sabato 30 marzo 2019

Elogio del muro

Il post di oggi è dedicato ad un sorprendente elogio del “muro”, della sua ragione d’essere e della sua funzione sociale, con interessanti digressioni sui diversi muri offertici dalla storia. La penna è quella, sempre sapida e corrosiva, di Marcello Veneziani (dal giornale La Verità). 
LUMEN


<< La parola d’ordine del Cretino Planetario per farsi riconoscere e ammirare è: vogliamo ponti, non muri. (…) Non c’è predica, non c’è discorso istituzionale, non c’è articolo, pistolotto o messaggio pubblico, non c’è concerto musicale, film o spettacolo teatrale che non sia preceduto, seguito o farcito da questa frase obbligata. L’imbecille globale si sente con la coscienza a posto, e con un senso di superiorità morale solo pronunciando quella frase. (…)

Il pappagallo globale marcia contro i muri, più spesso ci marcia, ma la parola chiave serve per murare il Nemico, per separare dall’umanità evoluta ed accogliente i movimenti e le persone che s’ispirano all’amor patrio, alla sovranità nazionale, alla civiltà, alla tradizione. L’appello ad abbattere i muri e a stendere ponti è ormai ossessivo e riguarda non solo i popoli e i confini territoriali ma anche i sessi e i confini naturali, le culture e i comportamenti, le religioni e le appartenenze, e perfino il regno umano dal regno animale. (…)

Ora, io vorrei prima di tutto osservare che i muri più infami che la storia dell’umanità conosca, non sono i muri che impediscono di entrare, ma i muri che impediscono di uscire. Come sono, necessariamente, i muri delle carceri e come fu, l’ultimo grande, infame Muro che la storia conobbe, a Berlino. E che non edificò nessun regime nazionalista o sovranista, nessun dittatore e nessun Trump ma il comunismo.

Chi tentava di superare quel muro e quel filo spinato per scappare dalla sua terra, era abbattuto dai vopos. Nessun regime autoritario o nazionalista ha mai avuto la necessità di innalzare un muro per impedire che la popolazione scappasse. Né si conoscono esodi di popolo paragonabili a quelli dove ha dominato il comunismo.

Se vogliamo restare in Italia, e a Roma in particolare, c’è solo un muro nel cuore della Capitale che non si può varcare, e sono proprio le Mura Vaticane dove il Regnante predica al mondo, ma non a casa sua, di abbattere i muri e accogliere tutti. E comunque i muri più famosi, i muri del pianto e della vergogna, non appartengono alla cristianità. Detto questo, a coloro che amano la civiltà e la tradizione, l’amor patrio e la sovranità nazionale, si addice piuttosto il senso del confine. Perché confine significa senso del limite, senso della misura, soglia necessaria per rispettare le differenze, i ruoli, le identità e le comunità.

Tutti i confini sono soglie, sono porte, che si possono aprire e chiudere, che servono per confrontarsi sia nel colloquio che nel conflitto, comunque per delimitare o arginare quando è necessario. La società sradicata del nostro tempo ha perso il senso del confine, e infatti sconfinano i popoli, i sessi, le persone, si è perso il confine tra il lecito e l’illecito. Sconfinare è sinonimo di trasgredire, delirare, sfondare.

La peggiore maledizione per i greci era l’hybris, lo sconfinamento, la smisuratezza, il perdersi nell’infinito. Il confine è protezione, sicurezza, è umiltà, è tutela dei più deboli, non è ostilità o razzismo. Vi consiglio di leggere “L’elogio delle frontiere” di Régis Debray. Ai più modesti, consiglio l’elogio dei muri di Alberto Angela che non mi risulta un ufficiale delle SS.

Senza muri non c’è casa, non c’è tempio, non c’è sicurezza. Senza muri non c’è pudore, intimità, protezione dal freddo, dal buio e dall’incognito. Senza muri non c’è senso della misura, riconoscimento del limite e dei propri limiti. Senza muri non c’è bellezza, non c’è fortezza, non c’è fondazione delle città, non c’è erezione di civiltà. Non a caso le città eterne nascono da Romolo che tracciò i confini, non da Remo che li violò. I muri sono i bastioni della civiltà, gli ospedali della carità, le biblioteche della cultura, le pareti dell’arte, il raccoglimento della preghiera.

