mercoledì 29 aprile 2020

Breve corso di teologia applicata

Questo dialogo immaginario mi è stato mandato dall'amico Sergio Pastore, che ringrazio per la cortesia. Ho deciso di pubblicarlo perchè l'ho trovato non solo divertente e godibile, ma anche più profondo di quanto non sembri. Buona lettura.
LUMEN


SERGIO SCREANZATI - Chi o che cosa è 'Dio'?
TEOLOGO - È il creatore, l’Essere Perfetto, Atto puro, Puro Spirito

SCREANZATI - Mi può spiegare cosa è un Atto puro o Essere Perfetto?

TEOLOGO - Ma certo, figliuolo. Atto puro significa che Dio ha realizzato o attuato tutte le sue potenzialità, se no non sarebbe perfetto. Ciò che esiste solo in potenza difetta dell’attuazione, dell’esistenza, non è completo.

SCREANZATI - Ma se Dio si è completamente realizzato non può aggiungere altro, è in un certo senso arrivato al limite. Ma ciò cozza con il «dogma» dell’onnipotenza.

TEOLOGO - Ma lo sai che sei un sofista? Vorresti insinuare che Dio non è onnipotente? Ma il catechismo l’hai studiato o no? Ripassalo e poi non porrai più domande così ingenue e persino un po’ cattivelle. Ma con me non funziona, io so rintuzzare ogni attacco, non per niente mi sono addottorato in questa materia, la teologia, che ne sa una più del diavolo. Sei sotto scacco, figliuolo, tiè!

SCREANZATI - Piano, piano. Non ho ancora finito. Ho ancora qualche obiezione da fare in merito all’onnipotenza. È il paradosso noto anche a lei: può Dio creare un macigno tanto pesante da non poterlo sollevare? Si rivela impotente in entrambi i casi: se il macigno non può crearlo non è onnipotente, e posto il caso che possa crearlo ma non può poi sollevarlo si rivela di nuovo impotente.

TEOLOGO - Ma su, figliuolo, queste sono obiezioni ridicole. Non posso darti nemmeno la sufficienza, sei rimandato a ottobre. Perché Dio è Dio, Atto Puro e Puro Spirito, onnipotente, onnisciente, bontà infinita: ma c’è scritto chiaro chiaro nel catechismo. Adesso basta, eh!

SCREANZATI - Mah, non sono convinto, anzi, mi sembra che lei mi stia prendendo per i fondelli. Ma non sono così scemo, sa!

TEOLOGO - Ma figuriamoci, ti ho sempre ritenuto uno dei più svegli in classe e ti ascolto volentieri. Dagli allievi svegli anche i professori imparano, per esempio a trovare altri argomenti per tenerli sotto.

SCREANZATI - Tenerli sotto? Ma che dice? Lei mi fa dubitare delle sue intenzioni. Comunque riprendiamo il discorso su Dio. Come ha saputo della sua esistenza? E non mi tiri fuori di nuovo il catechismo!

TEOLOGO - Dio si riconosce e manifesta in due modi: con la logica, o il pensiero, e con l’esperienza mistica (poi c’è la rivelazione, ma lasciamola stare per il momento, limitiamo il discorso ai due modi suddetti). Già Aristotele ha dimostrato che il regressus ad infinitum è impossibile, inconcepibile. Tutto ha una causa e all’inizio della catena ci dev’essere per forza la causa prima, il motore immobile. Questo lo capiscono tutti, ci arrivano anche i bambini. Dunque Dio esiste, ma se vuoi ti concedo anche di chiamarlo Causa prima o Motore immobile, sono sinonimi. Poi c’è l’esperienza mistica: l’incontro personale con Dio, la rivelazione ad personam, della quale però non si può parlare in termini logici, è francamente impossibile, è qualcosa d’ineffabile, inesprimibile.

SCREANZATI - Sul primo modo di conoscere Dio (risalire dalle cause alla Causa prima) potrei essere anche d’accordo. Sul secondo modo invece ho dei dubbi. Lei l’esperienza mistica l’ha già fatta? Conosce per caso altri che hanno fatto quest’esperienza?

TEOLOGO - Io non sono un mistico (a volte vorrei, cerco di fare quest’esperienza, ma non ci riesco, dev’essere colpa mia). Il peccato originale, i miei difetti, le mie colpe m’impediscono di vedere Dio in tutta la sua maestà. Ma di mistici è piena la storia della Chiesa, pensa a Santa Teresa d’Avila, a Santa Caterina. Ma ce ne sono cento, mille altri. Personaggi incantevoli che ci aiutano a credere.

SCREANZATI - Mah! Se le loro esperienze sono ineffabili, come possiamo loro credere, credere alle loro visioni – che francamente a volte fanno ridere a essere benevoli. È come credere agli asini che volano.

TEOLOGO - Fai proprio onore al tuo cognome, ti si addice bene, sei proprio un maleducato.

