sabato 30 aprile 2011

La lunga marcia (alle radici dell'Europa) - 2

(da "Le radici pagane dell'Europa", di Luciano Pellicani - seconda parte)


<< La civiltà dei diritti e delle libertà – non lo si ripeterà mai abbastanza – si è formata, attraverso una infinita teoria di conflitti di interessi e di valori, rivalutando tutto ciò (l’homo naturalis, l’eros, la felicità terrena, la ragione critica, la tolleranza, il pluralismo religioso, la libertà individuale, ecc.) che il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo, ha sempre negato e combattuto. 

Fondamentale, nel processo di istituzionalizzazione della libertà di coscienza e della tolleranza, è stata la privatizzazione della religione e, di conseguenza, la sua estromissione dalla sfera statale: esattamente ciò che, ancora oggi, la Chiesa non intende accettare, se è vero, come è vero, che Benedetto XVI, dopo aver riconosciuto che, con la Modernità, “la fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene rigettata: la storia non si misura più in base a un’idea di Dio ad essa precedente e che le dà forma; lo Stato viene ormai inteso in termini puramente secolari, fondato sulla razionalità e sul volere dei cittadini”, ha soggiunto che “la tolleranza che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e la nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia”. 

Certo, il cattolicesimo riformulato dal Concilio Vaticano II non è il cattolicesimo del Sillabo: è un cristianesimo che dichiara che intende “ritrovare una libertà di movimento che l’armatura dottrinale, istituzionale, disciplinare, giuridica ereditata dal passato toglie o limita grandemente”; un cristianesimo che, depurato del suo spirito esclusivista, può dare il suo contributo alla costruzione della “giusta società” grazie soprattutto alla pratica della caritas, che è la cosa più preziosa che esso ha iniettato nella civiltà occidentale e sulla quale, a giusto titolo, ha molto insistito il vescovo Vincenzo Paglia. Ma, alla luce della teoria della tesi e dell’ipotesi, una teoria mai ufficialmente abbandonata dalla Chiesa, è più che legittimo chiedersi se la “chiamata di soccorso” rivolta al cristianesimo per rafforzare le difese morali dell’Occidente di fronte alla minaccia islamista non apra la strada a una ripresa dell’integralismo della Chiesa. 

Dopo tutto, non è passato neanche un secolo da quando Pio XI fece questa solenne dichiarazione, la cui franchezza rende superfluo ogni commento: “Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa”. 
E che, al fondo, la Chiesa cattolica non ha rinunciato alla pretesa di avere il monopolio della direzione intellettuale e morale dell’Europa, è confermato dall’omelia Pro eligendo romano pontefice pronunciata il 18 aprile 2005 da Joseph Ratzinger, nella quale si legge: “La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo al vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo, e così via […]. Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da ogni vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo, che non riconosce nulla di definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. 

Parole illuminanti, quelle di colui che si apprestava a salire sulla “Cattedra di Pietro”: il relativismo ridotto alla “dittatura delle voglie del singolo”, laddove esso è la base assiologica della civiltà dei diritti e delle libertà! La quale non ha assolutamente bisogno di un fondamento religioso; meno che mai di un fondamento teologico che si ispiri al Dio biblico, esclusivista e intollerante, che condanna come “figli di Satana” tutti coloro che non si sottomettono alla sua dispotica volontà. 
Non si può non essere d’accordo con Giovanni Reale, quando afferma che “sotto la proclamazione del pari valore di tutte le culture si cela un azzeramento dei valori”, vale a dire il nichilismo assiologico; ma ciò non legittima la sua tesi, secondo la quale, “tolto il concetto del Dio cristiano, si toglie eo ipso il concetto stesso di persona, preso nel suo pieno spessore ontologico”. Non si vede proprio perché mai il concetto di uomo come fine abbia bisogno di una base teologica su cui appoggiarsi. La dignità umana deve necessariamente essere fondata in un altro da sé? 

