giovedì 27 agosto 2020

Previsioni sul futuro dell'umanità - 2

Si concludono qui le previsioni di Luca Pardi - ante corona-virus - sul futuro del nostro pianeta (seconda e ultima parte).
LUMEN


<< In questo quadro [economico], l’Italia potrebbe tornare quel Belpaese preindustriale di morti di fame dei viaggi di Mozart e di Goethe che tanto piace al burocrate Guy Verhofstadt. Il mercantilismo tedesco da questo punto di vista ha già avuto effetti devastanti sull’economia dei paesi del Mediterraneo. Naturalmente questo ha generato una reazione. Il nazional-populismo sovranista e regionalista è chiaramente una reazione alla tendenza in atto. I ceti medi e medio bassi, che in parte sono i ceti di lavoratori, quelli che nell’immaginario marxista si chiamava “la classe”, non hanno nessuna voglia di tornare indietro di mezzo secolo.

Il 2019 dei movimenti in Francia, fra Gilet Gialli e mobilitazione contro la riforma delle pensioni, sono parte di questa dinamica. Il popolo italiano mostra la sua atavica tendenza al particolarismo, alla divisione, all’individualismo, al regionalismo, ma vede una crescente resistenza al disegno punitivo e redistributivo. Si può immaginare che di fronte ad un indebolimento dell’economia globale, già in atto da mesi durante il 2019 che volge alla fine, porterà tensioni anche nell’ordinata Germania che ha digerito un ventennio di salari di m***a (…) in nome della piena occupazione.

Difficile immaginare che in una situazione del genere le classi politiche globali siano in grado di convergere su un accordo che limiti i danni ecologici. L’impresa è talmente impegnativa che per produrre l’effetto voluto ci vorrebbe un’invasione di alieni benevoli che ci costringessero ad operare concordemente a tal fine.

Homo sapiens è il prodotto dell’evoluzione di gruppo secondo la quale l’altruismo si esercita all’interno del gruppo. Nel paleolitico il gruppo era la tribù legata da legami familiari, con l’evoluzione culturale il gruppo di riferimento si è esteso, ma non è mai arrivato, tranne che nell’idea (poi generalmente tradita) di piccole minoranze ideologizzate, ad essere esteso all’intera umanità. Il confine si ferma al gruppo etnico religioso, linguistico o alla nazione.

È difficile immaginare che alla fine di questa lunga corsa, che ha portato la popolazione umana da qualche decina di migliaia di individui divisi in tribù, al collo di bottiglia del tardo pleistocene, a quasi otto miliardi divisi in nazioni, si trovi, finalmente, la ricetta per l’istituzione di una fraternità universale, proprio nel momento in cui le condizioni ambientali si degradano e il flusso di materie prime ed energia dalla natura alla società umana, diventa più viscoso. L’idea “Proletari di tutto il mondo unitevi” è sempre stata un’illusione non diversa da quella della fratellanza universale.

L’iniziativa dei giovani del venerdì e quella dei loro genitori tecno-ottimisti del sabato, non cambia di un millimetro la posizione in cui siamo. Si tratta di idee che definirei eco-benpensanti. Intendiamoci, preferisco chi pensa delle buone cose, piuttosto di chi progetta pessime cose, ma la domanda fondamentale a cui si dovrebbe rispondere è: chi dovrebbe fare che cosa, in che modo e in quali tempi? E qui si torna alla questione dell’economia e della politica. L’economia capitalistica non può rinunciare alla crescita.

La crescita è sempre, fin dalla prima rivoluzione industriale, stata alimentata da un crescente flusso dalle fonti di energia e materia planetarie e ha usato gli ecosistemi terrestri come ricettacolo dei propri rifiuti gassosi (gas serra ad esempio), liquidi e solidi. L’intorpidirsi del flusso energetico e materiale dalla natura al sistema economico prelude ad un rallentamento della crescita, al suo esaurimento e all’inversione di tendenza. A prescindere dalle nostre azioni questo succederà in questo secolo. Ma il sistema economico globale funziona con la carota del debito.

Il debito (che visto dall’altra parte è un credito, cit. Alberto Bagnai) è una promessa di estrarre nuove risorse dalla natura per fare merci che vendute sul mercato creeranno più valore di quello originariamente preso in prestito. D’accordo, sì, c’è la terziarizzazione dell’economia, l’economia dei servizi, il disaccoppiamento ecc., tutte cose che funzionano finché si spostano le produzioni pesanti ed inquinanti in qualche altro paese. Quello che io penso (aspetto smentite) è che man mano che il flusso materiale ed energetico si intorpidisce il meccanismo diventa più difficile e alla fine non regge. Il segnale sarà un nuovo collasso finanziario (scoppio di una bolla).