Se il cretino planetario non lo capisce, in compenso lo capiscono bene gli anarchici di Tarnac che colsero nel muro abbattuto la vittoria del caos e dell’anarchia: “La distruzione delle capacità di autonomia dei dominati passa per l’abolizione delle frontiere del loro essere: individuale e collettivo. Finché esistono frontiere, è possibile opporre un sistema di valori a un altro, un tipo di diritto all’altro, distinguere uomo da donna, madre da padre, cittadino da straniero, insomma vero da falso, giusto dall’ingiusto, normale da anormale” (Gouverner par le Chaos – Ingénierie Sociale et Mondialisation, 2008).

Le città senza confini perdono la loro identità, come le persone che perdono i loro lineamenti. Non capovolgete l’amore per la famiglia in omofobia, l’amore per la propria patria in xenofobia, l’amore per la propria civiltà in razzismo, l’amore per la propria tradizione in islamofobia. E l’amore per i confini in muri dell’odio. >>

MARCELLO VENEZIANI

sabato 23 marzo 2019

Punti di vista - 5

LOTTA ALLA POVERTA’
La premessa cristiana ci impegna nel fine [di eliminare la miseria] ed impegna anche nella ricerca sempre viva dei mezzi proporzionati a tale fine; questi mezzi devono esistere, esistono, se ad essi è legato un fine così essenziale per l’uomo: si tratta di ricercarli con amore appassionato, con mente sempre aperta ad ogni spiraglio di luce che permetta, in qualche modo, di intravederli.
Keynesiani, non keynesiani? I nomi non contano, contano le cose: credere che sia possibile una tecnica risolutiva (anche se con prudenza) del massimo problema sociale (disoccupazione e miseria) o essere scettici intorno alla possibilità di essa ed alla efficacia risolutiva di essa: questo è il dilemma.
La radice del contrasto che questa polemica così viva ha messo in luce è tutta qui: è un contrasto di fondo; rileva due concezioni diverse delle ripercussioni sociali del cristianesimo, due modi diversi di concepire la finalità dell’economia, della finanza e della politica.
Non è un dissenso di dettaglio, non si può dire che, in fine, le due parti sono d’accordo: no, non sono d'accordo, perché il loro disaccordo tocca le idee di base e di orientamento.
GIORGIO LA PIRA

(Nota di Lumen – Personalmente, non condivido le affermazioni ottimistiche di La Pira, in quanto sono convinto che la povertà sociale sia un problema strutturale ed ineliminabile; e la storia sembra darmi ragione. Mi rendo conto però che per un politico cattolico, così come per un marxista, il presupposto “positivo” sia inevitabile).


PLASTICA
In Italia, si producono circa 100 kg di plastica a testa ogni anno.
Di questi, circa 35 kg a testa sono “rifiuti da confezionamento”, ovvero quella frazione di plastica che – secondo le leggi vigenti – si può differenziare e riciclare. Il resto non si ricicla e finisce accumulato da qualche parte o disperso nell’ambiente.
E anche la frazione che riusciamo a riciclare non sparisce, rimane nel sistema. Dopo un certo numero passaggi, almeno una parte va a finire dispersa nell’ambiente anche quella. Da lì, la ritroviamo nel ciclo alimentare e infine nel nostro piatto.
La plastica che buttiamo via, a lungo andare, ce la mangiamo. Non fa bene di sicuro.
Possiamo bruciarla? Sì, ma non è una soluzione sostenibile: vuol dire generare gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale. (…)
C’è una ragione per questa situazione: le industrie producono prodotti in plastica perché la plastica fatta dal petrolio costa meno di qualsiasi alternativa, dal cartone alle “bio-plastiche.” E, come tutti sappiamo, solo chi vende a prezzi bassi resiste sul mercato.
UGO BARDI


