domenica 27 maggio 2018

Quando ero soldato - 2

La vita quotidiana dell’esercito italiano di leva, nei ricordi di Lorenzo Celsi. Seconda e ultima parte. Lumen


<< Ripensando [al mio servizio militare], mi è tornato in mente un episodio. Qualche mese dopo essere stato assegnato alla caserma dove avrei trascorso la maggior parte del tempo, un certo giorno, non ricordo cosa stessi facendo, mi chiamano in camerata, dice che dobbiamo prendere lo zaino e schierarci nel piazzale. Corri di qui, corri di la. Ci schieriamo, cioè ci disponiamo su due righe.

Arriva il tenente, (…) che fa, gigioneggiando sullo stile di Clint Eastwood: "pronti a muovere in cinque minuti, ca**o !" Allora, ci caricarono sui camion per andare a cercare un aeroplano caduto sui monti. Però a parte la vicenda, io, che all'epoca non avevo diciott’anni, ma ne avevo ventisei, pensai tra me e me, ancora me lo ricordo, "siamo un esercito di straccioni".

La prima cosa che saltava all'occhio era l'abbigliamento e le dotazioni. L'unica cosa nuova, nel senso che te ne davano due all'inizio, perché semplicemente si distruggeva nel corso dell'anno, era la divisa di cotone che mettevamo ogni giorno e gli scarponi.

TUTTO il resto era usato, non solo zaini, cinturoni, giberne, elmetti, eccetera e dove dico "usato" intendo usato da decenni, ma anche parti dell'abbigliamento, per esempio gli impermeabili, che in teoria avremmo dovuto avere nuovi, ma che invece erano quelli dei soldati congedati prima di noi e sul destino del materiale nuovo posso solo fare delle ipotesi. (…) Poi le taglie, su tre soldati, due avevano divise, scarponi, berretti, eccetera, troppo grandi o troppo piccoli.

In teoria avremmo dovuto essere equipaggiati per uscire dalla caserma e stare in giro qualche giorno. Peccato che nessuno mettesse nello zaino tutte le cose che servivano, per esempio il ricambio di vestiti, calzini. Nella maggior parte dei casi gli zaini erano vuoti o c'era dentro della carta o cose cosi, io ero uno dei pochi scemi che dentro aveva messo una busta con un cambio, la giacca a vento, i panta-vento e una coperta.

Ci avevano dato anche il sacco a pelo e altre cose per il "campeggio", io le avevo ispezionate, il mio sacco a pelo era ovviamente usato, sporco, meglio non sapere di cosa e la cerniera era rotta, per fortuna non l'ho mai adoperato. Nessuno controllava, nessuno se ne preoccupava e se provavi a farlo presente, ti rispondevano qualcosa come "guagliò, nun scassà 'o ca**o".

I camion su cui salivamo erano dei mezzi rottami, capitava spesso che si rompessero per strada. Non avevamo in dotazione nessuna arma, per ovvie ragioni. Per i servizi "armati" come le guardie passavamo a prenderle di volta in volta dall'armeria. Fucili (…) che erano vecchi di trenta, quarant'anni e che avevano più che altro una funzione simbolica. Notare che le munizioni erano altrettanto ovviamente contate e ce le aveva in dotazione solo il più alto in grado in quel momento, che spesso e volentieri, dato che quei servizi erano una rottura di scatole, era un semplice graduato di truppa, ovvero un caporale.

Si faceva un sacco di "autogestione", ci crediate o no. Vi spiego cosa significa in concreto. I soldati devono andare da A a B con un camion e hanno il fucile ma i proiettili ce l'ha il caporale dentro una scatola che tiene nella cabina del camion di cui è anche capomacchina, cioè deve controllare l'autista.

Mettiamo che arrivino dei terroristi e vogliano rubare le armi, in teoria il caporale dovrebbe aprire la scatola, tirare fuori i quattro caricatori quattro, usarne uno nel suo fucile dare gli altri tre a tre soldati, facendosi rilasciare da ognuno ricevuta scritta (anche alla riconsegna, ovviamente) e opporsi eroicamente ai terroristi, tutto di testa sua.

