venerdì 25 dicembre 2020

Esegesi Biblica – 1

Questo post è dedicato a tutti coloro (probabilmente i “poveri di spirito” del Vangelo) ancora convinti che la Bibbia sia la parola illuminata di Dio e che i suoi insegnamenti vadano seguiti alla lettera per un mondo migliore.

Soprattutto per quanto riguarda il ruolo della donna nella società (ma nel Vecchio Testamento ci sono episodi anche più imbarazzanti).

Il testo (diviso in 2 parti per comodità di lettura) è un divertissement di Ugo Bardi ed è tratto dal blog Effetto Cassandra.

LUMEN


<< Nel libro della Genesi della Bibbia, leggiamo come Tamar si prostituì per avere figli da suo suocero, Giuda. È una storia affascinante che ci racconta di tempi remoti, ma non così remoti da non poter comprendere la difficile situazione delle persone che hanno vissuto e lottato in un mondo molto diverso dal nostro.

La storia di Tamar viene spesso commentata per il suo significato morale e religioso, ma prendiamolo qui in considerazione con uno scopo più concreto: capire come l'abitudine delle donne sposate di indossare un velo abbia influenzato le antiche società patriarcali e, occasionalmente, potrebbe essere stata un vantaggio per le donne.

Quindi, iniziamo con i protagonisti. Giuda era uno dei patriarchi degli Israeliti, il pronipote di Abramo in persona. Non era proprio un modello si virtù, e ci viene detto di come avessea tentato di uccidere suo fratello Giuseppe. Più tardi, sembrava aver guadagnato un po' di rispettabilità, si era sposato e aveva avuto tre figli, Er, Onan e Shelah.

Tamar entra nella storia quando sposa Er, il figlio maggiore di Giuda. Non ci viene detto molto sulle origini di Tamar. Fonti diverse dalla Bibbia dicono che era una cananea, altre che era figlia di un sommo sacerdote. La Bibbia non menziona una dote, ma è impensabile che Tamar non ne avesse portata una a Er. Le doti sono tipiche delle società patriarcali dove gli uomini sono considerati più preziosi delle donne. In queste società, una donna può ottenere l'accesso a un uomo di alto rango pagando per il privilegio.

Quindi, Tamar sposa Er e tutto sembra andare per il meglio, ma Er muore improvvisamente. La Bibbia ci spiega che Dio era arrabbiato con Er per motivi non chiari, ma il nocciolo della storia è che Tamar è rimasta vedova senza figli. In questo caso, le società patriarcali avevano una tradizione chiamata "levirato" che favoriva, o addirittura imponeva, che il fratello minore di un uomo deceduto sposasse la vedova. La legge si applicava quando la vedova era senza figli, come nel caso di Tamar.

Le leggi del levirato sono fondate su questioni finanziarie, come la maggior parte dei matrimoni erano nell'antichità, e lo sono ancora. In una società patriarcale, una donna aveva accesso a un uomo di alto rango pagando una dote. Ma se l'uomo fosse morto prima di avere figli, la donna aveva pagato per non avere nulla, perché essendo femmina non poteva ereditare i beni del marito defunto.

La legge sul levirato proteggeva la vedova assicurandosi che avesse un marito e la possibilità di avere eredi maschi. I figli generati dal fratello del marito deceduto sarebbero stati considerati figli e figlie del primo marito per quanto riguarda le questioni ereditarie.

Quindi, leggiamo che la famiglia di Giuda aveva seguito le usanze del levirato e che il cognato di Tamar, Onan, la sposò. Questo sembrava risolvere tutti i problemi, ma qualcosa era andato storto: Onan non era interessato ad avere figli da Tamar. Ci viene detto che "spargeva il suo seme per terra", qualcosa che oggi chiameremmo "coitus interruptus".

Perché Onan lo facesse probabilmente è ancora legato alle implicazioni finanziarie del levirato. Se Tamar avesse generato un erede maschio di Onan, la sua eredità sarebbe stata ridotta perché il figlio sarebbe stato considerato figlio di Er e forse Onan aveva altri figli da un'altra donna. La storia potrebbe essere stata molto più complicata di così, comunque quello che succede è che muore anche Onan. Forse è stato colpito da Dio per il suo cattivo comportamento, ma il punto è che Tamar si ritrova vedova senza figli per la seconda volta.