Non è stata forse proclamata, su basi rigorosamente laiche, sin dalla pubblicazione della splendida Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola?. E non è forse vero che i bisogni e i desideri dell’homo carnalis, quei bisogni e quei desideri che la civiltà moderna considera “naturali” e, precisamente per questo, pienamente legittimi, sono stati, per secoli e secoli, sistematicamente demonizzati e repressi da quella che Michel Onfray ha chiamato la “litania delle proibizioni”? 
Per rafforzare la sua tesi, Reale arriva a sottoscrivere il terroristico ammonimento di T. S. Eliot, secondo il quale “molti secoli di barbarie” ci attenderebbero se morisse il cristianesimo, poiché il cristianesimo è “tutta la nostra cultura”!. Non di questo avviso era Bonhoeffer, il quale non si è limitato ad affermare che “non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – etsi Deus non daretur”; ha anche così descritto l’Europa divenuta “adulta” grazie alla rivoluzione culturale attuata dall’Illuminismo: “L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti, senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro  ‘Dio’. 

Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte, l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza Dio, e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano Dio viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno”. I credenti hanno certamente il diritto che si riconosca il grande contributo che il cristianesimo ha dato alla costruzione della civiltà occidentale, non ultimo “la fatica disciplinata e incessante dei monaci che arrestò la marcia della barbarie nell’Europa occidentale e che rese di nuovo alla cultura terre che erano state abbandonate e spopolate al tempo delle invasioni”. 

E hanno anche il diritto che si riconosca che la morale cristiana, centrata sull’imperativo che “dobbiamo fare del bene al nostro prossimo per amore di Dio”, ha un ruolo altamente positivo in una società, come quella in cui viviamo, centrata sul mercato e dunque propensa a tutto sacrificare sull’altare di Mammona. Infine, hanno il diritto di sottolineare con forza che la speranza cristiana svolge una insostituibile funzione: quella di soddisfare il “bisogno di senso”, che urge, sia pure con diversa intensità, in tutti gli uomini. 

Ma, se vogliono essere onesti, devono riconoscere:
1) che, senza la battaglia condotta dagli illuministi contro il fanatismo e l’odio teologico, “si sarebbe continuato a bruciare eretici e torturare persone”;
2) che negli ultimi secoli i più importanti prodotti della cultura filosofica e scientifica poco o nulla devono alla tradizione cristiana;
3) che Bayle aveva ragione quando scriveva che “una società di atei si comporterebbe in maniera civile e morale proprio come qualsiasi altra società, purché facesse punire i delitti e annettesse onore o infamia a certe azioni”;
4) che è grazie alle istituzioni e ai valori della Città secolare che la micidiale carica di intolleranza contenuta nel Kerygma è stata disattivata;
5) che il cristianesimo non ha il monopolio della morale, dal momento che esiste una morale laica: la morale della ragione, della tolleranza e dei diritti inalienabili dell’uomo; infine,
6) che l’unico cristianesimo in armonia con lo spirito della Modernità è il cristianesimo liberale – il cristianesimo di Lord Acton e Maritain, di don Sturzo e De Gasperi –, che non fa il volto dell’arme ai valori dell’Illuminismo e vede nella laicità   “una garanzia per la religione”. 

Ma è proprio la Modernità che certi cristiani contestano frontalmente. Particolarmente istruttiva è la recente pubblicazione – firmata da quattro scienziati cattolici e un gesuita – nella quale si legge questo singolare apprezzamento della civiltà nata dalla emancipazione della società civile dalla tirannia spirituale del cristianesimo: 
 
“La Modernità, interamente fondata sull’emergenza storica della scienza, non vive che al livello del mito della scienza. Non è la razionalità né l’autonomia della coscienza individuale che pertanto la fonda, è l’esaltazione reattiva di una soggettività minacciata dalla omogeneizzazione della vita sociale.La Modernità non è la trasmutazione di tutti i valori, è la distruzione di tutti i valori antichi senza il loro superamento. Non c’è più né bene né male, ma non siamo per questo al di là del bene e del male. La Modernità non è la rivoluzione, anche se essa si articola su delle rivoluzioni (industriale, politica, rivoluzione dell’informazione, rivoluzione del benessere, ecc.). Essa è l’ombra della rivoluzione mancata, la sua parodia”. 
 