Forse quello del 2007-2008 è stato solo l’inizio. Sotto traccia lavora la termodinamica, ma quello che si vede è l’economia finanziaria, la punta dell’iceberg. Negli ultimi decenni la tendenza alla finanziarizzazione è stata talmente potente che adesso la situazione è irreversibile e la miglior cura sarà un collasso o una serie ravvicinata di collassi che porrà fine al paradigma economico vigente. Con questo probabilmente ci sarà un miglioramento della situazione ambientale, ma anche una rapida diminuzione della popolazione umana per aumento della mortalità.

Per quanto in altre specie una dinamica di rapida riduzione della popolazione porti spesso all’estinzione, il mio apocalittico ottimismo si riduce tutto alla fiducia che nutro nella capacità di adattamento di Homo sapiens. Una popolazione ridotta ad un decimo di quella attuale e con molta meno energia a disposizione sarebbe finalmente sostenibile, forse, pur in un ecosistema terrestre fortemente mutato rispetto all’optimum dell’olocene.

Sul lato positivo dell’evoluzione dei prossimi decenni vedo soprattutto l’indefesso declino del tasso di natalità anche nei paesi che ce l’hanno più alto. Il picco della popolazione ci sarà quando era stato previsto da Limits To Growth (il rapporto per il Club di Roma pubblicato nel 1972 e tradotto in italiano con il titolo “i Limiti dello Sviluppo”.

Recentemente la traduzione italiana è stata riedita con il titolo meno ipocrita “i Limiti alla Crescita”) ma potrebbe non essere tutto dovuto al peggioramento dei fattori ecologici (cibo, inquinamento, malattie ecc.), ma soprattutto a fattori sociali: educazione e lavoro femminile in primis e l’inevitabile diffusione dei contraccettivi moderni anche nel terzo mondo. Quindi una componente di rientro dolce me l’aspetto anche senza troppa politica di mezzo. Il che è perfino meglio perché il risultato promette di essere più stabile.

Altro aspetto positivo è il fatto che la maggioranza della popolazione è concentrata in Asia fra Cina, India e Sud-est asiatico. Si tratta di popoli e società molto diversi da noi. I cinesi sanno prendere e rispettare scelte collettive. Il regime è autoritario, ma non dispotico come le autocrazie mediorientali. L’India dove la dinamica demografica è preoccupante è anche sede di una cultura millenaria (anche la Cina lo è) che ha rispetto nei confronti degli altri esseri viventi e questo fatto può avere un certo effetto nei tempi che verranno.

Sul lato delle risorse minerarie ci troveremo in difficoltà notevoli su più fronti, ma avremo, soprattutto noi in occidente, una miniera molto vasta: l’antroposfera. Siccome molte infrastrutture saranno impossibili da manutenere, saranno abbattute e i materiali con cui sono state costruite riutilizzati. C’è una grande quantità di ferro, nickel, rame, zinco, alluminio ecc. disponibile nelle cose che abbiamo fatto. Tutto questo darà vita ad una nuova attività di Urban Mining che avrà peso nella società del futuro.

E per l’energia? Dopo il prossimo picco di tutte le categorie di petrolio saranno problemi seri. Secondo me l’esistenza di una infrastruttura basata sulle NFER (Nuove Fonti di Energia Rinnovabili) non sarà molto utile come energia di lavoro. Soprattutto il mega eolico rientrerà nel calderone delle infrastrutture insostenibili (ragion per cui inizio a simpatizzare con quelli che si oppongono ai mega progetti appenninici).

Il fotovoltaico, il micro-idroelettrico, progetti eolici sostenibili ecc. potranno coprire i residui usi civili e industriali dove possono funzionare i motori elettrici, non particolarmente nei trasporti di cui, si spera, ci sarà meno bisogno, ma per mantenere un certo livello di automazione industriale e domestica (a questo livello, avendo conosciuto persone che l’hanno fatto, mi auguro che non si debba tornare a lavare i panni nei torrenti o alle fonti).

La scarsità di prodotti petroliferi diventerà meno pressante dal momento in cui accetteremo case più fredde, man mano che tenderemo a renderle termicamente più efficienti, e sposteremo l’uso dei motori a scoppio su attività nobili: ad esempio demolire ciò che non può essere manutenuto per recuperare i materiali e nella produzione di cibo. La scarsità sarà anche attenuata dal ritorno del lavoro manuale in agricoltura e attività di miniera.