Che poi mi sa che al tempo delle BR è anche capitato almeno una volta. Ora, è ovvio che lo scopo vero era di non dare niente in mano ai soldati, i quali di conseguenza non avevano in realtà nessuna funzione militare ma paradossalmente, siccome nessun sottufficiale o ufficiale voleva essere della partita, si addossava al caporale la poca o tanta responsabilità concreta.

Avevamo le radio, che nessuno ci aveva spiegato come usare. Coi walkie-talkie te la cavavi ma con quelle più grosse erano abbastanza cavoli, mi avessero almeno dato un manuale. Un'altra cosa palese era il grado di scolarità estremamente basso. In tutti, nei militari "di carriera" ma anche nei soldati di leva, tanto che nella mia caserma quelli con un diploma o un curriculum universitario si contavano con le dita di due mani e venivano immediatamente assegnati a garantire la "autogestione" di cui sopra. (…)

Vi racconto un altro esempio classico. I primi tempi, che non ero ancora smaliziato, mi assegnarono di corvè a pulire l'ingresso e il piazzale dell'adunata con un carrello che conteneva un bidone e un paio di ramazze. Il piazzale era abbellito da alcuni abeti che ovviamente scaricavano le foglie. Io portai il carretto sul piazzale e cominciai diligentemente a spazzare avanti ed indietro.

Dopo un paio d'ore, che avevo già le vesciche alle mani, si apre una finestra dell'ufficio comando, si affaccia IL GENERALE e mi chiama. Io corro li, saluto, mi presento e lui mi fa il cazziatone perché non vuole vedere un soldato stare tutto il giorno a ramazzare il piazzale. "Comandi, signorsì", saluto, la finestra si chiude e io prendo il mio carretto e trotterello dietro l'angolo dell'edificio, mi siedo e aspetto la sera.

Più avanti, diventato "anziano", non fui più assegnato a servizi del genere ma se mi fosse capitato avrei fatto un giretto di dieci minuti sul piazzale con la ramazza in mano e poi sarei andato diritto a nascondermi in qualche angolo.

Quindi, per me l'esperienza del servizio militare è stata prevalentemente una scocciatura, perché per un anno non ho avuto nessuna privacy, (…) ho dormito poco e male. Ma è stata anche una esperienza triste perché nell'immediato mi sono reso conto che le Forze Armate erano una finta, una cosa tanto per fare, una commedia tipo gli armigeri che inseguono vanamente Zorro con strepito di ferraglia, nessuno ci credeva davvero e poi mi sono anche reso conto che erano l'immagine dell'Italia con cui poi avrei dovuto convivere, una sezione della "società". (…)

Ah, un'altra cosa. Il primo mese, al CAR, ti spiegavano i rudimenti, per esempio come smontare il fucile e solo quello, niente altro. Quindi non devi toccare niente altro. Non ti spiegavano perché o quando bisogna smontare il fucile, perché tanto lo preleverai e lo riconsegnerai in armeria, firmando la ricevuta, senza doverlo adoperare mai davvero. Il fucile si smonta perché deve essere pulito quando lo usi e lo porti in giro.

Quando poi andavamo in polveriera e stavamo due o tre settimane sotto la pioggia, al ritorno i fucili erano dei catenacci arrugginiti, non solo perché nessuno li puliva ma anche perché a nessuno avevano spiegato che se ci entra l'acqua dentro un fucile che hanno portato in giro per quarant'anni, si arrugginisce. Vi chiederete perché non li fanno inossidabili. Bè, adesso li fanno di alluminio o di materiali compositi per alleggerirli però le parti in acciaio non sono inossidabili per via della lega metallica che deve avere certe caratteristiche.