SCREANZATI - Vedo che sta già perdendo la pazienza. Mo’ mi picchia? Ma proseguiamo. L’altro ieri – Galileo muore nel 1642 – si credeva che la Terra fosse al centro dell’universo e che il sole le girasse intorno. Ma oggi il quadro è completamente cambiato. Già Leopardi aveva ben espresso il concetto d’infinito, sia nella poesia omonima che nella Ginestra (ma anche Pascal nei suoi Pensieri ha detto cose encomiabili). Ma Leopardi non sapeva ancora quello che sappiamo noi due secoli dopo. Anzi, pensi che Einstein quando formulò la sua tesi della relatività nel 1916 (appena un secolo fa!) pensava che la nostra galassia, la Via Lattea, costituisse l’intero universo! E invece questa galassia è solo una dei cento miliardi di galassie oggi stimate. Non so se si rende conto: cento miliardi di galassie che contengono o possono contenere miliardi di stelle. La Via Lattea ne contiene da duecento a trecento miliardi, altrettante o anche più la gemella Andromeda che si fonderà con la Via Lattea fra qualche miliardo di anni. Se uno pensa intensamente a questa realtà – confermata, pensi un po’, persino dai chierici astronomi della specola di Castel Gandolfo – resta senza parole. L’unica reazione possibile davanti a questa realtà è il silenzio, tra sgomento e ammirazione. Io personalmente non mi sentirei di dire: “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Mi sento piuttosto annichilito. Cosa siamo noi al confronto? Niente. Secondo logica non proprio niente, ma un quasi niente. Adesso poi si ipotizza persino un pluriverso, un universo parallelo, anzi più universi, cento, mille. Semplicemente pazzesco, no? È qualcosa d’inconcepibile, terrificante. E a questo punto penso che, quasi quasi, signor Teologo, possiamo metterci d’accordo o trovare un punto d’incontro.

TEOLOGO – Sentiamo.

SCREANZATI - Il Dio delle religioni rivelate – eterno, immenso, onnipotente, onnisciente (lasciamo stare la bontà infinita) – non è poi simile o persino identico all’immenso universo che contiene tutto il pensabile e l’immaginabile? La definizione di Dio come Essere Perfetto o Totalità dell’Essere non si addice anche all’universo o pluriverso? Il catechismo dice: Chi ci ha creati? Ci ha creato Dio (per amarlo e servirlo in questa vita e goderlo poi nell’altra, in paradiso). Ma chi ha creato Dio? Lei mi dirà: ma che domanda sciocca! Dio è Dio, la Causa prima, il Motore immobile, l’Essere Perfetto, la Totalità dell’essere! Ah, questa mi piace, sa! La Totalità dell’Essere! Ma è quello che dicevo poco fa: l’universo o il pluriverso costituisce appunto la Totalità dell’Essere, oltre o al di fuori del qualche non è concepibile alcunché, nemmeno il nulla.

TEOLOGO - Senti, figliuolo, mi fai girare la testa. Però è vero quello che dici, ma guarda un po’. Sì, la Totalità dell’Essere è un concetto che mi piace, più del Puro Spirito che in effetti non si sa che significhi. Dio coincide con l’universo, è qualcosa di maledettamente concreto, sì, materiale. Mi sembra che anche quell’ebreaccio di Spinoza dicesse qualcosa di simile, 'Deus sive natura'.

SCREANZATI - Ah, meno male, cominciamo a ragionare. Dio o l’universo o la materia sono eterni, non creati da nessuno (quello che si diceva una volta del Dio cristiano). A questo punto possiamo anche dire – con Emanuele Severino – che “tutto è da sempre e per sempre”. Gesù e la Madonna, Dio padre e lo Spirito Santo sono forse simpatici (mica tanto però, se penso alle invettive di Gesù), ma non hanno realtà, consistenza. Ma l’universo, la Terra, il Sole, Marte, Giove, Alpha Centauri, Andromeda, Orione, le due Orse ecc. ecc. “sono” – indubitabilmente. Se ne dubitassimo non potremmo affermare alcunché. Ma non solo: anche noi, io e Lei, signor Teologo dei miei stivali, “siamo”. Se Dio non c’è, almeno nel senso di voi teologi e cristiani, noi 'siamo', ci siamo. Bello, no?

TEOLOGO - Però, guagliò, non hai tutti i torti, ci devo pensare un po’. Ebbravo, mo’ ti do un dieci e lode. Passa poi in camera mia che ti devo far vedere qualcosa.
SCREANZATI - Eh no, adesso la denuncio!

SERGIO PASTORE

giovedì 23 aprile 2020

Colonialismo e Risorgimento

Ho già parlato in passato (luglio 2017) della storiografia alternativa sul Risorgimento italiano, che re-interpreta questo periodo in una prospettiva molto diversa da quella ufficiale.
Il pezzo di oggi, scritto da Enrico Montermini (e tratto dal sito Pocobello), tenta un provocatorio parallelismo tra l’annessione del centro-sud da parte del Regno del Piemonte e le conquiste coloniali delle altre potenze europee.
Vi è inoltre un ben preciso riferimento all’intervento (dietro le quinte, ma fondamentale) dei grandi centri finanziari dell’epoca, che, data la loro natura internazionale, sembrano già prefigurare le élites apolidi del globalismo moderno.
LUMEN


<< La storiografia più recente [sul Risorgimento] ammette che tra gli obbiettivi di Cavour c’era quello di garantire alla nascente industria del Nord i capitali per il suo sviluppo e un mercato per i suoi prodotti. A questo punto, se vogliamo chiamare le cose col loro nome, si deve parlare di una guerra coloniale: un’espressione che gli storici si rifiutano di usare per una sorta di riserva mentale, che del resto è facilmente comprensibile.