E’ appena il caso di sottolineare che il corollario logico di una tale grottesca lettura della civiltà dei diritti e delle libertà è che questa, essendosi sviluppata su basi rigorosamente laiche, è costitutivamente priva di una morale quale che sia.   

Non diversa la tesi avanzata, a metà degli anni Sessanta, dal costituzionalista cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo la quale “lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire”. Si tratta di una tesi estremamente insidiosa, in quanto – suggerendo che “soltanto la religione (cristiana), depositaria di tali presupposti normativi, è in grado di porvi rimedio” – propone quello che Bonhoeffer chiamava il “salto mortale all’indietro nel Medioevo”, cioè a dire la regressione storica dal principio (laico) della autonomia al principio (religioso) della eteronomia. 

Per la tradizione giudaico-cristiana, la Legge – esattamente come accade nella tradizione islamica – è la manifestazione della volontà di Dio: è una Legge rivelata, di fronte alla quale all’uomo non resta che sottomettersi, senza possibilità alcuna di metterla in discussione. Tant’è che San Giovanni Crisostomo non ha avuto esitazione alcuna a formulare il seguente teorema: “Quello che è fatto per volontà di Dio è ottimo anche se può sembrare malvagio; al contrario ciò che è fatto contro la volontà di Dio e gli dispiace, anche se viene giudicato ottimo, è invece pessimo e iniquo. Perciò, se qualcuno uccide un uomo, perché così vuole Dio, commette un omicidio che è meglio di qualsiasi atto di carità; e, ancora, se qualcuno risparmia un uomo, e lo tratta con indulgenza contro il volere di Dio, questa bontà è più criminale di un omicidio. Non è la natura dei fatti che rende le azioni buone o cattive, ma la volontà del Signore”. 
 
Radicalmente altra è la concezione laica delle leggi e dei valori morali che le ispirano. Essi sono il prodotto di un permanente dialogo fra una pluralità di soggetti, individui e gruppi organizzati, che si svolge in uno spazio pubblico nel quale sono garantite le libertà fondamentali, ivi compresa la libertà religiosa. 
 
La più preziosa eredità che ci ha lasciato il secolo dei Lumi è il principio del “pubblico uso della ragione in tutti i campi”, che postula la “libertà in tutto, in religione, in filosofia, in letteratura, in industria, in politica”: un principio cui non si può rinunciare senza regredire verso la barbarie della spietata caccia agli eretici, che l’Europa ha conosciuto quando non era sottomessa alla “dittatura del relativismo”; un principio che “si è trasferito nei fatti, è penetrato nelle nostre istituzioni e nei nostri costumi, si è unito a tutti gli aspetti della nostra vita” a tal punto che, qualora fosse abolito, “dovremmo cambiare d’un colpo tutta la nostra organizzazione morale”. 

Ma è proprio la cultura illuministica che la Chiesa cattolica, ancora oggi, considera il nemico da combattere. Ciò risulta con estrema chiarezza dalla lettura del libro-intervista Varcare la soglia della speranza, nel quale Giovanni Paolo II ha indicato nella “svolta antropocentrica della filosofia” la prima tappa verso il “processo di allontanamento dal Dio dei Padri, dal Dio di Gesù Cristo, dal Vangelo”. Iniziata da Cartesio e portata alle sue logiche conseguenze dagli illuministi, tale svolta ha colpito al “cuore tutta la soteriologia cristiana, cioè la riflessione teologica sulla salvezza, la dottrina evangelica sulla redenzione […]. 