Un'altra cosa divertente è che non ci hanno mai spiegato come fare quello che gli Americani chiamano "zeroing", cioè impostare gli organi di mira delle armi perché sparino dritto e come eventualmente impostarli per regolare l'alzo in base alla distanza e il "windage" per compensare il vento traverso. Quindi quando andavamo al poligono o il fucile era già impostato dall'armeria oppure sparavamo due metri sopra o due metri sotto la sagoma. >>

LORENZO CELSI

mercoledì 23 maggio 2018

Quando ero soldato - 1

La vita quotidiana dell’esercito italiano di leva, nei ricordi un po’ ironici di Lorenzo Celsi (dal suo blog). Per sorridere un poco, ma anche per farsi qualche domanda. Lumen


<< Ho letto distrattamente che qualcuno propone il ripristino della Leva. Non sono entrato nel merito delle proposte ma vi propongo alcune mie riflessioni. Prima di tutto bisogna definire lo scopo della iniziativa.
 
Se si tratta di addestrare i coscritti di un esercito di popolo perché siano efficaci in una eventuale guerra futura, bisogna copiare gli Israeliani, ovvero la Leva deve durare tre anni e bisogna prevedere anche il mantenimento di una forza di Riserva. La ragione è duplice, da una parte gli eserciti moderni richiedono un addestramento prolungato e dispendioso, dall'altra questo investimento non può essere sprecato.
 
Da questa necessità ne derivano altre due, ovvero che bisogna avere la capacità economica, logistica e le competenze per ottenere il livello qualitativo necessario e nello stesso tempo bisogna rendere il servizio militare "vivibile" per un arco di tempo prolungato.
 
Se invece si tratta di una iniziativa "didattica" nel senso della sola "educazione civica", è perfettamente inutile nel migliore dei casi oppure controproducente. Per queste ragioni: primo, i ragazzi arrivano già formati e il fatto che esista l'idea di doverli "educare" significa che sono formati MALE e vanno "rieducati". Quindi andrebbero de-strutturati e ri-strutturati, con necessariamente altissimi livelli di stress e di coercizione.
 
Si tratterebbe di correggere le mancanze o gli errori compiuti di proposito da Famiglia e Scuola e "società" durante i vent'anni precedenti con un periodo di "servizio" di qualche mese. Secondo, quando si pensa che il "servizio", distaccando i ragazzi dal loro ambiente, sarebbe alternativo alle "cattive abitudini" come il consumo di alcol e droga, ci sbagliamo di grosso perché sarebbe l'esatto contrario, sarebbe l'occasione dove queste "cattive abitudini" sarebbero raffinate, concentrate e ulteriormente rafforzate, un po' come succede col crimine in galera.
 
Veniamo alla mia esperienza della Leva. Per quanto riguarda gli aspetti "tecnici" del servizio militare, diciamo che il mio addestramento ed equipaggiamento sarebbe stato appena adeguato ad una guerra convenzionale degli anni Cinquanta, però io mi trovavo agli inizi degli anni Novanta. Questo perché ovviamente nessuno pensava davvero che l'Esercito italiano sarebbe stato coinvolto in una guerra.
 
Inoltre, ci trovavamo nell'imminenza del cambiamento da Esercito di coscritti a Esercito professionale, una cosa che risponde molto meglio a due scopi: fare entrare nel Pubblico Impiego più personale ed eventualmente inviare dei corpi di spedizione numericamente esigui a partecipare a "missioni di pace" come parte di contingenti multinazionali.
 
L'armamento di allora era costituito da fucili BM59 Beretta entrati in linea nei primi anni Sessanta o addirittura Garand adottati negli anni Cinquanta. La buffetteria (cioè cinturoni, giberne et similia) erano ancora quelle inglesi/americane del dopoguerra, l'elmetto era lo stesso del Regio Esercito degli anni Quaranta. I veicoli più moderni erano di vent'anni prima, ma ce n'erano anche di antichi e un certo numero era fuori uso, probabilmente la maggior parte. L'arma principale in dotazione al reparto (prima Gruppo, poi Reggimento) era un obice risalente agli anni Settanta.
 