Parlare di guerra coloniale impone l’uso di determinate categorie di analisi, che risultano politicamente scomode ancora oggi. Per convincersene basta constatare che i più importanti documenti governativi sul Risorgimento sono tuttora coperti da segreto di Stato. Nell’epoca dell’imperialismo il capitale monopolistico ruppe gli argini ristretti dello Stato nazionale per espandersi all’Estero. È questo il filo rosso che lega il colonialismo al neo-colonialismo.

Nella fase coloniale la potenza imperialista interviene direttamente per garantire la sicurezza degli investimenti e lo sfruttamento del territorio. Nella fase successiva dell'emancipazione nazionale [post-coloniale], il grande capitale arruola tra gli indigeni il personale di cui ha bisogno: tecnici, amministratori, sbirri.

Sebbene in modo più sfumato, la potenza imperialista continua anche in questa fase a condizionare la ex colonia ora indipendente: attraverso i programmi di assistenza economica, militare e culturale, ma ricorrendo anche alla corruzione, all’intimidazione, al colpo di stato e all’intervento militare diretto. Il tutto nell’interesse del grande capitale, che nel frattempo è diventato cosmopolita.

Nel caso italiano il Regno del Piemonte si sostituì, semplicemente, all’Austria come potenza coloniale. L’unità d’Italia segnò il punto di transizione dall’epoca coloniale al neo-colonialismo. Abbiamo infatti la fine di una dominazione straniera – piemontese, in questo caso – e il sorgere di uno Stato unitario e formalmente indipendente sul piano politico, ma pur sempre aggiogato al carro del grande capitale.

La resistenza delle strutture ‘tribali’ alle strutture del capitalismo avanzato hanno provocato un fenomeno di reazione, che è possibile osservare nella storia di ogni Paese toccato dal colonialismo. Questa situazione si può trovare anche nel Mezzogiorno italiano e prende il nome di brigantaggio.

Le strutture economiche del capitalismo hanno prodotto, nei Paesi di recente indipendenza, anche nuove strutture sociali che si sono sovrapposte a quelle tradizionali. Mi riferisco ad una particolare classe sociale, chiamata borghesia compradora. Essa non è la borghesia produttiva che fa impresa. Non è la piccola borghesia cittadina dedita al commercio spiccio né quella rurale dei piccoli proprietari terrieri.

La borghesia compradora può essere descritta come l’agente del grande capitale nei Paesi in via di sviluppo oppure come l’intermediario tra il capitalismo cosmopolita e la popolazione indigena. E’ la classe sociale degli amministratori, degli ufficiali dell’esercito, degli impiegati di banche straniere e multinazionali, dei liberi professionisti.

L’unica ragion d’essere della borghesia compradora è la difesa degli investimenti stranieri sul territorio minacciati dalle rivendicazioni sociali delle masse indigene oppresse. Da ciò i suoi membri traggono una rendita di posizione, che si esprime nelle forme del potere personale, del prestigio e della ricchezza.

La borghesia compradora comparve in Italia alla vigilia dell’unità nazionale col preciso compito di saccheggiare il Paese per sé e per i propri padroni: i potenti banchieri (…) di Parigi, Londra e Ginevra guidati dai Rothschild. Furono costoro, infatti, che finanziarono le guerre d’indipendenza e il processo di modernizzazione del Paese. Considerati gli interessi che la borghesia compradora difende, non sorprende che governi di diverso colore politico si alternino tra loro senza che nulla cambi. (…)

Fu la grande finanza (…) a spingere i governi europei a intraprendere le iniziative coloniali dell’Ottocento. Ciò accadde perché il grande capitale non trovava più sufficientemente remunerativi gli investimenti nelle loro nazioni d’origine. Il caso italiano non fa eccezione. Furono i Rothschild di Parigi e i loro agenti a Parigi, Londra e Ginevra a finanziare le guerre d’indipendenza, la costruzione di cantieri navali, ferrovie e fabbriche di armi, l’allestimento di una moderna flotta.

Re Vittorio Emanuele II e Cavour contrassero con la finanza (…) debiti di tali proporzioni da rendere necessario il saccheggio sistematico del resto della Penisola. Questo fu il meccanismo criminale che portò all’unificazione della Penisola. L’Italia è sempre stata una terra ricca grazie ai suoi porti, alla sua collocazione geografica, alla fertilità della pianura padana, all’ingegnosità dei suoi abitanti: c’era tanto da predare in Italia, allora come oggi.

Il sacco d’Italia iniziò accentrando in un’unica mano la leva della fiscalità a partire dal 1861 [l’anno dell’unità - NdL] e fu condotto per mezzo di un esercito di amministratori corrotti, sbirri e soldati. Così, servendosi della borghesia compradora selezionata e arruolata dalla massoneria, il grande capitale instaurava le sue strutture economiche nella Penisola. Il risultato fu un’ondata di miseria quale non se ne ricordava da secoli: fu a quel punto che milioni di compatrioti iniziarono a emigrare in America con le famose valige di cartone. (…)

Dal 1861 la borghesia compradora che governava il Paese impose al Sud la pesante tassazione che già gravava sul Nord, aggiunse nuovi balzelli come l’odiosa tassa sul macinato, confiscò i palazzi e le tenute fondiarie della Chiesa, che i soliti faccendieri si accaparrarono a prezzi stracciati.