RIPRODUZIONE SESSUALE
Nei tempi primordiali il meccanismo più semplice con cui gli esseri viventi si riproducevano era la scissione, ovvero ognuno creava una copia identica di se stesso.
C'era un inconveniente, con individui identici un qualsiasi cambiamento nel contesto che poteva ammazzarne uno o anche solo essere svantaggioso per uno, poteva colpirli tutti allo stesso identico modo.
Allora, prova e riprova, prima per via degli errori nella replicazione del DNA, poi per selezione, ecco un sistema più complesso, la riproduzione sessuata, dove due o più individui producono dei gameti che hanno solo una parte dei geni necessari all'individuo completo, si uniscono le parti di individui diversi e così si rimescolano i geni.
Il rimescolamento genetico in parole povere fa in modo che ci sia abbastanza varietà in una popolazione che un cambiamento nel contesto non riesca ad ammazzare tutti, ci siano sempre alcuni che resistono o anche che trovano il cambiamento vantaggioso.
LORENZO CELSI


COSTITUZIONE E GUERRA
La [nostra] Costituzione sarebbe più autorevole se non contenesse errori e addirittura palesi assurdità.
In che altro modo si può giudicare l’art.11, quando afferma che l’Italia- “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”?
A parte l’enfatico verbo “ripudiare”, qual è l’ultimo mezzo per risolvere le controversie internazionali, quando gli Stati non si mettono d’accordo?
L’alternativa alla forza è il diritto, ma questo all’interno di uno Stato che funziona.
Nella realtà internazionale, se l’Ucraina si presentasse dinanzi ad un giudice per denunciare che la Federazione Russa le ha scippato la Crimea, e un giudice le desse ragione, poi che se ne farebbe, Kiev, di quella ragione?
Quando non dispone della forza per imporre i suoi dettati, il diritto è un flatus vocis. Ripudiare la guerra è come ripudiare la pioggia o i terremoti.
GIANNI PARDO


SVALUTAZIONE
La svalutazione della moneta non è una furbizia, come molti vogliono far credere, ma un adeguamento monetario assolutamente opportuno e legittimo nei rapporti commerciali con l’estero.
E’ come mettere un dazio sulle importazioni e il volano alle esportazioni.
In uno Stato sovrano che vuole tutelare gli interessi nazionali è una misura del tutto appropriata e legittima.
E’ per questo che la Germania e la Francia ci tenevano tanto a farci entrare nell’euro, per legarci le mani dietro la schiena.
E i nostri inqualificabili politici dell’epoca glielo hanno pure consentito.
EROS COCOCCETTA

sabato 16 marzo 2019

Troppa empatia - 2

Si conclude qui l’articolo-recensione di Michele Silenzi (tratta da Il Foglio) sui limiti dell’empatia. LUMEN

(seconda parte)

<< La parte emozionale degli individui, la loro sensibilità, è stata posta al centro del villaggio occidentale non come una delle tante componenti importanti dell’uomo ma come la sua componente più importante, come ciò che rende un uomo un uomo. E’ stata concessa un’esacerbante importanza all’aspetto emozionale. Ma come si è venuta a creare questa necessità parossistica di buoni sentimenti?

Questa idea che ogni uomo debba essere in grado di sentire la sofferenza degli altri e quindi assumerla su di sé e, addirittura, agire in base a questo tipo di sentimento come guida morale? L’unico che potrebbe assumersi un ruolo del genere sarebbe Dio, un essere onnicomprensivo che tutto riconduce a sè e da cui tutto si emana.

Questo tipo di approccio iper-sentimentale ha a che fare con la nostra fragilità spirituale, con la scomparsa di un sostrato di riferimento condiviso e vero su cui basare le nostre azioni. Uno non dovrebbe mai stancarsi di rileggere la citazione di Benedetto XVI in cui dice “senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo”. E’ una delle frasi più importanti e coraggiose della nostra epoca. Scomparso il sostrato di riferimento, la ragione ci sembra insufficiente e allora fondiamo le nostre azioni sul terreno melmoso dei buoni sentimenti.

Questa mania dell’empatia ha quindi anche a che fare con il peso esacerbante dato proprio al ruolo di un uomo, di un individuo, che non sente più nulla di grande sopra di sé a trarlo verso l’alto né nulla di stabile sotto di sé a sostenerlo ed elevarlo ma soltanto la pura contingenza. L’uomo occidentale cerca di colmare questo vuoto con un insostenibile aspetto emozionale in cui far convergere e soddisfare le altre mancanze. Ma tutto questo è impossibile.