Per quanto riguarda la logistica, lo stato delle infrastrutture era deprimente. Per tutto l'anno di naja, dall'inizio alla fine, ho dormito in brande di metallo a castello che erano vecchie di decenni con dei sacchi di tela grezza pieni di matasse e bitorzoli di qualche imbottitura che per fortuna non ho mai visto, dentro stanzoni con all'incirca dodici persone, finestroni pieni di spifferi (che però servivano a "bonificare" l'aria dello stanzone).
 
In ogni stanzone c'era la branda a castello con ai lati i due armadietti di metallo dei soldati, sopra lo zaino valigia e lo zaino alpino (quello grande), attaccato in testa alla branda lo zaino tattico (quello piccolo). Pavimenti di vecchissime piastrelle tirate a lucido cosi tante volte che non si doveva più passare la cera, in fondo o in testa alla camerata i bagni comuni con lavandini di acqua fredda e le inevitabili turche, tipo 4 turche ogni cento soldati. La doccia era in un edificio separato e non vi annoio con lo stato dell'arte.
 
Veniamo poi alle dolenti note: il personale. Come può essere il personale di carriera di un esercito di coscritti che è concepito con l'idea di non essere mai davvero impiegato in guerra? I sottufficiali tiravano a campare come ferrovieri o impiegati delle poste. Gli ufficiali erano dilaniati dalla contraddizione tra un immaginario giovanile di ideali e di supposta professionalità e una realtà adulta di sciatteria, degrado, mancanza di risorse e di scopo, data la premessa della guerra impossibile più che improbabile.
 
Inoltre, mentre per i sottufficiali la carriera era faccenda di concorsi e di scatti di anzianità, per gli ufficiali c'erano dei colli di bottiglia per cui i posti di comando erano sempre meno col salire del grado e quindi, qualsiasi fossero le ambizioni, le carriere di molti si arenavano ad un certo livello con nessuna speranza di ulteriore avanzamento. (…)
 
In molti casi, l'invecchiamento rendeva certi militari palesemente inadatti all'incarico, con effetti tra il comico e il patetico. Attenzione, che io non sto parlando di un "ufficio comando" di imboscati o di un reparto di magazzini e logistica, sto parlando di una cosiddetta "caserma operativa" che faceva parte di una Brigata Alpina che a sua volta era una sorta di "unità di elite" dell'Esercito Italiano di allora.
 
Ai miei tempi esisteva la possibilità di optare per l'obiezione di coscienza e quindi per il Servizio Civile. Di solito si trattava di essere assegnati a qualche ufficio comunale, con pernottamento presso qualche sistemazione fornita dal Comune oppure a casa propria, mentre si svolgevano lavoretti tipo accompagnare gli anziani, fare delle consegne, sbrigare pratiche semplici negli uffici, cose cosi. Diciamo, per fare un paragone contemporaneo, era tipo una forma elementare di "volontariato" in qualche associazione.  

Il rapporto tra il disagio della naja e quello del Servizio Civile era tipo 1000:1 però non riesco a vedere l'utilità di nessuna delle due cose. La naja aveva nel disagio il suo unico "valore formativo", da tutti gli altri punti di vista era tempo perso, stante la capacità bellica e per qualcuno, quelli che magari avevano qualche problema di personalità, poteva essere dannosa. Il Servizio Civile, riducendo il disagio a valori molto, ma molto inferiori, era un anno di cazzeggio, non venitemi a raccontare le solite storie di servizi eroici in Croce Rossa eccetera.  

Quindi, partiamo da qui e aggiungiamo che rispetto ai primi anni Novanta la capacità del "sistema" di organizzare un servizio obbligatorio di massa, che sia "militare" o "civile" è inferiore, perché abbiamo le pezze al culo, cosi come molto inferiore è la capacità dei ragazzi di sopportare il disagio e della società di imporglielo, mentre sono aumentate le "cattive abitudini" a cui idealmente si vorrebbe rimediare. >>
 