Tutto ciò serviva ad alimentare la corruzione, la speculazione e il clientelismo mentre prestiti sempre crescenti venivano richiesti sui mercati alimentando la spirale del debito pubblico. Fu così l’Italia si configurò, fin dall’inizio, come una cleptocrazia ossia un governo basato sul malaffare.

Sia ben chiaro, dove c’è la politica vi è sempre corruzione, in qualunque Paese: tuttavia, tra tutti i Paesi più evoluti, solo in Italia si è affermato un sistema democratico basato sulla corruzione sistematica e il clientelismo gestito dai partiti. Se infatti venissero meno gli aspetti corruttivi e clientelari del sistema, i partiti imploderebbero su sé stessi perché non hanno alcun seguito popolare e la democrazia in Italia collasserebbe. (…)

Date queste premesse, occorrerebbe rivedere la storia del fascismo come una [semplice] fase di un processo storico di lungo periodo, che ha certe caratteristiche consolidate nel tempo. Si dovrebbe ammettere, ad esempio, che i governi dell’Italia liberale non hanno esitato a usare l’esercito per reprimere gli scioperi, che le carceri sabaude erano piene di oppositori politici chiamati briganti e che la lotta al brigantaggio si combatteva anche bruciando i villaggi e deportando la popolazione.

Si dovrebbe ammettere, ad esempio, che la polizia ai tempi di Scelba non agiva in modo diverso dalle camicie nere nel periodo 1921-22 per reprimere il dissenso, che, in questi casi, aveva un colore politico: quello del comunismo. L’intera storia di questo Paese andrebbe riscritta per smascherare il sistematico ricorso alla coercizione armata degli apparati dello Stato per perpetuare il potere della borghesia compradora asservita al grande capitale cosmopolita. >>

ENRICO MONTERMINI

venerdì 17 aprile 2020

Le crisi periodiche del Capitalismo

Come ho già accennato in altre occasioni, considero il pensiero marxista eccellente nell’analisi dei fatti storici ed economici, ma decisamente carente, quasi ingenuo, nelle proposte politiche.
Non fa eccezione il pezzo che segue, scritto (benissimo) da Moreno Pasquinelli per il sito Sollevazione, in cui si parla di Marx, di Keynes, di capitalismo e di sovrapproduzione, oltreché, inevitabilmente, di socialismo e rivoluzione.
L’analisi – pur essendo stata scritta prima dell'attuale crisi di pandemia – non ha perso nulla della sua validità ed attualità.
LUMEN


<< L'attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il “mercato” il sistema che meglio di ogni altri contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione. (...)

Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni.

Questo contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni (...), lungi dal risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti. Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte degli economisti (…) si consideri keynesiana. (…)

Keynes, malgrado avesse colto le contraddizioni profonde insite nel modo capitalistico borghese, non ha mai nascosto la sua predilezione per il sistema capitalistico, ne ha mai fatto mistero della sua avversione verso il marxismo e l’ideale socialista. Keynes si considerava anzi il medico la cui missione era appunto salvare un capitalismo affetto da malattie e contraddizioni congenite, che se lasciato a sé stesso sarebbe anzi andato incontro alla morte. (…)

L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta la neutralità della moneta considerata solo mezzo di scambio) il mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia di beni che di capitali. (…) Per Keynes il mercato non assicurava [di per sé] né la piena occupazione né un’equa distribuzione della ricchezza.

Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale il denaro non fungeva solo da (1) parametro per misurare valori/prezzi e (2) come mezzo di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione.

Nei cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.

In termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato, non solo non c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di beni, e non esiste alcuna garanzia che il risparmio accumulato ritorni nel mercato sotto forma d’investimenti, il che condetermina la crisi, la stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi destinata al risparmio (tesaurizzazione) invece che agli investimenti.

Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra eccesso di offerta e insufficienza della domanda? E di chiudere la forbice tra la massa accumulata di denaro che se ne sta ferma tesaurizzata, e quella decrescente che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su due fattori principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”).

Ma quali sono queste leve? Dal momento che il mercato non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una forza esterna ad essi, l’autorità statuale titolare di facoltà d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità politica, giuridica e monetaria, deve intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e quattro.

In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria flessibile, abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando così la tesaurizzazione, o l’eccessivo accumulo di risparmi.

In seconda battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una imposizione progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della ricchezza verso i redditi medio-bassi, che per Keynes hanno una più decisa propensione al consumo. (...)

Infine Keynes proponeva che lo Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una politica di ‘deficit spending’, ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso (denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in eccesso. (…)

Marx la pensava diversamente, (…) e riteneva che il modo capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno quattro leggi principali:

(1) più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere;
(2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più generale quanto più il boom è stato consistente;
(3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera: distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con conseguenze sociali devastanti;
(4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.

Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del capitalismo, quella di sfociare nelle crisi di sovrapproduzione (…) che possono essere parziali oppure generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi. E’ proprio quando l’economia incontra queste crisi generali che immani quantità di capitali e forze produttive debbono essere necessariamente distrutte, con conseguenze sociali catastrofiche, con la società che è sospinta indietro di decenni.