I problemi più gravi, e sostanzialmente senza soluzione, sono gli effetti ambientali di lungo periodo dell’espansione umana. Clima, perdita di biodiversità, erosione, inquinamento di vario genere. Questi saranno i fattori che si sommeranno per accelerare la riduzione della popolazione. In agricoltura si dovrà moltiplicare le pratiche rigenerative che sono note ed eventualmente di nuove che nasceranno. Un declino nella disponibilità di metano potrebbe mettere in crisi la produzione di fertilizzanti azotati con il processo Haber-Bosh e liberarci da questo problema.

Ovviamente torneranno, almeno a certi livelli, fame e carestie, particolarmente dove i danni al suolo sono irreversibili e le riserve di acqua esaurite. Ci si dovrà abituare a raccogliere l’acqua quando viene e magari una diffusione di piccoli bacini sarà più utile a immagazzinare l’acqua per l’irrigazione che per dotarsi di una infrastruttura di stoccaggio dell’energia come qualcuno propone. Con la riduzione della popolazione e il crescente degrado dei trasporti si disgregherà progressivamente la rete di interconnessione globale e torneremo ad una ri-localizzazione.

Tutte le appassionate diatribe che ci hanno caratterizzato questi anni su Europa, globalismo, anti-globalismo, solidarietà, accoglienza, respingimenti ecc. ci sembreranno cose da ridere. Ovviamente ci saranno periodi difficili specialmente quando milioni di profughi climatici cercheranno di mettersi in salvo. Altro che (…) porti chiusi! Sapete vero cosa succede quando una scialuppa viene assaltata da gente travolta dal panico? Saranno decenni molto duri e spietati quelli da qui al 2080-2100. Ma in qualche modo, un paio di miliardi di persone, forse meno, ce la dovrebbero fare. >>

LUCA PARDI

sabato 22 agosto 2020

Previsioni sul futuro dell'umanità – 1

Diceva il grande fisico danese Niels Bohr che è molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro. Però ci proviamo lo stesso.
Luca Pardi, ad esempio, ha provato ad elaborare alcuni scenari ipotizzabili sul futuro dell'umanità.
Le previsioni sono state scritte a dicembre 2019, cioè PRIMA che arrivasse lo tsunami del coronavirus a buttare per aria molte delle nostre certezze, ma le sue analisi mi sembrano ugualmente fondate e condivisibii.
Il testo (tratte dal sito di Aspoitalia) è stato diviso in due parti per comodità di lettura.
LUMEN


<< Da anni, e in modo accelerato in questi ultimi mesi, si sente parlare di transizione energetica, verde, ecologica, sostenibile ecc. Tutte formule che finora si sono rivelate vuote. I dati sulla situazione ecologica e la loro interpretazione sono scientificamente inoppugnabili (di una chiarezza cristallina), tutti negativi, e non riguardano soltanto il cambiamento climatico, ma, in poche parole, la pesante perturbazione di ogni ciclo bio-geo-chimico di questo pianeta causata dalla nostra specie in modo accelerato dall’inizio dell’era industriale.

Abbiamo determinato l’innesco di una crisi ecologica globale che si sta portando via una porzione ancora ignota della biosfera e, per quanto ne sappiamo oggi, potrebbe portarsi via anche Homo sapiens. Di fronte a questo dramma che può sfociare, o forse si sta già trasformando, in tragedia, cosa si vede? Un movimento ecologista sovranazionale, ma prevalentemente sviluppatosi nei paesi di antica industrializzazione, cioè in quel miliardo di “benestanti globali”, che, con Greta Thumberg pretende l’istituzione di una politica seria di contenimento delle emissioni da parte dei governi del mondo.

La pretesa è legittima, ma ha poche probabilità di dar luogo ad una risposta positiva. Da questo punto di vista ha ragione Vladimir Putin quando dice che la giovane ragazza svedese ignora la complessità del mondo moderno. Sembra che gli ecologisti continuino a vivere l’illusione che siccome l’ambiente è un bene comune, sia assurdo che non si riesca a mettersi d’accordo sul salvarlo. Invece non c’è nulla di automatico.

Le classi politiche dei paesi rappresentati all’ONU non hanno interessi convergenti perché rappresentano, nel migliore dei casi, nazioni con situazioni drasticamente diverse. I paesi in via di sviluppo (PSV), Cina, India, sud-est asiatico, Brasile e Africa, non hanno alcuna intenzione di pagare, rinunciando alla propria crescita, i danni fatti dai paesi sviluppati nei due secoli e mezzo di sviluppo industriale e di espansione abnorme dei consumi.