A questo punto le cose si complicano davvero. La legge sul levirato dice che Tamar dovrebbe ora sposare il figlio rimanente di Giuda, Shelah. Ma lui è troppo giovane, e così Tamar si ritrova promessa sposa di un bambino con la prospettiva che quando sarà cresciuto abbastanza, si comporterà come Onan, per gli stessi motivi.

Poi, dopo aver seppellito due mariti, possiamo immaginare che la reputazione di Tamar era un po' offuscata, per non dire altro. Forse è una strega? Non dimentichiamoci che la Bibbia dice nell'Esodo, "Non permetterai che una strega viva". Riguardo a Shelah, non doveva essere così entusiasta alla prospettiva di dover sposare una donna che poteva avere 10 anni più di lui.

E Giuda, cosa poteva fare? Forse avrebbe potuto rimandare Tamar dalla sua famiglia, ma poi avrebbe dovuto ripagare la dote che aveva ricevuto - non una prospettiva che gli faceva piacere, ovviamente. Stando così le cose, sembriamo avere una classica situazione dove perdono tutti. Ma poi succede qualcosa che cambia tutto. 

Leggiamo la storia dal libro della Genesi: 

13 E fu riferito a Tamar, dicendo: Ecco, tuo suocero sale a Timnath per tosare le sue pecore. 14 Si tolse di dosso le vesti da vedova, si coprì con un velo, si avvolse e si sedette in un luogo aperto, che è sulla strada per Timnath; poiché vide che Shelah era cresciuto e non gli era stata data in moglie. 15 Quando Giuda la vide, pensò che fosse una meretrice; perché si era coperta il viso.

16 E si voltò verso di lei lungo la strada e disse: Va ', ti prego, lasciami entrare in te; (poiché non sapeva che era sua nuora.) E lei disse: Che cosa mi darai, per entrare in me? 17 E lui disse: Ti manderò un capretto del mio gregge. E lei disse: Mi dai un pegno finché non la invierai? 18 Ed egli disse: Che pegno ti darò? E lei disse: Il tuo sigillo, i tuoi braccialetti e il tuo bastone che è nelle tue mani. Ed egli glieli diede, ed entrò in lei, e lei concepì da lui. 19 Ella si alzò e se ne andò, si tolse il velo e indossò le vesti da vedova. 

20 E Giuda mandò il suo amico Adullamita con la capretta, a ricevere il suo pegno dalla mano della donna, ma non la trovò. 21 Quindi interrogò gli uomini di quel luogo, dicendo: Dov'è la meretrice che era qui sul lato della strada? E dissero: Non c'era nessuna prostituta in questo luogo. 22 E tornò da Giuda, e disse: Non riesco a trovarla; e anche gli uomini del luogo dissero che non c'era nessuna prostituta in quel luogo. 23 E Giuda disse: "Lasciamo perdere, che altrimenti ne saremo svergognati". Ecco, ho mandato questa captretta e tu non l'hai trovata. 

24 E avvenne circa tre mesi dopo, che fu detto a Giuda, dicendo: Tamar, tua nuora, si è prostituita; e inoltre, ecco, lei è incinta per prostituzione. E Giuda disse: Falla venire qui e che sia bruciata. 25 Quando fu accompagnata, mandò dal suocero a dirle: "Per l'uomo di cui sono queste io sono incinta; e lei disse: Discerni, ti prego, di chi sono questi, il sigillo e i braccialetti, e il bastone. 26 E Giuda li riconobbe e disse: Ella è stata più giusta di me; perché non l'ho data a Shelah mio figlio.”

 Ora, questa storia ha dei buchi di logica così grandi che ci potrebbe passare attraverso una carovana di cento cammelli. >>

UGO BARDI

(continua)

venerdì 18 dicembre 2020

Il Liberalismo americano

E' ben noto che la politica USA, pur evolutasi da una evidente matrice europea, ha caratteristiche sue proprie, che la rendono peculiare, a partire dalla sua forte impronta liberale e liberista.