Tuttavia è proprio grazie a queste crisi, che attengono alla fisiologia stessa del capitalismo, che esso può far ripartire un nuovo ciclo di crescita, destinato a sua volta e sfociare in una nuova crisi. Lo Stato della borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici delle crisi di sovrapproduzione, differirli nel tempo, non può mai essere risolutivo.

In ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi alle fisiologiche necessità della classe economicamente dominante e quindi, dentro la crisi generale, passare allo Stato d’eccezione per scaricare i costi della crisi sul lavoro salariato, soffocando la sua spinta emancipatrice, e allo Stato di guerra per strappare spazi vitali a capitalismi concorrenti.

La storia ha confermato le analisi di Marx. I suoi detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità, da nessuna parte Marx ha sostenuto che il capitalismo fosse destinato al crollo, se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo “crollo”, come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo storico di convulsioni. (…)

Non vi aspettate che Marx abbia consigliato alla borghesia eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema, che le crisi cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di produzione, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema socialista. (…)

L’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale, al pari delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella economica, finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto economico? Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli spirituali e culturali sarebbero menomati.

Per realizzare questo controllo sociale, questo è il punto, occorre sottrarre i mezzi di produzione e di scambio dal dominio proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a fare i suoi propri egoistici interessi, e diventare, al pari di tutti gli altri beni comuni, proprietà sociale. (…) La statizzazione è solo una forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la statizzazione verticistica, che farebbe della burocrazia statale un demiurgo autoritario, e la completa e orizzontale autogestione, possono esistere innumerevoli soluzioni mediane.

E della stessa pianificazione economica, considerata con orrore dai liberisti, ne esistono svariate modalità. Lo stesso capitalismo, in barba alla “mano invisibile del mercato” conosce plurime forme di pianificazione: cos’altro è la politica economica keynesiana se non una pianificazione generale? (…)

Fanno altrettanto anche i grandi gruppi monopolistici, che crollerebbero facilmente se non pianificassero fin nei dettagli tutto il ciclo produttivo, dal reperimento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Solo un’economia razionalmente pianificata può debellare la principale calamità che affligge il capitalismo: la sovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile sperpero di risorse e di energie consistente nell’accumulare mezzi di produzione e beni (sotto forma di merci) che non solo si riveleranno inutili alla società e dovranno essere distrutti, ma che arrecano danni spesso irreversibili al nostro pianeta. >>

MORENO PASQUINELLI

venerdì 10 aprile 2020

Evoluzionismo vs. Creazionismo

Esistono ancora oggi dei poveretti che sostengono che la terra è piatta (i ‘terra-piattisti’), ma vengono guardati con semplice commiserazione, e nessuno ci fa molto caso.
La stessa cosa dovrebbe avvenire con i creazionisti, ancora convinti che il mondo abbia avuto origine nel modo assurdamente inverosimile descritto nella Bibbia.
Ed invece no: pare che questi signori siano ancora molto influenti e che, grazie alle donazioni ed ai finanziamenti di qualche eccentrico loro sodale, operino come una lobby (soprattutto negli USA) per ottenere la pari dignità’ teorica con l’evoluzionismo darwiniano, da applicarsi anche nei libri di testo (!).
Quelle che seguono sono alcune puntualizzazioni sull’argomento di Aldo Piombino, tratte dal suo blog (Scienze-e-dintorni).
LUMEN


<< Negli Usa i tentativi di indebolire l’insegnamento dell’evoluzione hanno conosciuto un nuovo impulso e anche in Europa, a lungo considerata relativamente immune a questo tipo di anti-scienza, il creazionismo continua ad avanzare.

Pertanto 150 anni dopo Darwin la battaglia contro l’arretratezza mentale (almeno dal punto di vista scientifico) degli anti-evoluzionisti, è ancora da vincere, nonostante che la pubblicazione de “l’origine delle specie” sia stata uno spartiacque fra il “prima” in cui la mancanza di un “motore” dell’evoluzione rendeva possibile il dibattito, ad un “dopo” in cui nessun uomo di Scienza ha potuto dubitare dell’evoluzione (…).

[Purtroppo] alcuni aspetti dell’evoluzione sono fraintesi e anche grazie a tali fraintendimenti gli anti-evoluzionisti possono trovare alcuni (sbagliati) appigli. (…)

Significato di evoluzione

Darwin non parlò mai di “evoluzione” ma di “discendenza con modificazioni”. È una distinzione particolarmente importante perché nel XIX secolo quando fu introdotto il termine "evoluzione" questo serviva per mettere l’Uomo al vertice della biosfera (e, calandosi nel periodo vittoriano, della supremazia dell’uomo inglese su quelli europei in primis e sul resto dell’umanità poi).

Con il termine evoluzione quindi la darwiniana asettica “discendenza con modificazioni” diventava tacitamente un “progresso”. In realtà ciò non è sempre vero: certamente la “corsa agli armamenti” fra preda e predatore fa sì che certi standard (riflessi, corsa, veleni ed immunizzazione dai veleni, etc. etc.) migliorino, e in genere forme di vita più performanti soppiantino quelle meno performanti una volta che entrino in una determinata nicchia ecologica: l’estinzione delle faune autoctone del Sudamericane quando si è formato l’istmo di Panama è un esempio classico, come lo sono in tutto il mondo le specie invasive portate dall’uomo.