L’unico modello di sviluppo disponibile è quello iniziato nel XVIII secolo in Inghilterra e alimentato dall’energia fornita prevalentemente dai combustibili fossili. Senza questi ultimi, di fatto, non ci sarebbe stato alcuno sviluppo o sarebbe stato almeno un ordine di grandezza inferiore. I paesi sviluppati, dal canto loro, stanno vivendo una fase difficile e non omogenea, in cui sembra che la crescita economica sia possibile solo dove si rinuncia a fare anche politica ecologica (USA) o dove si sfrutta un’egemonia tecnica ed economica tale da poter scaricare verso il basso i problemi della transizione (Germania e nord Europa e ancora USA).

Nel mezzo ci sono i paesi produttori di materie prime, principalmente di petrolio e gas, che hanno due problemi, non possono ovviamente firmare la loro condanna a morte, ma stanno anche già vivendo un momento difficile dovuto al fatto che man mano che gli effetti dell’abbondanza si mutano in consumi, riducono le esportazioni e, dunque, il surplus commerciale che li rendeva finanziariamente forti, e le entrate fiscali per cui sono costretti a ridurre i sussidi sui prodotti petroliferi fatto che determina tensioni sociali interne e ancor più lo farà in futuro.

La risposta nei paesi sviluppati sembra indirizzarsi in due direzioni antagoniste che è difficile identificare come di destra o di sinistra, ma semplificando molto potremmo identificare un nazional-populismo sovranista di destra (attenzione però, non c’è solo il sovranismo di destra) che sul lato ecologico si affida al negazionismo climatico e ambientale per proporre una politica economica che riporti alla crescita dura e pura del passato basata su produzione e consumo indifferenziato supportata da un ritorno a forme di protezionismo.

C’è dall’altra parte un globalismo tecno-ottimista di sinistra che invece accetta sia la realtà del trionfo globale del mercato, abbandonando ogni possibilità di difesa degli interessi dei lavoratori in campo nazionale, che quella dell’allarme ecologico che pretende di curare con vari aggiustamenti green: l’economia circolare, il green new deal ecc. tutte riedizioni dell’ossimoro dei nostri tempi: lo sviluppo sostenibile. Inteso come crescita sostenibile. Chiarisce questo punto la posizione del prof. Leonardo Becchetti secondo cui nell’economia del futuro ci sarà crescita del valore senza distruzione di risorse intese in senso lato: materie prime, servizi degli ecosistemi, suolo fertile, biodiversità ecc.

Sul lato economico quindi l’accettazione della narrativa liberale del trickle down, come unica risposta alla ristrutturazione tecnologica e sociale del mercato capitalista, sul lato ecologico invece l’appello alla rivoluzione tecnologica permanente in nome dell’efficienza e della crescita ecologicamente friendly. Una narrativa che sembra funzionare, sulla carta, all’interno del paradigma economico attuale, e per questo è addirittura più insidiosa di quella negazionista.

Per mettere in crisi la posizione negazionista basta evocare il tema dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili: minerali ed energetiche. Non a caso i negazionisti climatici sono spesso anche gli stessi che si esercitano a definire il picco del petrolio una bufala. Purtroppo per loro se si apre il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia del 2018, si trova la smentita questa posizione che viene da una fonte insospettabile: «La produzione globale di petrolio convenzionale ha superato il picco nel 2008 a 69,5 milioni di barili al giorno e da allora è diminuita di circa 2,5 milioni di barili al giorno.» (…).

Il picco produttivo globale della categoria di petrolio più conveniente, il convenzionale appunto, è avvenuto nel primo decennio del secolo (come previsto, peraltro, da Colin Campbell e Jean Laherrere) e questo segna il passaggio allo sfruttamento di categorie di petrolio più difficili e costose da estrarre. Richard Miller, un geologo petrolifero della BP ora in pensione, in una intervista del 2013 a the Guardian, a proposito delle nuove risorse petrolifere estraibili dallo shale oil e dalle sabbie bituminose diceva: «Siamo come una gabbia di topi di laboratorio che, finito di mangiare tutti i semi, scoprono che possono mangiare anche la scatola di cartone».

Viceversa il disegno teorico dell’economia circolare nella quale tutto ciò che si consuma ritorna nel sistema attraverso un sempre più efficiente sistema di riciclaggio è largamente illusorio (…). Probabilmente, all’interno del paradigma economico attuale si potrebbe, spingendo al massimo, garantire un riciclo dei materiali intorno al 90%, livello fantasmagorico rispetto al tasso di riciclo attuale, ma anche questo tasso fantasmagorico, mantenendo l’attuale paradigma industriale, sarebbe un mero rallentamento dell’economia lineare, non l’instaurazione dell’economia circolare (…).