Il post di oggi, scritto da Moreno Pasquinelli durante le ultime elezioni presidenziali (e tratto dal sito di Sollevazione), cerca di ricostruire la storia pregressa del liberalismo americano e di ipotizzarne gli sviluppi futuri nel caso – poi verificatosi - di sconfitta elettorale del 'trumpismo'.

LUMEN


<< E’ noto come in filosofia politica (e in scienza del diritto) si presupponga la dicotomia tra 'libertà negativa' e 'libertà positiva'. Teorico della prima concezione fu Thomas Hobbes. Per il nostro la libertà consisterebbe nella assenza di limiti coercitivi esterni che impediscano ad un uomo nel fare quel che gli pare. Scriveva infatti Hobbes che la libertà si situa in tutti i campi che la legge deliberatamente omette e lascia fuori dal suo campo prescrittivo.

Essa si attua: «nella libertà di comprare, di vendere, e di fare contratti l’uno con l’altro, e di scegliere la propria dimora, il proprio cibo, il proprio modo di vita». C’è dunque, per Hobbes, tanto più libertà quanto più sono deboli le interferenze da parte dei pubblici poteri. John Locke, padre nobile del liberalismo moderno, contestò l’assolutismo di Hobbes ma ne adottò la concezione mercatistica e privatistica della libertà.

Di contro i teorici della libertà positiva posero al centro un’altra questione (del tutto dimenticata dai teorici della libertà negativa): posto che la società si deve dare delle norme, chi dev’esserne l’autore? “chi deve comandare? A chi appartiene la sovranità politica?”.

Per Rousseau, per essere davvero liberi, occorre essere autori delle norme, ovvero “non obbedire ad altre leggi se non a quelle che noi stessi ci siamo dati”. Rousseau pose poi una seconda domanda: ha senso dire che sono libero, che posso comprare o vendere ciò che voglio, se non dispongo del denaro e delle risorse per farlo? Se sono povero e non ho alcuna risorsa posso considerarmi libero? Ergo: non c’è libertà in quella società ove i cittadini non dispongano dei mezzi e delle risorse che consentano di esercitarla effettivamente.

E’ noto come in tal modo Rousseau pose le basi, ad un tempo, della teoria democratica e di quella socialista. In estrema sintesi: mentre la teoria negativa assume come proprio paradigma l’individuo privato e proprietario, quella positiva rivendica la centralità della collettività, la sua facoltà di autogovernarsi, il criterio dell’eguaglianza sociale.

E’ certo nel liberalismo individualistico europeo che affondano le radici ideologiche più profonde della cultura politica americana. Radici così potenti e pervasive che hanno impedito che prendessero successivamente piede sia il rousseauismo che il socialismo. Il fatto è che, come ogni altro prodotto d’importazione, una volta trasferitosi in America, il liberalismo ha subito un processo di nazionalizzazione, ovvero radicalizzazione assoluta.

Già nella sua patria d’elezione europea il liberalismo non è mai stato un corpo teorico omogeneo e monocorde. Di liberalismi ne esistono infatti diversi tipi. Vale ricordare la distinzione posta da Benedetto Croce nella sua polemica con Luigi Einaudi tra liberalismo e liberismo. Vero è che questa distinzione lessicale l’abbiamo solo nella lingua italiana, ciò non toglie che essa ci aiuta a capire cosa sia avvenuto negli ultimi decenni in seno alle società capitalistiche occidentali.

Per Croce il liberismo consisteva nella teoria economica smithiana per cui, posta la supremazia della “mano invisibile” del libero mercato, era da condannare qualsiasi interferenza politica che ponesse limiti alla sua provvidenza. D’altra parte il liberalismo poggiava secondo Croce su un’etica che poteva ben conciliarsi con la visione democratica e addirittura socialista, come sia con l’idea di uno stato interventista. (...)

Nel momento in cui la cultura liberal-borghese europea è approdata oltre oceano essa ha subito una metamorfosi profonda e si è venuta consolidando come identità ideologica specifica ed a sé stante; il liberismo britannico, vero padre di questa identità ideologica, ha subito una palingenesi che ha figliato quello che potremmo chiamare ultra-liberismo o meglio, come vedremo, anarco-capitalismo.