LORENZO CELSI
 

(continua)

mercoledì 16 maggio 2018

Pensierini - XXXVII

LINGUAGGIO UMANO 
Diceva un antropologo che il linguaggio umano serve a due scopi, apparentemente opposti: ‘farsi capire’ e ‘non farsi capire’. 
Ovvero, farsi capire dagli appartenenti al proprio stesso gruppo, e NON farsi capire dagli estranei. 
(Poi serve anche a mentire, ma questo è un altro discorso). 
Ecco perché - nel breve periodo - si creano i neologismi, i modi di dire, gli slang e le parole gergali. 
Poi, per motivi anche casuali, alcune di queste novità muoiono, mentre altre finiscono per avere successo, con la conseguenza che - nel lungo periodo - le lingue non stanno mai ferme, ma si evolvono continuamente. 
LUMEN


MANZONI E LA PROVVIDENZA
I Promessi Sposi sono considerati dalla critica come il romanzo della “Provvidenza Divina”, che aiuta i poveretti e, alla fine della storia, trionfa su tutte le avversità. 
Ma, come fa notare argutamente Umberto Eco, si tratta di una ben strana provvidenza: “Il signor Alessandro [Manzoni] sembra amare molto i poveretti, ma certo non sa proprio come aiutarli a far valere i loro diritti. (…) 
La sua morale era che bisogna rassegnarsi e sperare solo nella Provvidenza. E infatti alla fine la Provvidenza arriva. Ma con le vesti della Peste”. 
Possibile che una divinità 'onnisciente' ed 'onnipotente' (oltre che infinitamente 'buona') non potesse scegliere una strada migliore ? 
LUMEN
 

TIFO SPORTIVO
Il comportamento eccessivo, e talvolta decisamente violento, dei tifosi di calcio, soprattutto dalle nostre parti, può essere definito per metà patetico e per metà ridicolo. 
Ma se vogliamo vedere le cose in un'ottica un po' più distaccata, ovvero antropologica, la fede calcistica ha semplicemente la funzione di creare l'eterna dicotomia NOI / LORO che tanti disastri ha causato nella storia della nostra specie, ma che pare davvero irrinunciabile.
Per questo, non riesco ad essere così severo con le religioni che portano i loro fedeli più instabili a comportamenti violenti, come i famosi kamikaze islamici. 
Secondo me, prima viene il disturbo psichico della persona (chiaramente psicopatica e/o sociopatica) e solo dopo viene la giustificazione religiosa. 
La quale, se non esistesse più (come oggi nell'occidente laico) verrebbe subito sostituita da qualcos'altro. 
E il tifo calcistico, come anche l’ideologia politica, rientra abbastanza bene in questo quadro.
LUMEN 


AMBIENTE E DEMOGRAFIA
Quando si parla di ambiente ed ecologia, le cose appaiono spesso più complicate di quanto non siano. 
Certo, salvaguardare l'ambiente è una cosa molto difficile ed impegnativa, ma se andiamo alla radice del problema è sufficiente ricordarsi che la terra è una sola, e non aumenta di dimensioni, mentre la popolazione può farlo (e lo fa). 
Quindi i corni del dilemma sono soltanto due: 
1 – se ci fa piacere mantenere l’attuale (alto) standard di vita, dobbiamo ridurre drasticamente la popolazione mondiale; 
2 – se invece non possiamo (o non vogliamo) ridurre la popolazione mondiale, dobbiamo prepararci a ridurre drasticamente il nostro tenore di vita. 
Tertium – purtroppo – non datur, perché sperare, come fanno in troppi, di poter avere la botte demografica piena e la moglie tecnologica ubriaca non è possibile. 
LUMEN 