Per la mentalità illuministica, il mondo non ha bisogno dell’amore di Dio. Il mondo è autosufficiente. E Dio, a sua volta, non è innanzitutto Amore. Semmai è Intelletto. Intelletto che eternamente conosce. Nessuno ha bisogno del suo intervento nel mondo che esiste, che è autosufficiente, trasparente alla conoscenza umana, grazie alla ricerca scientifica sempre più libero dai misteri, sempre più sottomesso all’uomo come inesauribile miniera di materie prime, all’uomo-demiurgo della moderna tecnica […]. Un mondo che appare come un grande cantiere di conoscenze elaborate dall’uomo, come progresso e civiltà, come moderno sistema di mezzi di comunicazione, come ordinamento di libertà democratiche senza alcuna limitazione”. 

E’ accaduto così che l’uomo emancipato dalla fede ha preteso di “vivere lasciandosi guidare esclusivamente dalla propria ragione, così come se Dio non esistesse, come se Dio si disinteressasse del mondo”. Di qui il rifiuto della “realtà del peccato e, in particolare, […] del peccato originale”; di qui l’edonismo e la ricerca della felicità sulla terra: una ricerca illusoria, poiché “questo mondo non è in grado di rendere felice l’uomo”.  Effettivamente, la rivoluzione culturale operata dall’Illuminismo ha posto fine all’“età della fede”, centrata sul dominio assoluto e incontrastato di Gerusalemme e sull’onnipresenza di “un Dio Poliziotto”, e, precisamente per questo, il cristianesimo ha cessato di essere il Grande Canone dell’Europa. 

Del tutto logico, pertanto, che sia stata respinta la richiesta che nel futuro Trattato costituzionale dell’Unione Europea fossero ricordate le radici cristiane della civiltà occidentale. L’Europa ormai è una realtà “meticcia”, nella quale sono, sì, presenti e operanti i valori cristiani; ma sono altresì presenti e operanti quei valori denunciati da Giovanni Paolo II come anti-cristiani. E sono questi ultimi – la ragione critica, la libertà d’errore, la religione come scelta individuale, la ricerca della felicità su questa terra, ecc. – che fanno aggio sui primi. D’altra parte, se le radici cristiane fossero state formalmente ricordate nella Costituzione europea, “sarebbe stata sancita la suddivisione dei cittadini in due categorie: quelli di prima categoria che credono a Dio come fonte di tutte le virtù, e quelli di seconda categoria, che sono pronti soltanto a rispettare tali valori universali”. 

Una suddivisione improponibile in una Europa divenuta, a motivo della invasione pacifica del “proletariato esterno”, una società multireligiosa, ove si contano a milioni coloro che non si identificano con il cristianesimo. Il che, poi, significa che il cristianesimo, nella Città secolare, è una tradizione fra tante altre tradizioni che convivono pacificamente grazie alle istituzioni dello Stato laico-liberale. Il quale non è punto quello che pensava Augusto Del Noce, cioè lo Stato che tollera a malapena la religione e “l’avversa e lentamente la spegne, anche senza avere bisogno di ricorrere a persecuzioni dirette”. 

Lo Stato nato dalla “rivoluzione della società civile” non va confuso – come ha fatto Etienne Gilson – con lo Stato ateista, quale fu lo Stato marx-leninista, sprofondato nel nulla storico con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. E’ un regime politico che riconosce e tutela la più ampia libertà religiosa; e lo fa sulla base di un codice etico che scaturisce da quella “dittatura del relativismo” che la Chiesa, in nome della Verità rivelata, ancora oggi condanna e avversa.   

Sul punto, Hans Kelsen ha scritto pagine che conviene ricordare ai nostalgici dei “valori forti”, i quali sembrano aver dimenticato che “il contrario di relativismo è assolutismo” e che, fra l’assolutismo e il fondamentalismo, il passo è assai breve. “Da quando esiste la filosofia, – questo l’ incipit del saggio Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica – esiste il tentativo di metterla in relazione con la politica, e questo tentativo ha portato oggi a riconoscere come un luogo comune il concetto che teoria e politica, e quella parte della filosofia che chiamiamo etica, siano intimamente connesse. Ma par strano assumere l’esistenza di un parallelismo esterno, o forse anche una relazione assai profonda, fra la politica e le branche della filosofia, come ad esempio l’epistemologia, la teoria della conoscenza e la teoria dei valori. 