Ma non c’è un finalismo in tutto ciò, né una specie meno “progredita” dal punto di vista fisiologico verrà soppiantata necessariamente da una più progredita o intelligente: ad esempio un coccodrillo è “meno perfetto” di un mammifero, se guardiamo a intelligenza, complessità strutturale, comportamento e quant’altro, ma nel suo ambiente non ha rivali. Quindi lì è più performante di qualsiasi mammifero che abbia tentato di spartire con lui la nicchia ecologica di "predatore fluviale d'apice in zone equatoriali".

Invece i coccodrilli di abitudini più terricole che sfruttando l’estinzione dei dinosauri hanno popolato la Terra nel primo Paleocene sono scomparsi appena uccelli e mammiferi carnivori si sono organizzati con forme capaci di fare loro concorrenza. Insomma, c’è una netta differenza fra un prodotto della tecnologia e un essere vivente: nessuno comprerebbe per un uso quotidiano una automobile di 50 anni fa, che per certi versi è diversa da quelle attuali come un rettile lo è da un mammifero, mentre i rettili sono ancora in “servizio regolare”.

Anche la teoria dell’evoluzione si è … evoluta nel tempo e oggi le idee di Darwin sono state “decisamente migliorate”: ad esempio non c’è più il gradualismo esasperato grazie agli “equilibri punteggiati” di Gould e Eldredge; insomma, mentre animali “poco evoluti” come i molluschi bivalvi godono di ottima salute, nessuno può insegnare la biologia come nell’immediato dopo – Darwin (se non parlando di storia della Scienza).

L’evoluzione non spiega (né si sogna di spiegare) l’origine della vita
Con l’evoluzione si spiega la storia della biodiversità da quando la vita è apparsa sulla Terra e come questa si è modificata con il tempo, ma non come la vita sia nata, un problema scientifico aperto (e che non sarà facile risolvere). Il motivo è molto semplice, proprio perché applichiamo il criterio dell’attualismo: non ci sono dubbi che pressioni e meccanismi evolutive abbiano guidato le modificazioni nel tempo degli esseri viventi fin dalla loro comparsa.

Ma l’attualismo non si può applicare ai processi che hanno coinvolto quei composti chimici che alla fine si sono auto-organizzati in sistemi molecolari in grado di replicarsi e mantenere un metabolismo, semplicemente perché non ne esistono più e non possono essere direttamente studiati.

Per parlarne, supponendo che in qualche modo anche questi composti siano stati soggetti a pressioni ambientali di vario tipo, si parla di evoluzione chimica durante questa fase pre-biotica. Ma è una cosa diversa dalla evoluzione in senso biologico. Ovviamente su questo (da loro voluto) equivoco gli anti-evoluzionisti ci sguazzano, perché “secondo loro l’evoluzione è un falso proprio perché, appunto, non spiega l’origine della vita”. (…)

Non ci siamo evoluti per caso
Diversi creazionisti attribuiscono ai biologi l’asserzione secondo la quale il cambiamento degli esseri viventi sia dovuto al puro caso. (…) Diciamo che il caso in diversi aspetti “funziona” ottimamente; anzi, è il motore primo dell’evoluzione: le mutazioni sono effettivamente casuali (o, almeno, non risulta per adesso esistere un trend nelle mutazioni). Ma se qualche mutazione “funziona” e quindi si fissa, mentre altre che non funzionano non si fissano, questo non è certo un caso, a meno che il portatore della mutazione favorevole abbia avuto delle cause contingenti che non gli hanno permesso la riproduzione (ad esempio predazione, scarso sex appeal, catastrofe naturale o epidemia).

Nel caso dei falchi la pressione evolutiva ha selezionato le mutazioni che hanno prodotto la loro proverbiale visione, mentre un falco con una mutazione che gli conferisce una vista scadente “non funziona” e non è un caso se poi non si riproduce… quindi la selezione naturale addirittura fa l’opposto, cioè si oppone al caso quando questo produce disastri. Insomma, esiste un filtro che corregge le casualità delle mutazioni e che addirittura è in grado di accelerare l’evoluzione, diffondendo quelle mutazioni che permettono agli individui di lasciare più discendenti.

D’altra parte la forma del corpo è in qualche modo abbastanza logica: soprattutto notiamo che una caratteristica di base di tutti i phyla che appartengono ai ‘bilatera’, cioè tutti gli Animalia a parte poriferi, cnidari (celenterati) e qualcos’altro è che la parte pensante, i sensi con organi appositi (vista) e l’ingresso del cibo siano “davanti”, mentre l’ano è dietro. Quindi l’evoluzione ha premiato le mutazioni che hanno prodotto questo piano corporeo, sicuramente più logico di uno con il cervello in mezzo e gli occhi dietro.

L’evoluzione è osservabile
Nella concezione darwiniana l’evoluzione era lenta e graduale. Poi si è visto che ci sono dei momenti in cui la biodiversità aumenta rapidamente. Prendiamo ad esempio i dinosauri teropodi che, originatisi nel Triassico, sono sopravvissuti almeno in parte alla estinzione al passaggio fra Triassico e Giurassico: la divisione basale fra Carno-sauri e Celuro-sauri è avvenuta all'inizio del Giurassico.