COMANDARE ED UBBIDIRE
C'è chi, nella vita, non desidera altro che “comandare”, per poter essere al di sopra degli altri, e chi invece, tutto considerato, è ben felice di “obbedire”, per non doversi prendere troppe responsabilità. 
Ma il miglior modo di vivere, o almeno quello che garantisce la maggiore libertà, è la via di mezzo di chi non è obbligato (oppure lo è solo in minima parte) a fare né l'una né l'altra cosa. 
Mi viene in mente il personaggio di Don Ferrante dei Promessi Sposi, del quale il Manzoni diceva, con impeccabile sintesi, che “non gli piaceva né comandare, né ubbidire”. 
LUMEN

mercoledì 9 maggio 2018

L'evoluzione dell'Islam

La religione islamica, nonostante alcune apparenze, è tutto meno che un blocco compatto, ed ha subito anche notevoli evoluzioni nel corso dei secoli. 
Ce ne parla Gianni Pardo in questo post, molto interessante ed istruttivo, tratto dal suo blog personale.  LUMEN


<< Le religioni hanno due facce: la vera dottrina e la percezione che ne ha il popolo. Le due cose non coincidono. Tanto [è vero] che chi dice male della religione popolare, non per questo dice male della vera religione. (…) Questa divaricazione tra dottrina e pratica si ha anche nell’Islamismo.
 
L’Islàm è una religione lontana dall’antropomorfismo, dal politeismo (che invece esiste in forma attenuata nel Cristianesimo), dalle superstizioni, dall’oppressione clericale (salvo per gli sciiti) e soprattutto dall’intolleranza. Qualcuno si stupirà di quest’ultima affermazione, quando gli episodi degli ultimi decenni sembrano indicare tutt’altro: ma, appunto, questa è una deformazione recente.
 
In passato, quando Ferdinando e Isabella scacciarono gli ebrei dalla Spagna (1492), i malcapitati furono accolti dai molto più tolleranti musulmani. Gli esiliati si stabilirono nell’Africa del Nord, nel Vicino oriente e in Turchia, ed ivi vissero indisturbati per secoli, fino al rigetto del Novecento. Mentre, durante lo stesso tempo, in Russia ma anche in Polonia ed altrove, ci si dava a periodici ‘pogrom’. Tanto forte era l’intolleranza nei confronti degli ebrei.
 
E allora ci si può chiedere come mai una religione così aristocratica, teologicamente, abbia potuto avere tanto successo presso folle sterminate di analfabeti. La risposta è che, appunto, quelle folle ne hanno percepito la versione popolare. Le ragioni del fenomeno vanno ricercate, più che nell’islamismo teorico, nella mentalità degli uomini a cui quella religione fu predicata. Cioè, nei lati più legati al livello culturale del VII Secolo in Arabia.
 
Nel bacino del Mediterraneo c’erano popoli che mal digerivano alcuni principi del Cristianesimo. Per esempio l’uguaglianza di tutti gli uomini ed in particolare di uomini e donne. Dunque accolsero con la massima benevolenza una religione che santificava la supremazia dell’uomo sulla moglie e sulle figlie, fin quasi al diritto di vita o di morte. Inoltre, la maggior parte degli abitanti era analfabeta e avrebbe potuto sentirsi inferiore alle classi più evolute, ma anche a questo problema la religione offriva una soluzione, dichiarando inutile ogni conoscenza, a parte quella del Corano.
 
Pare che nel 642 il Califfo Omar abbia bruciato la sterminata e preziosa Biblioteca di Alessandria con la lapidaria motivazione: “Se questi libri dicono la stessa cosa del Corano, sono inutili; e se lo contraddicono, sono blasfemi”. Il risultato fu il più grande crimine di tutti i tempi contro la cultura, ma anche la consolazione di milioni di fedeli analfabeti. Poco importa la storicità dell’episodio, dato che basta il valore sintomatico della leggenda.
 
Altro elemento a favore dell’Islamismo popolare fu l’incoraggiamento ad essere inerti, conseguenza assolutamente logica e incontrovertibile della natura provvidenziale di Dio, definito onnisciente e onnipotente. E allora il credente musulmano ragiona così: “Se a tutto pensa Dio, perché dovremmo attivarci ? Se, dalla nostra inazione, deriva un danno, sarà segno che Dio voleva quel danno”.
 
Questo atteggiamento di abbandono ad Allah (Islàm significa proprio questo) può sorprendere, ma in realtà il ragionamento vale anche per il Cristianesimo. Solo che il nostro temperamento è diverso. I cristiani, pur credendo nella Divina Provvidenza, seguono il principio: “Aiutati, che Dio ti aiuta”.
 
