troppo statisticamente improbabili - per aver iniziato a vivere per mera casualità.
 
LUMEN – E l’ipotesi del “creatore” ?
DAWKINS – E’ una ipotesi priva di senso. E’ del tutto improbabile che gli esseri viventi siano stati "creati", poiché l'esistenza del Creatore sarebbe ancora più inverosimile, trattandosi di un essere che, per forza di cose, dovrebbe essere ancora più complesso.
 
LUMEN - In che modo, dunque, hanno iniziato a esistere gli esseri viventi?
DAWKINS - La risposta esatta - la risposta di Darwin - è che sia entrato in gioco il caso, ma non un caso unico, un distinto episodio casuale. Ciò che si è verificato è piuttosto tutta una serie di piccoli episodi casuali, ciascuno di essi talmente piccolo da essere un plausibile prodotto di quello che lo aveva preceduto, episodi occorsi l'uno dopo l'altro, in sequenza. Questi minuscoli avvenimenti casuali furono prodotti da mutazioni genetiche - errori occasionali - occorse nel materiale genico.
 
LUMEN – Ovviamente, molti dei cambiamenti furono deleteri e condussero alla morte del fenotipo.
DAWKINS – Una minoranza di essi, però, risultò rappresentare un piccolo progresso, che portò a migliorare la sopravvivenza e la riproduzione. Così questo processo di selezione naturale, questi cambiamenti che risultarono essere vantaggiosi, alla fine si diffusero in tutte le specie diventando la norma. Il quadro complessivo era quindi pronto per la piccola trasformazione successiva del processo evolutivo. Dopo un migliaio circa - supponiamo - di questi piccoli cambiamenti in serie, in cui ciascuna trasformazione costituiva la premessa di quella successiva, il risultato finale divenne, grazie a un processo di accumulo, ben più complesso per potersi dire il prodotto di un unico episodio casuale.
 
LUMEN – E questo può spiegare anche un organo molto complesso come – per fare l’esempio preferito dai creazionisti – l’occhio.
DAWKINS – Certamente. Sebbene teoricamente sia possibile che un occhio si sviluppi dal nulla, con una singola evoluzione molto fortunata, in pratica ciò è inconcepibile. Occorrerebbe una fortuna smisurata, che implichi simultaneamente delle trasformazioni in un gran numero di geni. Possiamo dunque escludere una simile coincidenza pressoché miracolosa.
 
LUMEN – Sarebbe davvero troppo improbabile.
DAWKINS - E' invece perfettamente plausibile che l'occhio, così come esso è oggi, si sia evoluto a partire da qualcosa di molto simile ad esso ma non del tutto, un occhio per così dire appena un po' meno sofisticato. Con lo stesso ragionamento, questo occhio appena un po' meno sofisticato si è evoluto a partire da un occhio leggermente meno sofisticato ancora, e così via. Se si tiene conto di un numero sufficientemente grande di differenze sufficientemente piccole tra una fase evolutiva e la precedente, si dovrebbe essere in grado di delineare l'evoluzione di un occhio intero, complesso e funzionante, a partire dalla nuda pelle.
 
LUMEN - Quante fasi intermedie è lecito postulare?
DAWKINS - Ciò dipende dal tempo con il quale abbiamo a che fare. E' dunque esistito un tempo sufficientemente lungo affinché dal nulla si sviluppasse in piccole fasi successive un occhio? I fossili ci dicono che la vita è andata evolvendosi sulla Terra per più di 3.000 milioni di anni.
 
LUMEN – Un tempo quasi inconcepibile.
DAWKINS – Appunto. E' del tutto inconcepibile per la mente umana abbracciare una simile immensità di tempo. Per nostra natura - e per nostra fortuna - noi consideriamo la nostra aspettativa di vita come un periodo di tempo sufficientemente lungo, ma non possiamo ragionevolmente sperare di vivere neppure un secolo. Sono trascorsi 2.000 anni da quando visse Gesù, un periodo di tempo sufficientemente lungo per rendere indistinta la differenza che intercorre tra storia e mito. Riusciamo a immaginare un milione di simili archi di tempo, che si susseguono snodandosi all'infinito?
 
LUMEN – Praticamente impossibile. 
DAWKINS - Si pensi alla moltitudine di trasformazioni evolutive che possono essersi compiute. Le razze canine domestiche - i pechinesi, i barboncini, gli spaniel, i San Bernardo e i chihuahua - derivano tutte dai lupi, in un arco di tempo misurabile in centinaia, al massimo migliaia di anni. Si pensi alla moltitudine di trasformazioni necessarie a passare da un lupo a un pechinese. E ora si moltiplichi questa moltitudine di trasformazioni per un milione: così facendo, diventa agevole ritenere che un occhio possa essere nato da un non-occhio attraverso fasi impercettibili.
 
LUMEN – I creazionisti però non demordono.
DAWKINS - Si sostiene spesso che affinché possa esservi un occhio è necessario che esistano tutte le parti di un occhio, oppure l'occhio non sarà funzionante. Metà occhio, così si ritiene, non è molto meglio che non avere l'occhio tout court. Non si vola con mezza ala. Non si può udire con mezzo orecchio. Pertanto non può esservi stata una serie di evoluzioni intermedie successive che hanno portato all'occhio, all'ala o all'orecchio moderno.
 
LUMEN – Mi sembra un ragionamento un po’ semplicistico.
DAWKINS – Molto, direi. Questo tipo di ragionamento è così superficiale che ci si può soltanto chiedere quali siano le ragioni inconsce per volerci credere. E' ovviamente falso che un mezzo occhio sia inutile. Chi soffre di cataratta e si è sottoposto alla rimozione chirurgica del cristallino non può vedere molto bene senza occhiali, ma vedrà comunque molto meglio di chi non ha del tutto gli occhi. Senza un cristallino non si mette a fuoco un'immagine precisa, ma si può tuttavia evitare di inciampare in un ostacolo e si può identificare la sagoma di un predatore in agguato.
 
LUMEN – Senza dubbio.
DAWKINS – Il ragionamento analogo - che non si possa volare con una mezza ala - è smentito anch'esso, da un vasto numero di animali che riesce con successo a effettuare dei voli o dei movimenti più o meno planati, e tra essi mammiferi di taglie diverse, lucertole, rane, serpenti e calamari. Molti diversi tipi di animali che vivono sugli alberi hanno tra i loro arti dei lembi di pelle che costituiscono quasi delle porzioni di ala. Se si cade da un albero, qualsiasi lembo di pelle, qualsiasi ulteriore superficie del corpo che aumenti l'area di impatto può salvare la vita.
 
LUMEN – Anche una differenza minima.
DAWKINS - Per quanto piccolo o grande sia questo lembo di pelle, deve pur sempre esserci una soglia critica in corrispondenza della quale, se si cade da un albero di quella altezza, la vita sarebbe stata salva proprio ed esclusivamente in virtù di una superficie di pelle lievemente maggiore. Quindi, quando i discendenti di questo esemplare avranno evoluto un lembo di pelle appena più grande, le loro vite saranno salve grazie a una superficie appena maggiore di quella necessaria a salvarli se fossero caduti da un albero appena più alto.
 
LUMEN – E così via, per fasi impercettibilmente graduali, per centinaia e centinaia di anni, si è arrivati all'ala nella sua completezza.
DAWKINS – Ed all’occhio, all’orecchio, e a tutti quegli altri organi che ci appaiono così incredibilmente complessi.
 
LUMEN – Grazie professore, è stato un piacere.
DAWKINS – Grazie a voi.