Come ha ripetuto con ironia Elmar Salmann, alla fine di una conferenza tenuta davanti a un gruppo di economisti e industriali, “Dio esiste e non sei tu quindi rilassati”. Tutto ciò che l’uomo può fare all’interno di un orizzonte limitato come il suo, limitato sia per risorse emozionali e intellettuali che economiche, è cercare di massimizzare la propria azione all’interno di una morale compassionevole e razionale.

L’empatia, purtroppo, oltre a non essere un fondamento per la morale spesso la erode. E’ l’empatia che invade il nostro spirito e distrugge ogni capacità di giudizio oggettivo e di elaborazione morale portando le nostre azioni lontano da ciò che sarebbe giusto e vero. L’empatia può generare un’ubriacatura emotiva che impedisce e corrode persino la capacità di azione. E’ infatti evidente che, assorbendo troppo le sofferenze degli altri, si rischia di diventare incapace di prestare aiuto perché raggiungere risultati positivi nel lungo periodo spesso implica dolore nel breve.

Come detto prima, l’empatia è il fattore determinante nel favorire il processo d’identificazione. “I am the man, I suffered, I was there”. Non è da escludere che un grande spirito artistico, come quello di Walt Whitman in questo caso, possa sentire in alcuni momenti questa sensazione di comunione empatica universale.

Ma sono momenti e casi specialissimi, non è questo l’ordinario, non è questa una ricetta da adottare per la nostra condotta quotidiana ed è tanto meno un fondamento morale o un programma di azione politica e sociale. I processi d’identificazione sono un’illusione sentimentale. Nessuno di noi è un bambino affamato dell’Africa profonda, un orfano che vive mendicando per le strade di Phnom Penh o una famiglia siriana. 

Quello che possiamo e dobbiamo fare, invece, è comprendere razionalmente e provare a trovare soluzioni utili e reali. Non c’è bisogno d’identificazione, anche perché è impossibile, ma di comprensione realistica e lucida. L’empatia, l’illusione identificatoria, non aiutano a fare altro che a sentirci meglio, a sentirci buoni e bravi, e a confondere le idee.

In conclusione, Bloom ci tiene a ribadire che avere un alto grado di empatia non rende una persona migliore rispetto a un’altra che ne ha di meno. Ci sono intere ricerche dedicate, per esempio, alla capacità dei criminali più efferati di riuscire a commettere le peggiori nefandezze proprio perché in grado di entrare in empatia con l’altro, con la vittima, di leggergli dentro e di manipolarlo. Questo vale tanto nel piccolo, quanto nel grande per i dittatori e i demagoghi. I comportamenti positivi, razionali e moralmente giusti sono, invece, relazionati alla compassione e alla capacità di curarsi degli altri.

L’alternativa all’empatia, scrive Bloom, è quindi quella della compassione razionale, dell’interessamento al miglioramento della condizione di chi soffre e della gentilezza in una prospettiva che sia accettabile, sostenibile e lucida nel lungo periodo. Questo è ciò che possiamo fare e che ci permette una visione e una capacità di azione ragionevoli e non obnubilate dall’ubriacatura dell’identificazione empatica con l’altro. I comportamenti dettati dall’empatia sono troppo esacerbanti e l’identificazione empatica tende a portare, nel migliore dei casi, all’inazione.

Tutti i grandi raggiungimenti sociali dall’uomo, il superamento dei pregiudizi nei confronti degli altri, la tolleranza, la comprensione di chi è diverso non è stata raggiunto attraverso un’empatia impossibile con chi è radicalmente distante da noi, ma grazie alla comprensione razionale, allo studio e alla compassione. >>

MICHELE SILENZI

venerdì 8 marzo 2019

Troppa empatia - 1

Si può affermare che le società umane diventano sempre più civili, man mano che si diffondono i principi dell’empatia, cioè di quell’approccio psicologico che ci spinge ad aiutare il prossimo anche in assenza di un imperativo genetico.
Ma di troppa empatia una società può anche morire, e ciò avviene quando l’empatia si trasforma in ‘buonismo’, un meccanismo mentale che – pur con le migliori intenzioni - impedisce una visione complessiva dei problemi e rende quindi più difficile elaborare soluzioni lungimiranti e realmente efficaci.
Agli eccessi dell’empatia è dedicata questo lungo articolo di Michele Silenzi (tratto da Il Foglio) che recensisce un libro di Paul Bloom. 
LUMEN

(prima parte)

<< "Il più grande deficit che abbiamo nella società e nel mondo in questo momento, è un deficit di empatia. Abbiamo un grande bisogno di persone che siano in grado di stare nei panni di qualcun altro e vedere il mondo attraverso i loro occhi”. Così parlò Barack Obama.