Un altro contributo all’autostima priva di sforzo dei musulmani è stato dato dalla indiscutibilità della fede: il musulmano non ha il diritto di avere dei dubbi sulla bontà delle proprie credenze. E infatti non soltanto è lecito, è addirittura doveroso condannare a morte chi si converte ad un’altra religione, insulta Maometto o si dichiara ateo. A questo punto, anche per gli ignoranti non c’è limite al diritto di essere fieri e sicuri della loro superiorità, se hanno addirittura il diritto di uccidere chi ha dei dubbi sulla loro religione.
 
Altro elemento di vantaggio fu la prevalenza, nella religione, dell’esteriorità rispetto all’interiorità. Il buon musulmano è circonciso, frequenta la moschea, non beve alcoolici, non mangia maiale, prega cinque volte al giorno e osserva il Ramadan. Ciò che viene soprattutto controllato è l’adempimento di questi doveri. Quanto all’interiorità, contrariamente a quanto avviene nel Cristianesimo, non c’è mediazione tra Dio e il credente.
 
Non c’è un clero e ciò significa che il rapporto con Dio non ha controllo. Esso può essere inesistente o facilmente auto-assolutorio, cosa particolarmente gradita a chi non vuole avere intralci morali. E infatti gli arabi non hanno mai brillato, ad esempio, per correttezza commerciale e per tendenza a dire la verità. Nei confronti dei non credenti, la stessa religione autorizza addirittura a mentire. Per non parlare degli sgozzamenti dello Stato Islamico.
 
Forse la ragione del successo dell’Islàm popolare è proprio l’avere legittimato sul piano morale e sociale – magari in seguito a un fraintendimento – tutto ciò che di peggio già esisteva nelle popolazioni che accolsero la predicazione. E a questi limiti sociologici si è aggiunta la trasformazione del sentimento di diversità, ed anzi di superiorità, che un tempo ebbero i musulmani, in un senso di inferiorità e di rancorosa invidia.
 
Nel Medio Evo il mondo musulmano non era certo diverso dal mondo cristiano e la Spagna musulmana era forse più evoluta della Spagna cristiana. Tutto cominciò a cambiare con le sconfitte in battaglia e soprattutto col progresso economico e militare indotto dalla Rivoluzione Industriale. Come era possibile che Dio permettesse agli infedeli di essere tanto prosperi e forti da crearsi degli imperi anche nelle terre musulmane ? Ciò provocò una rabbia impotente, covata per secoli, ed oggi evidente per esempio in Palestina.
 
Purtroppo, la nuova situazione, invece di indurre i musulmani a cambiare mentalità, stimando di più la cultura e la tecnologia, si mutò in semplice rancore e volontà di vendetta. Nell’interpretazione popolare l’Islàm divenne la giustificazione per dare sfogo alla propria frustrazione con attentati e massacri, spesso con una sorta di culto della morte inflitta a degli innocenti ed anche a sé stessi.
 
Tutto ciò ha condotto ad un totale stravolgimento dei valori dell’Islamismo, e naturalmente all’inevitabile diffidenza – quando non disprezzo – dei terzi.
 
Di fatto, l’interpretazione popolare dell’Islàm lo rende oggi indigeribile in una società avanzata. E poiché l’Islàm popolare si gloria del proprio conservatorismo – perfino nelle cose meno serie come l’abbigliamento – la sua chiusura ad ogni vero progresso lo rende inassimilabile. Forse la tragedia dell’Islàm popolare è quella di essersi trasformato in una malattia da cui è vietato guarire. >> 

GIANNI PARDO

mercoledì 2 maggio 2018

Il genio di Darwin – 4

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Quarta parte. Lumen)


<< Negli anni Sessanta del secolo scorso, in piena rivoluzione molecolare, la teoria è ormai ben sviluppata e in continua espansione. È in grado di fare previsioni precise e molte di queste possono essere messe alla prova, in laboratorio o sul campo.
 