E’ proprio all’interno di queste due teorie che l’antagonismo fra assolutismo filosofico e relativismo ha la sua sede, e questo antagonismo sembra essere, per molti aspetti, analogo all’opposizione fondamentale fra autocrazia e democrazia come a quella tra sostenitori, da un lato, dell’assolutismo politico e, dall’altro, del relativismo”. E così prosegue: “L’assolutismo filosofico è il riconoscimento di una realtà assoluta, di una realtà, cioè, che esiste indipendentemente dall’umana conoscenza, la cui esistenza è obbiettiva e non limitata nello e oltre lo spazio e il tempo, cui la conoscenza umana è riservata. Il relativismo filosofico, dall’altro alto, sostiene la dottrina empirica per cui la realtà esiste solo all’interno della conoscenza umana e, quale oggetto di conoscenza, è relativa al soggetto conoscente. 

L’assoluto, la cosa in sé, è oltre l’umana esperienza; essa è inaccessibile alla nostra conoscenza e perciò inconoscibile”. Ora, dal momento che “all’ammissione dell’essere assoluto corrisponde la possibilità della verità assoluta e dei valori assoluti”, la “personificazione dell’assoluto, la sua raffigurazione come l’onnipotente creatore dell’universo la cui volontà è legge della natura, così come dell’uomo, è l’inevitabile destino dell’assolutismo filosofico. La sua metafisica mostra una tendenza irresistibile al monoteismo religioso”. 
Tale tendenza “conduce irresistibilmente e ha sempre condotto a una situazione in cui chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto proclama il diritto di imporre la sua opinione, come la sua volontà, agli altri che sono nell’errore”; conduce, in altre parole, all’assolutismo politico, che è il sistema di dominio nel quale è tollerata una sola dottrina: quella, per l’appunto, che proclama di essere la verità assoluta, di fronte alla quale tutte le altre non possono che apparire come errori da combattere o, addirittura, come aberrazioni intellettuali e morali. 

La conclusione cui perviene Kelsen – una conclusione confermata puntualmente dalla storia, testimone imparziale – è che l’unico antidoto contro le tendenze autoritarie e totalitarie dell‘assolutismo filosofico (o religioso) è il relativismo, il quale, coerentemente alla sua modestia epistemologica, concepisce lo Stato come l’armatura giuridica, munita di coazione fisica, che garantisce quei valori – tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e libertà di pensiero – “che non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede in valori assoluti”. Relativismo, quindi, significa, in primo luogo, rifiuto dell’assolutismo filosofico (o religioso) che porta all’assolutismo politico; in secondo luogo, riconoscimento del “politeismo dei valori”, che richiede la vigenza di regole atte a garantire “la pacifica coesistenza, resa possibile dalla tolleranza, fra gruppi di persone con storie, culture e identità diverse”. 

Queste regole sono quelle dello Stato laico-liberale. Il quale, lungi dall’essere un regime politico senza radici morali, è l’istituzionalizzazione di un preciso codice etico, centrato sull’idea che ogni individuo è il titolare di un pacchetto di diritti,  il diritto d’errore  in primo luogo,  che nessuna autorità può calpestare. Certamente, esso non è la soluzione dei tanti problemi che travagliano il mondo attuale; ma, altrettanto certamente, la fuoriuscita dal suo quadro istituzionale e assiologico spingerebbe l’Europa verso una spaventosa regressione storica.  >>

LUCIANO PELLICANI

domenica 17 aprile 2011

La lunga marcia (alle radici dell'Europa) - 1

Si è molto discusso sulla pretesa della Chiesa Cattolica di considerare le cosiddette Radici Cristiane tra gli elementi fondanti della Comunità Europea, una pretesa che molti, giustamente, considerano errata.
Di questa opinione è, per esempio, il sociologo italiano Luciano Pellicani, che in questo bellissimo testo, tratto dal suo libro “Le radici pagane dell'Europa”, ci racconta la Lunga Marcia percorsa dalla laicità europea per liberarsi dalle (pesanti) catene del pensiero religioso.
LUMEN


<< Contrariamente a quello che pensava Talcott Parsons, il passaggio, per tappe successive, dalla Città sacra alla Città secolare non è stato “uno sviluppo autenticamente cristiano”, bensì un progressivo distacco dal Grande Canone che, a partire dal IV secolo, aveva regolato l’esistenza storica della civiltà occidentale. Tale distacco è stato consumato in nome della ragione e dei diritti dell’homo naturalis, primo fra tutti quello che Popper ha chiamato il “diritto d’errore”. 