Dovunque ci si giri, qualsiasi cosa si legga sui giornali, nei libri o si ascolti ai telegiornali, qualsiasi rapporto umano tra due o più persone, in ogni cosa risuona questa parola: empatia. Sembra non essercene mai a sufficienza. Come Cerbero, anche l’empatia ogni volta che la si sfama, che la si soddisfa, sembra avere “più fame che pria”. Viviamo nell’èra dell’empatia, di continuo ci viene predicato di vedere il nostro volto in quello dell’altro, di identificarci con tutto il mondo e con tutte le persone del mondo, eppure non ne abbiamo mai abbastanza.

Un celebre psicologo di Yale, Paul Bloom, in un libro uscito di recente “Against Empathy: The case for rational compassion”, si è imbarcato nell’impresa di dimostrare come l’empatia sia una pessima guida morale e di come andrebbe arginata attraverso la ragione. Più cervello, meno cuore. E anche il cuore ne beneficerà. Bloom intende empatia nel suo concetto più ampio, ovvero la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di sentire quello che l’altro sente. E il punto essenziale, che l’autore mette in chiaro sin da subito, è che al massimo noi siamo in grado di riflettere i sentimenti degli altri, ma non di sentirli come nostri, “il soffrire empatico è diverso dal soffrire reale” generando conseguenze che, tra questi due aspetti, non sono neppure paragonabili.

Il libro riconosce all’empatia un aspetto positivo nella fruizione dell’arte e, talvolta, nei rapporti intimi. Il problema si pone, invece, quando l’empatia viene usata per capire e prendere decisioni attorno a casi più complessi, che sono poi i casi politici, sociali, economici. Bloom paragona l’empatia alle bibite gassate e dolciastre, allettanti e deliziose ma dannose. L’empatia genera spesso piacere grazie al coinvolgimento che ci fa sentire con gli altri, genera benessere perché ci fa sentire buoni e perché stimola la nostra interiorità, ma è tutt’altro che una valida guida morale. Ci porta spesso a emettere giudizi sciocchi e a fare scelte politiche irrazionali e ingiuste.

Uno degli argomenti solitamente più forti a sostegno dell’empatia è che ci renderebbe più gentili con le persone con cui empatizziamo. Bloom dice che a sostenere questa linea ci sono non solo l’esperienza quotidiana e il buon senso ma anche molte ricerche. Quindi, continua l’autore, “se il mondo fosse un posto semplice in cui gli unici dilemmi con cui ciascuno deve avere a che fare coinvolgessero soltanto una singola persona in immediata difficoltà, e nel caso in cui aiutare quella persona avesse effetti positivi, allora l’argomentazione in favore dell’empatia sarebbe solida. Ma il mondo non è un posto semplice. Spesso, molto spesso, l’azione motivata dall’empatia non è moralmente giusta”.

Bloom, infatti, paragona l’empatia a un riflettore da palcoscenico che riesce a illuminare con forza solo una piccola porzione della scena, facendoci credere che ciò che vediamo sia tutto ciò che c’è e lasciando il resto nell’ombra. Allo stesso modo l’empatia ci fa concentrare su ciò che più ci colpisce emotivamente, accecandoci e lasciandoci insensibili alle conseguenze di lungo termine delle nostre azioni, per quanto possano essere ben intenzionate nel breve. Per lo stesso motivo, l’empatia è partigiana, spingendoci nella direzione del campanilismo. Non ha il senso delle proporzioni, favorendo il caso specifico con cui appunto entriamo in empatia a discapito dei molti, “è insensibile alle conseguenze che si applicano statisticamente piuttosto che a quelle che riguardano specifici individui".