Il combinato disposto tra questo ultra-liberismo e le radici religiose del messianismo puritano-calvinista (Weber) costituisce l’ideocrazia americanista — ciò che Hegel avrebbe chiamato volks-geist o spirito del popolo americano; dopo la seconda guerra mondiale, in una lotta senza quartiere contro il suo avversario comunista a trazione russa, questo spirito è venuto avanzando come weltgeist o “spirito del mondo”, fino ad affermarsi come egemone a scala mondiale dopo il catastrofico crollo dell’URRS.

Hegel considerava che il popolo-avanguardia che fosse riuscito ad incarnare lo “spirito del mondo” sarebbe diventato invincibile. Com’è evidente il grande filosofo tedesco si sbagliava. A trenta anni dalla propria apoteosi l’egemonia americana traballa, è già allo stadio della decadenza, quello spengleriano della Zivilisation, della civiltà moribonda condannata a lasciare il posto a quella successiva.

In questo quadro si dovrebbe intendere il 'trumpismo' [come] manifestazione di un doppio fenomeno: da una parte il fatto del tramonto dell’egemonia globale dell’imperialismo americano, dall’altra il tentativo disperato di opporsi a questo destino.

L’icastico slogan trumpiano “Make america great again” esprime plasticamente questo dilemma. Esso non è tuttavia solo un mero back-lash, un contraccolpo di natura interna e/o geopolitica, si presenta come una catarsi dell’americanismo, un ambizioso e radicale tentativo di rinascere riscoprendo e tornando appunto a certe peculiari radici.

Se l’americanismo originario si distingueva per portare alle estreme conseguenze l’individualismo di marca euro-liberale, la vera cifra dell’americanismo trumpiano sta nella tradizione teorica e politica del libertarianism: non si tratta solo dell’idea dello Stato minimo, c’è quella di uno Stato tendente a zero. Evanescente è il confine con l’anarco-capitalismo yankee, la concezione per cui si debba mercatizzare ogni sfera sociale nonché le principali funzioni dello Stato.

Se per democrazia si debbono intendere la sovranità popolare e l’autogoverno dei cittadini attraverso la partecipazione ai processi di decisione politica - quindi il concetto di uno Stato che non possiamo altrimenti qualificare che come Stato etico -, per i libertarians e ancor più per gli anarco-capitalisti una democrazia così intesa non è solo riprovevole, ma una minaccia ai diritti indisponibili dell’individuo.

Se in democrazia la persona è anzitutto cittadino politico, titolare di diritti ma soggiacente alla primazia della comunità, alla base dell’americanismo abbiamo la tesi opposta, quella per cui né la comunità né i poteri pubblicipossono intromettersi nella sfera privata dell’individuo come agente del mercato.

Il libertarismo americano parte dal paradigma lockiano ma lo porta alle estreme conseguenze, alla sacralizzazione del mercato, alla deificazione dell’individuo proprietario. Andando ben oltre il liberismo di Hayek o Milton Friedman, sarà Robert Nozick a cristallizzare questa dogmatica individualista, vera e propria anima oscura dell’americanismo.

Secondo Nozick “lo stato non può usare il suo apparato coercitivo allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri, o per proibire alla gente attività per il suo proprio bene o per la sua propria protezione”. Siamo oltre lo Stato minimo, siamo allo Stato ultra-minimo. Siamo, a ben vedere, oltre la stessa concezione dello Stato come “guardiano notturno”, protettore armato della privata proprietà e dei traffici mercantili (…).

C’è chi teorizza che il populismo trumpiano sia solo una meteora, che vivrà di vita breve come il Partito Populista della fine dell’800 (...). Noi ne dubitiamo e tendiamo a pensare che non possano stabilirsi analogie di destino tra allora (imperialismo nascente) e l’oggi (imperialismo tramontante). L’onda che sorreggeva il trumpismo è lunga, e profondo il solco scavatosi tra popolo ed élite. Il suo impatto sarà quindi duraturo. >>

MORENO PASQUINELLI

venerdì 11 dicembre 2020

Il controllo dell'aggressività umana

Torno sull'argomento, già affrontato più volte ma sempre interessante, dell'aggressività umana, uno degli aspetti in cui appare più evidente (e destabilizzante) la dicotomia tra le spinte genetiche ancestrali e le esigenze culturali della vita di oggi.

Il post è opera di Marco Pierfranceschi ed è tratto dal suo blog Mammifero Bipede.