Ora, se si tiene presente che proprio il “diritto d’errore” fu stigmatizzato dal “dottore dei dottori” – Agostino di Ippona – come la “peste dell’anima” e la “libertà di perdizione”, non può destare sorpresa alcuna che la storia del cristianesimo sia stata la storia della lotta, condotta con tutti i mezzi e in tutti i modi, contro l’eresia   sulla base del seguente atto di fede: “C’è una verità, rivelata da Dio agli uomini, scritta nell’Evangelio, garantita dai miracoli e che, essendo perfetta perché divina, è immutabile: se variasse, non sarebbe più la verità. L’ufficio della Chiesa è di esserne la custode […] e l’individuo deve conformarsi a questa verità unica e immutabile, perché se ognuno si avvisasse di possedere la propria verità, si cadrebbe nel caos, nell’assurdo, giacché è evidente che su uno stesso soggetto non possono esserci milioni di verità, o mille, o cento, o dieci, o due, ma una sola”. 

Conseguenza: “Eretico – le parole sono di Bossuet – è colui che ha un’opinione: come indica la parola stessa. E che significa avere un’opinione? Significa seguire il proprio pensiero e il proprio sentimento particolare. Ma il cattolico è cattolico, ossia, è universale; e senza avere un pensiero particolare, segue quello della Chiesa”. Difficile immaginare un’opposizione più radicale di quella fra l’Europa pre-illuministica, plasmata dal cristianesimo, e l’Europa moderna, formatasi a seguito del processo di secolarizzazione che ha drasticamente ridotto il regno del sacro. 

Ciò che per la prima era la “figlia di Satana”,  l’eresia, per la seconda è il valore dei valori. Senza l’istituzionalizzazione del diritto all’errore, la Modernità, la civiltà dei diritti e delle libertà, non avrebbe mai e poi mai potuto affermarsi. E tale istituzionalizzazione non è stata – come tanti studiosi, suggestionati da una infelice ipotesi di Weber, continuano a pensare – la conseguenza oggettiva della metamorfosi endogena del cristianesimo. Il passaggio, per slittamenti progressivi, da Gerusalemme ad Atene non è neanche immaginabile. Sono, il “mondo della fede” e il “mondo della ragione”, due universi simbolici retti da principi e valori antinomici; e lo sono a tal punto da indurre Kant a confessare di aver “dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede”. 

Del resto, non è certo un caso che la Chiesa cattolica ha opposto un’accanita resistenza al processo di secolarizzazione, nel quale ha visto la rivincita del paganesimo o, addirittura, un progetto satanico, teso ad estirpare la fede dal cuore degli uomini e a spingere l’Europa tutta verso l’empietà. Donde la condanna, continuamente rinnovata per generazioni e generazioni, di tutti i principi costitutivi della civiltà moderna. Nel 1791, Pio VI, con Quod aliquantum, respinse “la detestabile filosofia dei diritti umani”, quindi “tutte le forme di un sapere critico, tutte le istituzioni nate per garantire le moderne libertà”. 

Quarant’anni dopo Gregorio XVI, nella enciclica Mirari vos, non solo condannò ufficialmente le tesi del promotore del liberalismo cattolico F. R. de Lamennais, ma si spinse sino a definire “delirio” l’idea che si dovesse “sostenere e garantire a tutti la libertà di coscienza”. La ripulsa di tutto ciò che era connesso al processo di secolarizzazione fu ribadita nel 1864 con la pubblicazione del   Syllabus errororum, nel quale Pio IX giudicò inaccettabile la richiesta che il Papa potesse e dovesse “riconciliarsi e transigere con il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna”. 