Per questi motivi, l’empatia risulta una guida morale e comportamentale non solo inutile, ma addirittura dannosa quando si tratta di fare scelte di ampio respiro che riguardino il mondo complesso in cui viviamo, in cui le scelte hanno conseguenze non intenzionali sempre più interrelate, ramificate e imprevedibili. La sfera della politica sociale, internazionale ed economica non dovrebbe quindi in nessun caso essere intaccata da questo tipo di sentimento.

Gli esempi che Bloom riporta a sostegno della sua tesi sono essenziali e difficili da mettere in discussione. Basta immaginare, facendo un caso che sembra sempre attuale, che un vaccino difettoso abbia causato a Rebecca Smith, una bambina di otto anni, di ammalarsi gravemente. Guardandola soffrire, osservando il dolore dei genitori, saremmo inondati di empatia e vorremo fare qualcosa per aiutarla. Ma supponiamo che, fermando quel programma di vaccini a causa di uno solo difettoso, una dozzina di bambini di cui non sappiamo e probabilmente non sapremo mai nulla morissero. Qui la nostra empatia resterebbe in silenzio, come potremmo empatizzare con un’astrazione statistica? E’ come se gli altri bambini non fossero nulla e Rebecca Smith il mondo intero, perché l’empatia detta legge.

Un altro esempio fatto da Bloom è quello della città di Coventry durante la Seconda guerra mondiale. Gli inglesi avevano scoperto come decodificare il codice Enigma dei nazisti e avevano saputo del devastante attacco che stavano per lanciare sulla città. Se si fossero preparati per l’attacco, i tedeschi avrebbero capito che il codice era stato decodificato. Così, il governo di Churchill prese la durissima decisione di lasciare morire persone innocenti per conservare un vantaggio militare che gli desse maggiori chance di vincere la guerra e salvare un maggior numero di vite.

L’empatia è un fattore determinante nel favorire il processo d’identificazione con gli altri. Se ci fossimo identificati con la bambina del vaccino difettoso o con un abitante di Coventry, non saremmo stati in grado di prendere la giusta decisione, quella che nel lungo termine avrebbe portato più cura, benessere, pace e salvezza al maggior numero e, considerando questi quattro concetti come positivi, possiamo definire questo tipo di approccio e visione come oggettivamente morale. Il processo d’identificazione sembra essere diventato un fondamento della nostra società ma in nessun modo esso costituisce un più solido e oggettivo fondamento morale per le nostre azioni. Quello che dovrebbe guidarci quando agiamo dovrebbe essere un empirismo informato e non l’emotività empatica la cui giustificazione non è spesso altra che la paradossalmente egoistica soddisfazione di un bisogno personale.

Bloom, a questo proposito, fa un altro esempio. Durante una trasmissione in cui era ospite discuteva di una ricerca che aveva letto sugli effetti negativi dell’elemosina ai mendicanti nel favorire il generale miglioramento della condizione socioeconomica dei più poveri. La pastora protestante che era ospite insieme a lui disse che a lei non interessava contrastarlo sui fatti ma soltanto constatare che a lei piaceva fare l’elemosina, la faceva sentire bene dare direttamente cibo o soldi a un bambino e vedere la sua soddisfazione, molto più che mandare soldi a un’organizzazione attraverso una carta di credito. Ripensando alle parole della pastora, Bloom scrive: “Se vuoi il piacere del contatto umano, fai pure e dai qualcosa al bambino, forse sentendo una vibrazione quando le vostre mani si toccano, un calore che rimane con te mentre te ne ritorni in hotel. Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle persone, fai qualcosa di diverso”. >>

MICHELE SILENZI

(continua)

venerdì 1 marzo 2019

L’Occidente e il Cristianesimo

Nei primi anni di questo blog (aprile 2011), avevo pubblicato – in 2 post consecutivi - un lungo ed interessante articolo di Luciano Pellicani sui rapporti, indiscutibilmente molto complessi e controversi, fra il Cristianesimo e la civiltà occidentale.
Il problema, nonostante l’approccio storico, resta di viva attualità, in quanto non sono pochi coloro che propongono (a mio avviso erroneamente) di salvaguardare in qualche modo la nostra cultura occidentale appoggiandosi alle tradizioni Cristiane.
Ho deciso pertanto di ritornare sull’argomento per riportare alcune recenti considerazioni di Gianni Pardo, tratte dal suo blog.
LUMEN