LUMEN


<< È indubbio che l’abbandono della vita nomade, basata su caccia e raccolta, in favore di un’esistenza stanziale fondata su agricoltura, allevamento ed artigianato, abbia richiesto una importante rimodulazione nelle reazioni istintive dove (...) risultano fortemente coinvolti i meccanismi di autocontrollo e gestione dell’aggressività.

I nostri lontani antenati, adattati alla vita selvatica, avevano necessità di sviluppare abilità diverse dagli individui attuali. La vita all’aria aperta basata su caccia e raccolta, legata al nomadismo che portava ad esplorare luoghi sempre diversi, traeva vantaggio dalla capacità di processare numerosi stimoli contemporaneamente (...). Parimenti utile doveva essere l’attitudine a reagire istintivamente, ed in fretta, ad un pericolo imprevisto.

Un diverso equilibrio tra reazioni istintive e azioni ponderate (ovvero mediate dal pensiero analitico e dai meccanismi di autocontrollo) potrebbe di fatto aver rappresentato la normalità nelle popolazioni del passato. (...) Una condizione destinata a cambiare con lo sviluppo delle pratiche agricole e dell’allevamento, che ha finito col determinare la transizione dallo stile di vita nomade alla stanzialità.

L’adattamento a svolgere mestieri monotoni e ripetitivi ha facilitato l’avvento di individui con tipicità caratteriali completamente diverse da quelle richieste, ad esempio, in una battuta di caccia. Il percorso umano e culturale che ha portato i nostri antenati dal nomadismo delle piccole tribù di cacciatori/raccoglitori alle megalopoli attuali ha obbligato lo sviluppo dei processi mentali legati all’autocontrollo, sia dei pensieri che degli istinti.

In natura, l’occasionale prossimità fra individui sconosciuti della stessa specie è fonte di stress e frequente causa di reazioni aggressive. Con la crescita della popolazione e l’evoluzione dei villaggi in città, il processo di inurbamento ha imposto condizioni di stretta contiguità con una moltitudine di altri individui, richiedendo lo sviluppo di modalità di contenimento delle reazioni più immediate e brutali in favore di interazioni più controllate sotto il profilo emozionale.

La trasformazione delle società umane ha reso la coesistenza fra sconosciuti un fatto frequente, cosa che ha richiesto la compensazione dei preesistenti meccanismi di stress mediante articolazioni mentali in grado di sopprimerli. La transizione, dai rapporti di tipo familiare tipici di una piccola tribù, ad un contesto relazionale esteso, ha richiesto un potenziamento delle capacità individuali di autocontrollo.

Le moderne neuroscienze sono oggi in grado di individuare le strutture cerebrali responsabili del nostro autocontrollo, e quantificarne l’attività ed il livello di funzionalità. Possiamo immaginare come, nell’arco di millenni, queste strutture possano essersi evolute per consentirci di prosperare nel mutato scenario prodotto dall’ascesa delle città e del ruolo da esse svolto nel governo del mondo.

Tuttavia, dati i tempi molto rapidi richiesti da questi adattamenti, nell’ordine di pochi millenni, non si può attribuire tale trasformazione ad una effettiva evoluzione della specie Homo Sapiens, quanto ad un adattamento per accumulo di fattori di natura epigenetica.

I tempi necessari alla propagazione di una modifica di natura genetica sono infatti lunghissimi, ma i geni sono solo una piccola parte del nostro DNA. Una parte ben più consistente è demandata a controllarne l’espressione. L’epigenetica studia le trasformazioni in queste porzioni di DNA.

Rispetto alle mutazioni genetiche, i meccanismi epigenetici consentono, ad individui e popolazioni, di rispondere con prontezza a mutamenti consistenti nell’ambiente, garantendo la sopravvivenza in situazioni in rapida trasformazione. I caratteri acquisiti possono poi, col tempo, fissarsi in una nuova specie, o regredire, nel caso in cui dovessero ripristinarsi le condizioni originarie.