La dichiarazione di guerra contro la Modernità contenuta nel Sillabo – anche nella interpretazione attenuata della “Civiltà Cattolica”, basata sulla distinzione fra la tesi e l’ipotesi – non poteva che accelerare quella che Küng ha chiamato la “marcia della Chiesa cattolica verso un ghetto culturale”. Tanto più che Pio X, pubblicando nel 1907 l’enciclica Pascendi – in cui il modernismo veniva stigmatizzato quale “sintesi di tutte le eresie” –, legittimò la posizione dei “cattolici integrali”, per i quali “il mondo contemporaneo mostrava con i fenomeni di scristianizzazione, secolarizzazione e laicismo di essere totalmente in preda al Demonio, sicché, anziché cercare una apertura verso di esso, occorreva approfondire la separazione della Chiesa dalla storia, dal momento che, fuori di essa, non vi poteva essere vera civiltà, autentica cultura, valori morali e anche semplice onestà umana.

Perciò non solo la Chiesa doveva essere autosufficiente – in particolare rafforzando la sua gerarchizzazione interna e l’autorità del clero sul laicato –, ma il tentativo di settori cattolici di adeguarla ai tempi moderni rivelava semplicemente il loro tradimento, la loro acquisizione, più o meno consapevole, alla congiura diabolica in atto nella storia, che era diretta a privarla del suo potere sul mondo. 
Solo negli ultimi decenni la Chiesa ha attenuato la sua vocazione integralista sino a dichiarare che essa “si impegna per la tolleranza”. Del resto, per evitare di diventare un fossile storico, non aveva altro rimedio che quello di uscire dal ridotto nel quale si era chiusa e aprirsi alle esigenze fatte valere dai modernisti e dai cattolici liberali, i quali sinceramente aspiravano a conciliare la tradizione cristiana con il mondo moderno. Un mondo sempre più caratterizzato dalla potenza espansiva della secolarizzazione che ha alimentato una individualizzazione senza precedenti della vita e, conseguentemente, una riduzione della presa, sulle coscienze, delle istituzioni ierocratiche. 

Nell’Europa cristiana, saturata di sacro, “l’uomo si sentiva sostenuto e confortato, dall’infanzia alla vecchiaia, dalle strutture fondate in maniera religiosa: a partire da quelle della vita familiare e della residenza fino a quelle della politica, dello Stato e della Chiesa, passano attraverso quelle del lavoro e delle feste. E proprio le chiese, con i loro modelli interpretativi e forme di vita, plasmavano la vita quotidiana dell’uomo”. In un tale contesto, grande e determinante era il ruolo della religione e delle istituzioni ierocratiche. 

La situazione storica è radicalmente cambiata con l’avanzata della secolarizzazione, che ha portato all’“eclissi del sacro”: una situazione caratterizzata dal fatto che “coloro stessi che credono di essere sinceramente religiosi non hanno, per lo più, della religione, che un’idea assai indebolita; essa non ha nessuna influenza effettiva sul loro pensiero né sul loro modo di agire; è come separata da tutto il resto della loro esistenza”. E’ accaduto che – a partire dal momento in cui quello che Dietrich Bonhoeffer chiamava il principio medievale della “eteronomia in forma di clericalismo” è stato progressivamente sostituito dal “principio dell’autonomia” – l’azione elettiva, valore centrale della civiltà moderna, ha preso a scalzare l’azione prescrittiva e ciò ha determinato il passaggio dal “religioso per tradizione” al “religioso per scelta” che ha fatto emergere l’inedita figura del “credente autonomo”. 