È un problema termodinamico. Spingere sempre più in alto il tasso di riciclo materiale significa andare a raccogliere e differenziare anche le parti più piccole e disperse dei manufatti, separarle dalle altre, identificare la loro natura, depurarle e rimetterle in ciclo. Ognuno di questi passaggi richiede un apporto di energia e più si spinge sull’acceleratore del riciclo, quindi più accurata è la separazione, più il costo energetico cresce. Alla fine il sistema non regge tassi troppo elevati di riciclo.

Il problema è termodinamico, ma il segnale è economico ed è quello che il mercato riesce a sentire. Oggi alcuni elementi come quelli delle Terre Rare, ma anche i metalli preziosi, usati in quantità molto limitate in elettronica, non sono riciclati affatto perché il gioco non vale la candela. D’accordo, continuano gli ottimisti della sostenibilità, si devono disegnare i manufatti in modo che siano facilmente smontabili a fine vita e i materiali con cui sono fatti recuperabili e riciclabili. Sulla carta funziona, ma in pratica si sta parlando di stravolgere totalmente lo sviluppo merceologico degli ultimi 50 anni.

Ad esempio molte delle sempre invocate nuove tecnologie si basano sull’uso di materiali compositi in cui i singoli elementi chimici sono dispersi in mille dispositivi di difficile separazione e perfino identificazione. Considerazioni analoghe valgono per le plastiche il cui uso, riuso, e riciclaggio efficiente richiederebbe di rinunciare alla varietà di materiali che oggi forniscono. Al momento in ogni caso, siamo talmente lontani dalla circolarità che qualsiasi tentativo di rallentamento dell’economia lineare potrebbe essere preso come positivo. Tutto sta capire chi deve pagare questo rallentamento.

L’impressione è che una parte almeno delle élite globali, in particolare quelle che dirigono la politica dell’Unione Europea e della sinistra USA, abbiano intenzione di far pagare la transizione ai ceti medi e medio bassi del mondo industrializzato portandoli al livello dei ceti medio bassi del mondo in via di sviluppo. Un grandissimo lavoro di redistribuzione, giustizia sociale e, forse, miglioramento delle condizioni ambientali.

Portare il salario dell’agricoltore inurbato cambogiano al livello dell’operaio di Rho facendo crescere il primo e scendere il secondo, è un risultato eccezionale, per l’operaio cambogiano, non per quello di Rho che però dopo tre decenni di globalizzazione forzata e cessioni di sovranità ha perso ogni controllo politico e sindacale nelle società democratiche europee, ed è ridotto a quello che i veri liberisti vorrebbero: forza lavoro indifferenziata e individualizzata in un mercato globale. In Europa c’è anche una politica volta a mantenere una certa stratificazione gerarchica fra le nazioni a tutto favore del nord anseatico e a sfavore del sud aleatico. >>

LUCA PARDI

(continua)

venerdì 14 agosto 2020

In memoria di Don Ferrante

Alzi la mano chi, nel primo infuriare dell'epidemia di Corona-virus, non ha rivolto il suo pensiero alla famosa peste del '600, magistralmente descritta da Alessandro Manzoni nei Primessi Sposi.
E chi conosce più a fondo la trama ed i personaggi del romanzo, avrà fatto un inevitabile parallelo tra le solide conoscenze medico-scientifiche di oggi, e l'ignoranza travestita da cultura che regnava a quell'epoca, così ben rappresentata dall'irresistibile personaggio di Don Ferrante.
Il quale alla fine, come ben sappiamo, non trovò nulla di meglio che morire di peste 'a sua insaputa'.
LUMEN


<< Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato.

Nell’astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario comune, d’influssi, d’aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de’ circoli massimi, de’ gradi lucidi e tenebrosi, d’esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de’ princìpi in somma più certi e più reconditi della scienza.

Ed eran forse vent’anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a’ moderni, anche dove l’hanno chiara che la vedrebbe ognuno.

Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l’aveva saputa adoprar bene. >>


<< Al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.

In rerum natura,” diceva, “non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser nè l’uno nè l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è inutile parlarne.

Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perchè bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perchè brucerebbe. Non è terrea; perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato?

Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; chè questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro.

Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi: perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci...?”
Tutte corbellerie,” scappò fuori una volta un tale.

No, no,” riprese don Ferrante: “non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.”

Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorchè vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi.

Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.

La c’è pur troppo la vera cagione,” diceva; “e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?...

Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?”