Questo significa che il contesto ambientale può influenzare l’insorgere o meno di determinate caratteristiche negli individui, che queste caratteristiche possono fissarsi ed essere conservate ed è documentato come queste modifiche adattive possono essere trasmesse alla discendenza. È un po’ un rientrare dalla finestra delle idee di Lamarck, dopo che il criterio evolutivo suggerito da Darwin, basato sulla selezione naturale, le aveva buttate fuori dalla porta. (...)

In un lontano passato, i caratteri di curiosità ed irruenza, attualmente tipici dell’età giovanile, venivano preservati negli individui adulti perché funzionali ad una vita nomade basata su caccia e raccolta. Il progressivo inurbamento ha favorito un contenimento generalizzato delle reazioni più istintive e brutali, ma la rapidità richiesta ha attivato processi epigenetici, che non sono né infallibili né irreversibili.

L’occasionale riemergere di tali caratteri arcaici non deve sorprendere in assoluto, e ancor meno deve stupire che ciò avvenga contesti sociali degradati, caratterizzati da modalità relazionali basate sulla sopraffazione e sull’uso diffuso della violenza.

Negli individui cresciuti in condizioni di precarietà affettiva e sociale, elevato stress emotivo, difficoltà economiche e relazionali, i meccanismi di autocontrollo faticano a svilupparsi e fissarsi, e questo è un dato che ci viene confermato dagli studi sui maltrattamenti infantili. Una volta che tali circuiti mentali disfunzionali finiscono col fissarsi nell’individuo adulto, risulta per quest’ultimo più complicato riuscire a sviluppare un soddisfacente equilibrio relazionale. (...)

[Come] affermato da Daniel Goleman nel suo saggio sull'intelligenza emotiva (cito a memoria): “le abilità che non vengono apprese nei primi anni di vita possono essere perse per sempre, o il loro recupero risultare in seguito molto faticoso e nel complesso solo parziale”.

Un individuo penalizzato in gioventù nello sviluppo delle funzioni di autocontrollo avrà una elevata probabilità di diventare un adulto fortemente incline alle reazioni violente ed al rischio di dipendenza da sostanze psicotrope. (…)

Sempre Goleman, in “Intelligenza sociale, afferma che le esperienze traumatiche sperimentate nelle prime fasi della crescita non si limitano a formare un bagaglio culturale, potenzialmente reversibile, ma alterano in permanenza le strutture cerebrali, tanto da rendere ogni successivo tentativo di recupero difficoltoso ed a rischio di insuccessi.

Quindi, non solo dovremmo rivolgere maggior attenzione agli anni dello sviluppo, per evitare che situazioni traumatiche fissino nei giovani modalità relazionali disfunzionali, potenzialmente nocive per sé e per gli altri, ma dovremmo ampliare gli sforzi per consentire ad individui già ‘danneggiati’ un inserimento sociale adeguato, tenendo conto delle limitazioni loro derivanti da meccanismi mentali, di autocontrollo e non solo, potenzialmente compromessi.

In primo luogo andrebbe estesa la consapevolezza delle problematiche legate ad attenzione ed autocontrollo, affinché i portatori possano esserne pienamente consapevoli ed indirizzare al meglio le proprie scelte di vita lavorative e relazionali. Tale consapevolezza andrebbe quindi integrata nel percorso formativo, dalle famiglie alle istituzioni scolastiche, In modo da poter intervenire tempestivamente ove necessario. Da ultimo dovrebbe obbligarci a ripensare la funzione dell’istituzione carceraria.

Perché se quest’ultima deve essere mirata, come nelle formali intenzioni, al recupero e reinserimento nella società civile degli individui che ‘hanno sbagliato’, gli sforzi da impiegare non potranno limitarsi alla detenzione, ma muovere dall’assunto che molte delle persone responsabili di atti incontrollati e violenti risultano già in partenza ‘danneggiate’, ed hanno necessità di terapie sociali, culturali ed emotive, mirate e profonde.

Uno degli assunti fondamentali delle società umane è l’idea che la collettività possa funzionare grazie ad un unico set di regole, valide per tutti, ma ciò ha senso solo se assumiamo che i diversi individui condividano una uniformità caratteriale e relazionale. Le neuroscienze ci raccontano di differenze che possono insorgere a livello fisiologico, tali da obbligarci a rimettere in discussione questo assunto.