E questo vale anche all'interno dei Celuro-sauri, la cui biodiversità è a sua volta immensa, a partire dalle dimensioni, fra giganteschi tirannosauri, oviraptororidi, therizinosauri dagli artigli enormi, ornitomimosauri, dromaeosauri dagli artigli simili a falci e, buon ultimi, i piccoli teropodi antenati degli uccelli. Ebbene, tutti questi gruppi si sono originati tra il Giurassico inferiore e quello medio, nei primi 30 milioni di anni di una storia che ne conta 135. Identiche caratteristiche temporali contraddistinguono la storia dell'altro ramo dei dinosauri, gli ornitischi.

Pensiamo poi, per esempio, ad un caso che ci riguarda molto da vicino, l’evoluzione dei Primati: sfruttando lo scontro fra i due continenti, alcuni gruppi passando dall’Eurasia in Africa sono stati protagonisti di una radiazione evolutiva incredibilmente complessa e veloce, che ha fissato la sistematica basale degli antropoidi.

Ma [anche] se veloci dal punto di vista del tempo geologico, a scala umana sono sempre processi molto lenti; tuttavia esistono molti casi nei quali è possibile osservare l’evoluzione in diretta o quasi: la resistenza dei batteri agli antibiotici è forse l’esempio più classico, ma ci sono alcuni adattamenti dovuti ai cambiamenti climatici nei vertebrati dimostrano una velocità evolutiva sorprendente. Un caso eccezionale è quello delle lucertole di Pod Mrcaru: in pochi anni una popolazione di lucertola classica italiana si è trasformata in qualcosa di completamente diverso.

Per rimediare al problema, gli anti-evoluzionisti hanno tirato fuori una delle loro solite fantasie, i ‘baramini’, cioè forme ancestrali create da Dio (a livello credo di “ordine” o di “famiglia”) che poi si differenziano, come cercano di differenziare fra evoluzione intraspecifica (che ammettono all’interno dei ‘baramini’) ed evoluzione interspecifica (quella che fa “nascere” una specie da un’altra, che non ammettono). Un classico esempio del vecchio metodo pre–galileiano in cui le idee avevano il privilegio sui fatti. (...)

L’adattamento perfetto non esiste
Un essere vivente che vive nelle stesse condizioni ambientali dei suoi antenati senza che ci sia stata una sostanziale alterazione antropica di quello che lo circonda viene spesso indicato “perfettamente adattato” all’ambiente. A me il concetto di “perfezione” ha sempre dato una reazione fastidiosa: nessuno può discutere che un certo essere sia adatto all’ambiente in cui vive (ancora meglio: che nella sua nicchia ecologica sia particolarmente performante) e che probabilmente se lo mettiamo in un ambiente diverso potrebbe fare la fine del proverbiale “pesce fuor d’acqua”.

Ma la perfezione non è un concetto applicabile agli esseri viventi e l’adattamento ad un certo tipo di vita sarà un compromesso fra tante esigenze: ad esempio lo sviluppo di una vista eccezionale al buio negli antenati ha comportato che quasi tutti i mammiferi vedano la vita in bianco e nero (solo uomini e pochi altri primati hanno sviluppato nuovamente la visione a colori). Insomma in quell’essere dalle abitudini notturne progenitore dei mammiferi è stata premiata la vista al buio rispetto a quella dei colori diurni: ma a questo modo di notte si muoveva parecchio bene.

Tornando agli esseri umani, la postura eretta con andatura bipede, è stata celebrata come un esempio di “evoluzione come progresso” per tutta una serie di motivazioni sulle quali non c’è spazio per parlarne qui. Ora, per correre occorre avere un bacino stretto e un bacino largo che consente di correre poco nella savana poteva essere piuttosto rischioso. Ma le femmine con il bacino stretto non potevano certo partorire.

Quando poi la capacità cranica è aumentata drasticamente i problemi si sono fatti ancora maggiori. Da qui nasce la soluzione neandertaliana di una testa a forma un po' ovale (ovviamente con l’asse più lungo nella direzione del parto) e quella di sapiens in cui il neonato ha la testa molto ridotta e il cervello ancora poco funzionante. La soluzione di sapiens è quindi un compromesso che permette sia l’uscita della testa che la capacità di corsa alle femmine, ma al prezzo di un lungo periodo di totale dipendenza dalla madre del neonato, la quale quindi si sarà salvata dai predatori, ma deve svolgere una serie di difficili e assidui compiti. >>

ALDO PIOMBINO

venerdì 3 aprile 2020

Pandemia e dintorni

Da quando ho iniziato a pubblicare questo blog (nel lontano 2010) ho sempre cercato di parlare di argomenti di lungo respiro, non legati ad una specifica attualità.
Oggi però, credo che l'emergenza sociale e sanitaria legata al 'coronavirus' possa meritare una piccola eccezione.
Quelle che seguono sono alcune riflessioni sull'argomento, raccolte qua e là sul web. Con la speranza di poter ritornare alla normalità (mai tanto desiderata come oggi) in tempi ragionevoli.
LUMEN 