His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle. >>

ALESSANDRO MANZONI

sabato 8 agosto 2020

Punti di vista – 21

RINUNCE
Mettiamoci il cuore in pace: a qualcosa dovremo sempre rinunciare. È la vita.
Se vogliamo la carriera, dovremo passare meno tempo con i figli. Se vogliamo lavorare tutti a tempo pieno, la vita sarà pesante e la famiglia il luogo in cui scaricheremo il nostro stress.
Se vogliamo fare figli, il tempo a disposizione per le altre cose si ridurrà. Se vogliamo che la famiglia ci aiuti con i bambini, dobbiamo rinunciare alla libertà di vivere dove ci pare.
Se vogliamo che i nostri genitori vadano in pensione presto e bene, dopo dobbiamo lavorare per pagargliela questa pensione; se vogliamo pagare poche tasse, dobbiamo accettare meno servizi e meno pensioni.
Non c’è niente di terribile in questo: le soluzioni si possono trovare. (…)
È il fatto di credere di aver diritto ad avere tutto contemporaneamente, e l’arrabbiarsi perché pensiamo che c’è qualcuno che non sta facendo quello che dovrebbe per rendercelo possibile, che ci fa vivere scontenti e arrabbiati, non solo come singoli, ma anche come società.
Accettare le rinunce fa parte della vita, ma nessuno ha il coraggio di dirlo.
GAIA BARACETTI


ANALFABETISMO FUNZIONALE
Viviamo in un sistema mondiale formalmente democratico, dove tuttavia la maggioranza dei votanti è composta in parte da analfabeti funzionali, incapaci di comprendere un ragionamento complesso, ed in parte da analfabeti critici, incapaci di validare la correttezza di ciò che gli viene raccontato e pronti ad accettare qualunque opinione, purché convincente ed adeguatamente argomentata.
Una democrazia sostanzialmente succube di chi disponga di risorse sufficienti per orientare, stravolgere e deformare la pubblica percezione dei fatti.
MARCO PIERFRANCESCHI


SOLUZIONI ECONOMICHE
Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre.
Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti.
Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto.
L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti.
ABBA P. LERNER


DITTATURE
Tutti gli Stati sono sottoposti agli imperativi della realtà, ma questa sensibilità ai fatti è caratteristica della salute mentale, e non tutti i governanti sono sani di mente.
E mentre in democrazia esiste un sistema di pesi e contrappesi, che limita i danni, il rischio è grande nelle dittature.
Qui, l’uomo solo al comando può essere pazzo e nessuno può detronizzarlo.
Inoltre, quando la dittatura è teocratica, i governanti rispondono più ad imperativi metafisici che economici o di sicurezza.
Ed è questo che li rende tremendamente pericolosi. Perché hanno scopi più importanti della stessa vita umana.
GIANNI PARDO


DIBATTITO SUL CLIMA
Il dibattito scientifico sul clima è ormai completamente sparito. Si è completamente trasformato in un dibattito politico.
Questo vuol dire che per quanto possiate schiacciare il vostro avversario con argomenti scientifici, il pubblico si dividerà comunque in fazioni a seconda della loro posizione ideologica.
Questo è normale: quando uno va alla partita, tifa per la propria squadra, non per la squadra che gioca meglio.
E quindi non vi fate illusioni di poter convincere nessuno. (…)
Così è la vita. Il dibattito politico segue delle regole molto diverse dal dibattito scientifico. In politica sono ammessi colpi bassi, insulti, attacchi personali, bugie e mezze verità, e cose del genere.
Dovete starci molto attenti ed essere preparati a rispondere e non è ovvio che uno che non fa di mestiere il politico o il giornalista sia in grado di reggere il confronto con i professionisti.
UGO BARDI

sabato 1 agosto 2020

I limiti biologici della cultura

Come noto, nell'evoluzione biologica, di fronte a situazioni completamente nuove e rischiose, l'unica speranza di sopravvivenza è data dalla comparsa di una mutazione vantaggiosa che aiuti l'essere vivente a risolvere il problema. Ma la mutazione genetica è rara e casuale, e l'attesa può essere lunga.
Con l'evoluzione culturale invece, l'uomo ha ottenuto una sorgente di novità in più: un meccanismo che risulta rapido, non casuale, e che può essere trasmesso non solo verticalmente (dai genitori ai figli), ma anche orizzontalmente (tra i componenti del gruppo).
La fortissima capacità culturale della nostra specie non ci ha aperto però i cancelli dell'Eden, perché ogni cambiamento, anche se utile a risolvere un problema, non è mai privo di aspetti negativi, ed inoltre non può superare del tutto i limiti genetici che ci condizionano.
Di questi limiti ci parla Luca Pardi nel post che segue, tratto dal sito di Aspo Italia.
LUMEN 


<< L’azione umana, che definisce la dinamica dell’antropo-sfera e dei suoi effetti planetari, si esprime attraverso un metabolismo che ha nella componente sociale la sua manifestazione specifica più saliente. “Società”, parola magica, da cui ne derivano molte altre: socialità, sociologia, socialismo, sociopatia. L’uomo è un animale sociale. Ipersociale, dicono alcuni, più simile alle api e alle formiche che al branco primordiale di ominidi.