Più è ampio il ventaglio di diversità tra gli individui, più il sistema di regole condivise deve prevedere bilanciamenti e contrappesi perché l’equilibrio ottenuto sia funzionale. L’evidenza che, nel momento attuale, un intero ventaglio di diversità caratteriali legate alla gestione dell’autocontrollo non appaia pienamente riconosciuto, suggerisce l’evidenza di un limite strutturale all’efficacia del sistema di regole che ci governa. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 4 dicembre 2020

Il cimitero delle Elites

Vilfredo Pareto fu il primo a introdurre il concetto di élite, che trascende quello di classe politica e comprende l'analisi dei vari tipi di élite. La sua 'teoria delle élites' trae origine da un'analisi dell'eterogeneità sociale e dalla constatazione delle disuguaglianze, in termini di ricchezza e di potere, presenti nella società.

Nel corso del suo sviluppo, ogni società ha dovuto di volta in volta misurarsi con il problema dello sfruttamento e delle distribuzione di risorse scarse. L'ottimizzazione di queste risorse è quella che viene assicurata, in ogni ramo di attività, dagli individui dotati di capacità o di ruolo superiori, i quali constituiscono appunto le élites.

Pareto si è interessato anche al meccanismo di circolazione delle élites, affermando che: "la storia è un cimitero di élite". A un certo punto, infatti, il gruppo di comando non è più in grado di produrre elementi validi per la società e decade. In particolare, nelle élites si verificano due tipi di movimenti: uno orizzontale (movimenti all'interno del gruppo) e uno verticale (ascesa dal basso o declassamento dall'alto).

Allo stato attuale delle élites occidentali (e mondiali) è dedicato l'articolo che segue, scritto da Gennaro Malgeri per il sito “Il dubbio”.

LUMEN


<< La polemica (...) contro le élites da parte dei movimenti cosiddetti 'populisti', invece di innescare una discussione seria sul tema, sembra che stia deragliando verso una sorta di conflitto tra classi dirigenti sconfitte e classi dirigenti emergenti, che come tali oggettivamente tendono a diventare élites a loro volta e, dunque, a rivolgere contro se stesse le imputazioni che ne hanno agevolato le fortune politiche, a dimostrazione che le società prive di élites non sono immaginabili.

Che poi siano attrezzate o meno culturalmente, è un altro discorso. Sulle nuove élites italiane non avrei dubbi: sono tecnicamente abusive, ancorché legittimate dalla posizione che occupano. Il problema è che non immaginano minimamente di essere “provvisorie” e, come tali destinate alla consunzione.

Il tema è di grande impatto (…) e si ha un bel dire che la qualità delle élites non conta: conta eccome. (...) Purtroppo le comunità deperiscono quando esprimono élites inadeguate al ruolo. E dunque la loro mutevole consistenza e qualità è un problema che non si può scansare.

Risalendo alle fonti dell’indagine sulle élites ci si può rendere conto, mettendo da parte per un attimo la discussione corrente, di come il gioco avviato intorno all negazione delle élites per costituirne altre sia piuttosto gravido di incongruenze che non possono che alimentare un conflitto artificioso e pernicioso.

La storia è un cimitero di aristocrazie”, scriveva Vilfredo Pareto. Ed il tempo s’è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto del fondatore della moderna sociologia italiana, che nel suo monumentale Trattato di sociologia generale ha delineato la formazione delle élites come fattore ineluttabile della vita associata e la loro “circolazione” quale evento insopprimibile del divenire storico delle comunità organizzate.

Le leggi non scritte hanno più senso di quelle vergate e tramandate: il senso della visione paretiana è nella logica della dimensione organizzativa che gli uomini, da quanto hanno scoperto la vocazione alla convivenza ed alla formazione di gruppi omogenei, hanno spontaneamente accettato. Ma le élites, o gruppi di comando, o leadership (come si dice oggi) non sempre rispondono alle esigenze del popolo. Anzi, il più delle volte, soprattutto in democrazia, questo è soggiogato dai centri di potere che guerreggiano tra di loro al fine di stabilire la supremazia.

E’ questa “costante” che si può iscrivere sotto la dizione di “ferrea legge delle oligarchie” la cui formulazione teorica è del pensatore tedesco-italiano Roberto Michels che, per quanto contestato da Antonio Gramsci, lo stesso fondatore del Partito comunista gli dava sostanzialmente ragione individuando nelle classi dirigenti politiche (compreso il suo, si presume) un “naturale” allontanamento dalle masse.