<< [Ma] la civiltà occidentale si è realizzata quale la conosciamo a causa, o malgrado, il Cristianesimo ? (…)

Il Cristianesimo è una delle tre “Religioni del Libro”, cioè della Bibbia. E benché nei Vangeli Gesù affermi di non essere venuto a cambiare, ma a confermare la Legge, cioè la religione dei padri, si può serenamente sostenere che il Cristianesimo è una religione del tutto diversa dall’Ebraismo. La sua sostanza, la sua struttura, la sua mentalità sono greco-romane, non ebraiche. A cominciare dal suo politeismo. Dalla struttura giuridica che si è data, prettamente romana. Dal suo universalismo e da tante altre cose.

Diversa, tuttavia, non significa estranea. Ebraico è il sentimento del peccato che la permea. Ebraico – ed anzi semplicemente orientale – è l’atteggiamento di umiltà, di abiezione, quasi, nei confronti della divinità. L’obbligo fatto ai fedeli di dichiararsi peccatori a prescindere, di chiedere pietà, di adorare con le lodi più iperboliche un Dio che in qualche caso si configura come un vanitoso tiranno orientale. I greci, tanto ostili alla monarchia assoluta persiana, non avrebbero nemmeno immaginato di adorare così i loro dei. Del resto, il loro pessimismo sulla natura umana scalava l’Olimpo e mostrava divinità gelose, rancorose, crudeli, umanissime, a cominciare dal re degli adulteri, Giove. Simili dei si potevano onorare, si potevano offrire loro dei sacrifici, per ingraziarseli ma, presentarli come modelli indefettibili per tutti, sarebbe stato eccessivo.

Dal punto di vista politico, il Dio cristiano non è simile né agli dei scapestrati dei greci, né al bellicoso “Dio degli eserciti” ebraico: è dunque simile ad un tiranno orientale, quale del resto era ormai divenuto chi comandava nell’Impero Romano.

Ecco dunque una prima perplessità. Si potrebbe accusare il Cristianesimo di avere reso il fedele un suddito abbietto, inginocchiato dinanzi al tiranno da cui spera di essere risparmiato, ma è anche vero che questa era la posizione del cittadino romano, dinanzi a parecchi dei peggiori imperatori. L’Imperatore romano potrebbe essere stato il modello del Dio cristiano, invece che l’inverso. Chissà.

Ma forse proprio questo incipit potrebbe suggerirci che abbiamo imboccato il sentiero dalla parte sbagliata. Invece di partire dall’antichità, partiamo dunque dalla modernità, e ovviamente dal Settecento. La civiltà occidentale, come la conosciamo e come la stimiamo, si caratterizza per la democrazia, la libertà, la scienza, la tolleranza, la razionalità, l’amore per le comodità e i beni materiali. Che hanno a che vedere, queste cose, col Cristianesimo? In realtà esse sono tutte nate lottando contro di esso.

Per quanto riguarda la democrazia, il Cristianesimo, sin dalle sue origini, ha insegnato a rispettare l’autorità (“Dare a Cesare…”) e non ha mai spinto gli schiavi, o i servi della gleba, a ribellarsi ai loro padroni. La Chiesa stessa è stata un’organizzazione verticistica e assolutistica, basti dire che in Europa è oggi l’unica monarchia assoluta. Ha avuto il merito di trattare nella stessa maniera schiavi e liberi, uomini e donne, ma gli schiavi rimanevano proprietà dei loro padroni, e le donne, oltre a dover obbedire ai loro mariti, dovevano star zitte in chiesa (S.Paolo: “Mulieres in ecclesiis taceant”) e non dovevano accedere al sacerdozio. Insomma, l’uguaglianza di schiavi e donne era tale dinanzi a Dio, ma non certo dinanzi agli uomini e ai sacerdoti. Uguaglianza sì, ma ultraterrena.