Le relazioni di potere sono quelle che plasmano la struttura della società. In tutte le società animali, inclusa la nostra, si stabilisce una gerarchia. Mio padre determinò sia l’esistenza che il determinismo di fenomeni specifici, come l’instaurarsi della gerarchia, nelle vespe sociali. Fenomeni che erano allora noti solo fra i vertebrati. A lui devo la costante osservazione di tutto ciò che è umano come una manifestazione dell’etologia della specie come si è sviluppata nel corso dell’evoluzione.

Edward O. Wilson ha creato un possente apparato teorico che formalizza, per quanto possibile e non senza controversie, la genesi del fenomeno sociale nel mondo animale nel quadro del paradigma evoluzionista, l’unico che ha senso in biologia, fino ad arrivare a ipotesi innovative sulla socialità umana.

Secondo Wilson, detto in soldoni, siamo il prodotto sia del meccanismo egoistico del gene dato dalla selezione individuale sia del meccanismo altruistico di gruppo. L’interazione fra questi due meccanismi ci ha portati ad essere una “chimera evolutiva”. Sapere chi siamo non è un fattore secondario nello studio dei nostri rapporti con l’ambiente in cui viviamo.

Scrive Telmo Pievani nella prefazione del testo di Wilson: […] “circa l’impatto di Homo sapiens sulle altre specie ominine e sulla biodiversità, l’evoluzione umana per Wilson è stata una campagna di invasione, una marcia rischiosa per una ragione profonda, che costituisce il nucleo antropologico del libro: la radicale ambiguità della natura umana. Proprio a causa del paradosso insito nella selezione di gruppo (la dialettica fra cameratismo dentro il gruppo e conflitto fra gruppi di estranei), le sorgenti della più sublime cooperazione sono anche quelle del tribalismo, della guerra tra bande, del conformismo sociale, di identità collettive settarie e irrazionali.” 

Personalmente penso che non ci sia nulla di più utile, e necessario, di sapere chi siamo. I grandi tentativi di indagine scientifica della psiche umana hanno dato vita ad una congerie di scuole psicanalitiche di pensiero e a qualche psicofarmaco che, usato con giudizio, può migliorare la condizione in caso di patologie. Ma non è andata a fondo del problema. Per far questo ci voleva molto di più che sdraiare una persona su un lettino e interpretare i suoi sogni.

Sarebbe molto, troppo, ambizioso tentare di (o fingere di saper) maneggiare la gamma di strumenti che le neuroscienze ci hanno dato per indagare la mente, e la sua base fisica. E non solo la mente umana, infatti accanto all’anatomia comparata, disciplina fondamentale per capire l’evoluzione, esiste una neurofisiologia comparata che non è, da questo punto di vista, meno importante. Altri strumenti sono stati forniti anche dalla psicologia empirica e da quella evoluzionistica che hanno permesso di indagare, ad esempio, i meccanismi di formazione delle risposte morali. (...)

Per sapere chi siamo non basta studiare la società umana e la sua evoluzione storica con gli strumenti delle scienze sociali ed economiche, bisogna capire la nostra storia naturale. Nulla ha senso in biologia se non alla luce della teoria dell’evoluzione. Noi siamo il prodotto di un percorso evolutivo e ne dobbiamo tener conto.

Alla fine, ad esempio, si tratta di riconoscere l’origine delle resistenze che rendono così difficile la cooperazione internazionale sul tema dell’ambiente e della contrapposta facilità con cui i difensori del paradigma fossile dell’energia sono riusciti a ritardare la transizione. Purtroppo questo tipo di affermazione manda su tutte le furie molte persone. Il fatto che possa esistere un hardware (natura) che interagisce con un software (cultura) che si è a sua volta adattato alla struttura fisica sottostante, è per alcuni inaccettabile.

Il mio problema non è dimostrare alcuni grandi pensatori e ispiratori di movimenti di massa, abbiano sbagliato tutto. Nessuno riesce a sbagliare tutto. (…) [Ma] nel guardare l’uomo, nella sua eccezionalità, da un punto di vista etologico, sociobiologico, evoluzionista, non si lascia da parte la tensione morale per una società più giusta e per l’instaurazione di un rapporto non distruttivo con l’ambiente che ci circonda. Al contrario, si dà una base biofisica, perciò realistica, a questa tensione.