IL MODELLO MEGALOPOLI
La lezione che dobbiamo trarre [dalla crisi del coronavirus] è che il modello di crescita basato sulle megalopoli mostra un limite.
E' il segnale del suo fallimento. Abbiamo sbagliato modello di sviluppo e modo di abitare il pianeta.
Le megalopoli stanno invadendo la terra, alimentate dalla crescita esponenziale della popolazione umana e dal modello consumistico.
La loro crescita corrisponde all'espansione antropica su tutte le superfici vergini rimaste, con lo sventramento e l'abbattimento delle foreste fluviali e di tutte le zone silvestri. (…)
Le megalopoli sono grandi strutture antropiche che per sopravvivere necessitano di scambi continui e globali di merci e di persone, e che hanno bisogno di tecnologie che assicurino la convivenza stretta in spazi limitati di milioni di persone in archi temporali ristretti.
Tutte condizioni che favoriscono le pandemie veloci e letali come quella attuale.
AGOBIT


MARGINI DI CRESCITA
La peculiarità del capitalismo è di essere strutturato su una ridondanza di retroazioni positive. In altre parole, è fatto in modo da dover crescere per forza, altrimenti si disintegra. Non può rallentare, deve per forza accelerare.
Era già così ai tempi della [epidemia] Spagnola, ma allora il Pianeta offriva ancora ampi margini di crescita per l’economia e per la popolazione umana; superata la crisi acuta, una vivace ripresa era possibile ed infatti avvenne.
Oggi quei margini non ci sono più, anzi ci troviamo in “overshoot” per almeno il 50%, probabilmente di più.
Questo significa che passata la crisi acuta [da Coronavirus], ne comincerà una cronica.
JACOPO SIMONETTA


SALUTE MENTALE
Penso che l’aspetto emotivo o addirittura di salute mentale di questa epidemia non vada sottovalutato.
Siamo preoccupati per noi stessi e per i nostri cari, ci chiediamo continuamente se le misure prese sono giuste, proviamo compassione per chi sta male o muore e rabbia per chi non fa abbastanza, e quando le due categorie si sovrappongono siamo confusi; proviamo anche sospetto che ci sia qualcosa che non ci stanno dicendo, ansia perché il futuro è così incerto, noia, impazienza.
Per chi ancora esce, il vicino, il conoscente, lo sconosciuto o il collega ci passano troppo vicino e pensiamo: non è che sono infetti?
Alcune delle persone a cui vogliamo più bene non possiamo nemmeno vederle; con altre siamo rinchiusi in casa in una convivenza che mette alla prova i legami più saldi.
Per non parlare di tutta la gente che ha perso, sta perdendo o rischia di perdere reddito o lavoro.
Questa potrebbe essere un’occasione per prendersi un attimo per riflettere e stare calmi, certo, ma non è facile.
GAIA BARACETTI


SANITA' AMERICANA
Un esempio interessante [del sistema USA] è la serie televisiva del Dr. House, o la celeberrima 'E.R medici in prima linea'.
Dove si raffigurano coraggiosissimi ed eccezionalmente competenti medici di un centro di pronto soccorso di un ospedale di contea immaginario.
Mi è venuta la curiosita’ di andare a vedere quello che non ci fanno MAI vedere in questa serie: il momento in cui il paziente, sopravvissuto grazie alle cure puntuali e geniali del Dr. House, riceve il conto da pagare per le prestazioni mediche erogate.
Perche’ non sarebbe, come dire, una bella cosa, sapere che lo stipendio del Dr. House e colleghi, eccezionalmente elevato se rapportato a quello dei nostri analogamente bravissimi ed addirittura eroici medici, è pagato da un nuovo mutuo acceso sulla casa dai poveracci salvati dall’esimio sanitario.
CRISIS


IL MITO DEL PROGRESSO
Perché alcune centinaia di morti per virus sono sufficienti a far scattare misure che non si vogliono prendere neanche di fronte a decine di migliaia di morti per inquinamento od altre cause? (...)
La caratteristica principale che ci rende unici nel mondo e forse nell'universo è il fatto che non ci rapportiamo quasi mai direttamente alla realtà, bensì a dei modelli mentali che la descrivono, ci spiegano come funziona e cosa bisogna quindi fare.
Se in altre culture la creazione ed il dominio di tutto ciò che era vitale era attribuito a divinità che si potevano implorare in caso di bisogno, nella nostra civiltà gli artefici di tutto ciò che consideriamo importante siamo noi stessi e il dominio universale è il destino ineluttabile dell’umanità.
Di conseguenza, quale che sia il nostro credo apparente, a livello subliminale il nostro dio è l’Uomo; inteso come rappresentazione astratta dell’umanità. (…)
Neppure questo atteggiamento mentale è un’invenzione moderna, (...) ma la disponibilità di quantità illimitate di energia di ottima qualità quasi gratis ci ha permesso di svilupparlo fino alle sue estreme conseguenze: esattamente quelle che stiamo vivendo e che vivremo.
Una di queste conseguenze è che qualunque cosa può essere sacrificata per salvare una vita umana, ma migliaia o milioni di persone possono essere tranquillamente immolate in nome e per conto del progresso.
JACOPO SIMONETTA