I trionfi della biochimica e della genetica molecolare, un numero sempre crescente di osservazioni naturalistiche nuove e diverse, e i primi passi mossi dalla scienza dell'ecologia portano nuovi elementi di conoscenza, alcuni dei quali abbastanza sorprendenti.
 
All'orizzonte si profilano a questo punto due critiche scientifiche molto serie che per qualche anno mettono a dura prova l'edificio del neodarwinismo, promuovendone a conti fatti la crescita e la maturazione. Ci si rende conto che la teoria ha bisogno di qualche ritocco, soprattutto concettuale, e si arriva così a un nuovo neodarwinismo, che è poi sostanzialmente quello attuale.
 
La posizione biologica che formulò e promosse la prima di queste due critiche prende il nome di neutralismo, guidata principalmente dal genetista giapponese Motoo Kimura.
 
La proposta dello scienziato giapponese si sviluppa a partire dai primi anni Sessanta quando si comincia ad analizzare in dettaglio la composizione di un grande numero di proteine. Determinando aminoacido per aminoacido la sequenza della stessa proteina prodotta in diversi individui della stessa specie, si scopre una grande variabilità, largamente inattesa: la quantità di mutazioni esistenti in ogni popolazione è quindi enorme, molto più grande di quanto ci si potesse aspettare.
 
Il fenomeno è stato pienamente confermato successivamente, quando si è avuta la possibilità di paragonare fra di loro le sequenze dei geni e dei genomi oltre che delle proteine. Tra due esseri umani scelti a caso, per esempio, esistono più o meno tre milioni di nucleotidi diversi. Poiché il genoma umano consta di tre miliardi di nucleotidi, significa che tra una persona e un'altra è diverso un nucleotide su mille.
 
Oggi questo è un dato che non ci turba più di tanto, ma in quel periodo sconcertò non poco scoprire l'esistenza di una tale quantità di mutazioni negli individui della stessa popolazione, a brillante conferma dell'ipotesi originaria di Darwin. E questo crea una difficoltà concettuale di un certo peso. Vediamo perché.
 
La stragrande maggioranza di tali mutazioni è per così dire innocua, non ha alcun effetto sul fenotipo, vale a dire sull'aspetto esterno, sul comportamento e sullo stato di salute degli individui in questione, non offrendo così alcuna opportunità alla selezione naturale di esercitare il suo potere di discriminazione.
 
Le mutazioni che non incidono sul fenotipo di chi le porta sono dette silenti o neutrali; da qui il nome, neutralismo, del movimento critico in questione, che sostiene appunto che nella realtà c'è troppo poco spazio per l'azione della selezione naturale, mentre l'eccezionale quantità delle mutazioni esistenti nelle popolazioni favorisce l'azione di fenomeni biologici di natura diversa, che agiscono in maniera casuale e non direzionale, e dei quali parleremo più avanti.
 
Si è trattato insomma di un attacco al ruolo primario della selezione naturale nel processo evolutivo, a vantaggio di altri fenomeni di natura genetica più nuovi e sofisticati, che rendono ancora più casuale il procedere del tutto. Poiché si trattava di una proposta ben articolata, documentata e confermata da un gran numero di esperimenti, non se ne poteva non tenere conto.
 
E così è stato, anche se ci sono voluti alcuni anni di ricerca e di dibattito teorico — di natura prevalentemente matematica — perché l'obiezione neutralista venisse assimilata e inglobata in un neodarwinismo più maturo e consapevole. Il quale sostiene in sostanza che, accanto all'azione selettiva e direzionale della selezione naturale, operano nei millenni anche altri meccanismi biologici ancora più «ciechi» ed erratici.
 
La natura prevalentemente matematica di queste discussioni e delle successive elaborazioni ha impedito però che questo dibattito di importanza capitale avesse la dovuta eco nel grande pubblico, che quindi lo ha di fatto ignorato. >> 

EDOARDO BONCINELLI
 

(continua)