E questo vale anche per la libertà. Per la Chiesa l’uomo ha il libero arbitrio ma soltanto per essere reso responsabile dei suoi peccati. Non gli è mai stato raccomandato, e men che meno permesso, di ribellarsi per avere la libertà. La Chiesa è stata costantemente alleata del potere costituito, col quale ha teso a condividere i vantaggi del reciproco sostegno. Fino ad associarsi con i nobili contro il Terzo Stato.
Quanto alla scienza – e in particolare all’astronomia e alla medicina – la sua storia è un seguito di battaglie contro la Chiesa. Su questo è inutile dilungarsi.

Riguardo alla tolleranza, i cristiani, che prima erano stati perseguitati, si traformarono in persecutori. Basti pensare al trattamento inflitto da sempre agli ebrei, alle conversioni forzate di Carlo Magno, al trattamento dei musulmani dopo la “Reconquista”, e all’Inquisizione. È soltanto la Chiesa sconfitta dei secoli recenti quella che è diventata tollerante. Come certi vecchi che biasimano l’immoralità sessuale perché non sono più in grado di commettere quei peccati.

La razionalità si è dovuta districare dai lacci della possibile eresia dovendo sempre temere lo scontro fra le sue conclusioni e le verità della Chiesa. Il cardinale Bellarmino non era uno sciocco. Quando – secondo quanto narrato nel famoso episodio – si rifiuta di constatare, appoggiando l’occhio all’oculare, la validità delle affermazioni di Galileo, proclama con ciò stesso di preferire la dottrina della fede all’evidenza dei sensi. Non il migliore viatico per la razionalità.

In conclusione si può affermare che tutto ciò che di meglio costituisce la mentalità occidentale non è nato dal Cristianesimo, ma più o meno contro il Cristianesimo. Non “propter hoc, sed contra hoc”.

Nondimeno qualcuno potrebbe pensare che il Cristianesimo abbia almeno avuto il grande merito di avere insegnato la mitezza, la magnanimità, il perdono. Grandi virtù, certamente, ma che si ritrovano anche in altre religioni (basta citare il Buddismo) e che esistevano largamente a Roma. Ché se anzi questa città poté dilatarsi fino a dominare l’intero mondo conosciuto allora, fu perché a lungo trattò con clemenza i vinti (“parcere victis, debellare superbos”), permettendo loro di conservare i loro costumi, ed invitandoli soltanto, col proprio prestigio, a romanizzarsi.

Il suo impero, con la decadenza e la corruzione del suo vertice, divenne difficile da sopportare, e tuttavia per secoli e secoli esso fu rimpianto da tutti. Gli inglesi, quasi a dimostrazione dei loro quarti di nobiltà, mostrano con orgoglio i resti di strade romane e le terme di Bath. “Anche noi siamo stati romanizzati”. E non si può tacere l’orgoglio con cui i renani, e soprattutto i romeni, sottolineano la loro parte di storia romana. Quando Roma fu grande, fu anche molto civile. E quando fu meno civile, finì col soccombere.

Il grande merito del Cristianesimo non è tanto quello di avere ispirato le migliori qualità civili dell’Occidente. Forse queste avrebbero prosperato meglio se l’Impero Romano si fosse mantenuto qual era ai tempi di Augusto. Il suo merito è quello di avere preservato, nei suoi monasteri, la memoria del passato. Della lingua latina, dei grandi testi latini, della cultura classica, in un momento di eclissi totale dell’intellettualità. Senza i monasteri, avremmo perso il ricordo del passato, e in questo senso San Benedetto ha ben meritato di essere nominato patrono d’Europa.

Il massimo grazie la Chiesa lo merita non tanto per ciò che essa ha creato, quanto per ciò che essa non ha distrutto e per quanto ci ha conservato. La cosa per cui bisogna ringraziare di più la Chiesa d’Occidente è il mal di schiena dei copisti e degli amanuensi.

E così, passo passo, senza averlo pianificato, si arriva alla conclusione. I valori occidentali non sono un regalo del Cristianesimo, e per la maggior parte si sono affermati contro il Cristianesimo. Nondimeno questa religione è così strettamente intrecciata col nostro passato, che negarne l’influenza sulla nostra storia e sulla nostra forma mentis sarebbe, più che un atto di ingratitudine e un atto di arroganza, un atto di stupidità. >>

GIANNI PARDO