Fino ad ora le religioni private e pubbliche, che sono spesso le detentrici della morale, hanno sempre predicato bene e, spesso, razzolato male. Le religioni pubbliche 'non teiste' del secolo scorso, come socialismo, comunismo, fascismo, sono state quasi interamente soppiantate dalla dottrina economica neo-liberale oggi dominante. Queste religioni pubbliche hanno rappresentato e rappresentano sé stesse come scienza, ma non lo sono, e innervando con la propria morale il comportamento delle società umane attraverso la politica, hanno dato vita a vari tipi di sistemi oppressivi, totalitari e/o distruttivi sia nei confronti dei rapporti sociali che dell’ambiente.

A dispetto della incrollabile fede di alcuni miei amici liberali, non c’è nulla di laico nella dottrina economica oggi dominante. Al contrario essa di configura proprio come una religione pubblica. A questo proposito Mauro Gallegati scrive: «nonostante esteriormente assomigli alla fisica, e nonostante il presunto equipaggiamento di molte leggi, l’economia non è una scienza», e anzi «assomiglia a una religione».

Ma prima di Gallegati il fisico Norbert Wiener aveva espresso un concetto simile in modo più colorito:
«Il successo della fisica matematica portò lo scienziato sociale ad essere geloso della sua potenza senza la completa comprensione dell’atteggiamento intellettuale che aveva contribuito a questa potenza.
L’uso delle formule matematiche aveva accompagnato lo sviluppo delle scienze naturali, ed era diventato di moda nelle scienze sociali.
Proprio come i popoli primitivi adottano le mode occidentali di vestire e il parlamentarismo, con un vago sentimento che queste vesti o questi riti magici li metteranno immediatamente in linea con la cultura e le tecniche moderne, così gli economisti hanno sviluppato l’uso di rivestire le loro idee imprecise del linguaggio del calcolo infinitesimale ….
Stabilire che cosa significano valori precisi per tali quantità, essenzialmente vaghe, non è né utile né onesto e ogni pretesa di applicare formule precise a queste quantità vagamente definite, è un artificio e una perdita di tempo»

Ad alcuni scienziati sociali e ad alcuni neo-adepti dell’econo-fisica o della dinamica dei sistemi, questo giudizio apparirà oltraggiosamente ingeneroso e perfino contraddittorio per uno che predica la collaborazione fra scienze naturali e scienze sociali. Collaborazione appunto, non dominio di una sull’altra. Non adozione di metodi di una nell’altra senza reciprocità.

Le cose che sto scrivendo sono l’approdo, sicuramente non definitivo, di molti anni di tentativi e interazioni con persone con una base culturale diversa dalla mia. In questi anni ho raramente incontrato persone che fossero disposte a lasciare, anche per un attimo, il loro punto di vista e abbracciarne un altro. Da questo punto di vista mi ha colpito (...) l’insegnamento di Marianella Sclavi con le sue “regole dell’ascolto attivo” applicando le quali si apprende un metodo di ricerca e, soprattutto, ad apprezzare il proprio punto di vista prima di quello altrui. 

Le scienze sociali ed economiche avevano, ed hanno bisogno, di un bagno di bio-fisica e bio-sociologia, ma questo non deve essere visto come un processo di conquista delle scienze sociali da parte di quelle naturali. Non è così. Le scienze naturali, non sono pure verginelle, ma rappresentano oggi uno degli strumenti essenziali della religione pubblica dominante. Quella appunto, dell’economia neoliberale, ma non erano meno importanti nei regimi del socialismo reale.

La retorica del progresso tecnologico e delle 'magnifiche sorti e progressive' della scienza sono una delle componenti delle ideologie dominanti da due secoli. Le scienze dure, in particolare, si sono rese ancelle del mercato capitalistico in modo quasi totale.

La confusione fra sviluppo tecnologico al servizio del sistema dei consumi e indagine scientifica è un fatto che si può riscontrare ogni giorno seguendo i mezzi di comunicazione, e che si vive quotidianamente nel mondo della ricerca. La scienza al servizio del mercato capitalistico è una regola da sempre. (...) [Ma] come sempre possiamo e dobbiamo separare il grano dalla pula. (...)

Per questa crisi ecologica e sociale in cui ci siamo trovati ci sono possibili risposte, ma non ci sono soluzioni. Noi, intendo quelli con più di cinquant’anni, diciamo, lasciamo molti problemi seri alle generazioni più giovani e a quelle future, il nostro impegno può essere solo quello di affrontarli insieme a loro finché ci saremo e di lasciargli in eredità degli strumenti pratici e teorici per affrontarli. >>

LUCA PARDI