Il che vuol dire che la forza della minoranza è sempre e comunque “irresistibile”, come lucidamente sosteneva Gaetano Mosca, “di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che essa è organizzata appunto perché é minoranza”.

Se questo è il quadro – e mi pare nitidamente incontrovertibile – è assolutamente vero che dalle élites non si può prescindere, al di là delle opzioni politiche che si nutrono e che alla luce anche delle riflessioni indotte dall’evoluzione delle scienze umane appaiono sempre più desuete. Elitisti, insomma, beninteso ognuno a suo modo, tutti gli “ideologi” citati? Non c’è alcun dubbio. (…)

Il popolo, insomma, almeno da due secoli a questa parte, è l’alibi che le classi dirigenti, non più aristocratiche nel senso proprio del termine, utilizzano per compiacere se stesse e servire potentati, soprattutto oggi, economico- finanziari e mediatici che con il “sentimento popolare” hanno ben poco da spartire.

Tuttavia (...), le élites di ogni [società] devono saper interpretare lo spirito del tempo, connettersi con il popolo che le esprime comunque e che resta il loro interlocutore. Insomma, se il consenso manca, in democrazia non c’è classe dirigente; ma il consenso non lo creano forse le classi dirigenti capaci di indirizzare, nel senso migliore, il popolo?

E’ su questo interrogativo che soprattutto Pareto – molto più di Mosca che nutriva illusioni liberali, pur essendo un conservatore – ha molto riflettuto raccogliendo i frutti di un’indagine che praticamente è durata tutta la vita, oltre che nel Trattato, nel saggio I sistemi socialisti, dove si legge: “Le élite si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale”.

Anche nei partiti politici, avrebbe aggiunto anni dopo Michels difendendone la legittimità come fattori storici inestirpabili, tuttavia deprecando l’eccessivo culto dei leader ma si sarebbe ricreduto diventando in seguito un fervente fascista, uno degli intellettuali di punta del movimento e del regime.

Ciò che ci lasciano gli “élitisti”, come approssimativamente sono stati chiamati, è appunto la “codificazione” di un dato non eliminabile che genera conflitti e rimette sempre, anche quando non lo si crede più, la storia. Insieme a tutto ciò, è la valutazione finale che ci intriga – o dovrebbe intrigarci.

Concerne la dimensione “morale” che, come insegna Carl Schmitt, non fa parte della politica e neppure della sociologia. E allora, se questo punto di vista è ritenuto valido, non ci si può che fermare alla constatazione e alla “difesa” del principio stesso, cioè a dire che nessun sistema democratico è immune dalla lotta tra le élites. La storia dirà sempre, con ragionevole ritardo, quali delle “nuove aristocrazie” hanno avuto la meglio ed hanno agito al di là del loro interesse.

Ma la cronaca, nella quale siamo immersi, ci consegna un’altra incontestabile verità: l’assoluta mancanza di visione da parte delle delle élites dominanti ai nostri giorni che non sono “costruzioni” legittimate dal consenso democratico, per quanto fittizio possa essere, ma da invisibili lobbies che si costituiscono in forma di centri di manovra allo scopo di far passare le loro “verità” come “bene comune”, utilizzando (e disprezzando) la democrazia che perciò oggi, in ogni parte del mondo, è “il problema”. (...)

Ed i problemi dovrebbero essere risolti, come si sa. In qual modo oggi è difficile immaginarlo. L’egemonizzazione dello spazio culturale, sociale e politico a cui si riferiva Gramsci, non sembra alla portata. L’alta finanza, il capitalismo globalista, perfino il comunismo tecnocratico (Xi Jinping è un vero genio!), il neo- colonialismo umanitario di fronte alle decadenti democrazie occidentali hanno partita facile.

La rigenerazione di altre élites presuppone complessi di riferimento dai quali possano prodursi e ristabilire una corretta “circolazione”, come Pareto la intendeva. Utopia? E sia. Probabilmente i nuovi conflitti planetari offriranno “spazi” che ancora non si vedono o che forse appena si intuiscono. >>

GENNARO MALGERI