E questo perché la Modernità “è un gigantesco spostamento dal destino alla scelta nella condizione umana”, talché l’uomo della Città disincantata è divenuto – giusta la bella immagine di Ortega y Gasset – il “romanziere di se stesso”. Liberato dal paralizzante controllo delle istituzioni ierocratiche, egli rivendica il diritto di elaborare il suo personale progetto di vita: una situazione diametralmente opposta a quella della Cristianità medievale, nella quale la realtà era immediatamente “sentita e pensata come religiosa” a tal punto che, a rigore, “non vi poteva essere nulla di profano”; sicché il sacro dominava, incontrastato, su tutto e tutti e, precisamente per questo, l’individuo era completamente assoggettato ai comandi divini così come erano fissati dalla Chiesa, dai quali non poteva deviare senza incorrere in una severa sanzione. 

La vittoria di Atene su Gerusalemme – una vittoria scaturita da quella che Rudolf Bultmann ha descritto come “la lotta moderna per la libertà, che fu anzitutto una lotta per la libertà dall’autorità ecclesiastica” – ha portato ad un restringimento della sfera del sacro di tali proporzioni da indurre alcuni studiosi a parlare di fine della Cristianità o, addirittura, di fine del cristianesimo. Pochi dati sono sufficienti per evidenziare le dimensioni dell’impressionante declino della fede in Europa. 

Negli ultimi trent’anni, il numero dei consacrati – sacerdoti, monaci, monache – si è dimezzato e la loro età media si aggira intorno ai sessant’anni. L’Azione cattolica ha perso un milione di soci e i trecentomila membri attuali sono in prevalenza ragazzini o bambini iscritti dai genitori. Ad Amsterdam, dove il paradigma della crisi è più evidente, molte sono le chiese diventate magazzini o cinema porno. 

Nella provincia francese è ormai impossibile andare a messa senza ricorrere all’automobile, poiché sul posto si trovano solo parrocchie sbarrate o abbandonate. La domenica, a Parigi, se il tempo è bello, coloro che si recano in chiesa per la santa messa non superano il 3% della popolazione. Secondo un sondaggio Csa del marzo 1997, il 51% dei giovani francesi non crede in Dio e il 67% ritiene che il cattolicesimo non è adatto al mondo moderno; in aggiunta, solo il 12% prega e appena il 2% si confessa! 

Di fronte a questi dati, si capisce perché Joseph Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, abbia definito l’Europa una “terra di missione”, vale a dire un Continente da ri-convertire. E si capisce, altresì, perché i redattori di Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul “New Age” si siano così espressi: “Visto che né la fede nella creazione, né la fede nella resurrezione di Cristo sono presenti nella maggioranza dei Francesi, è d’uopo concludere che non hanno più idea di ciò che è, e potrebbe essere, la fede in un Dio trascendente. In altri termini, la maggioranza dei Francesi si trova ormai al di fuori della tradizione ebraico-cristiana, del monoteismo. 

Non c’è nessuna via di mezzo: se non procedono più dal monoteismo, significa che procedono da una forma di paganesimo”. In effetti, pagana è l’idea della pluralità delle “lingue di Dio”, pagana l’idea della piena sovranità della ragione e pagana l’idea che non ci sia altra realtà che questo mondo. E tali idee, oggi, dominano la scena a tal punto che, “nel seno delle società cristiane occidentali, si è operata come una cesura nella trasmissione da una generazione all’altra di tutto un insieme di nozioni, di idee e di valori”; il che ha prodotto “una brutale cancellazione della cultura religiosa”, cui ha fatto seguito una silenziosa rivoluzione culturale sotto il segno di quei valori che il cristianesimo ha sempre stigmatizzato come pagani. Di qui il fenomeno della “progressiva perdita di rilievo pubblico della religione: le grandi decisioni in campo politico, sociale, economico, culturale sono sempre più prese senza tenere conto della religione”. 

Nulla, pertanto, è più lontano dalla realtà dell’idea che sia alle viste il “ritorno del religioso” o, addirittura, la “rivincita di Dio”. Ciò che si registra sulla scena europea è il tentativo di rinvenire nel cristianesimo una sorta di “supplemento morale” per contrastare efficacemente la dichiarazione di guerra contro la civiltà occidentale lanciata dal fondamentalismo islamico. Un’operazione schiettamente politica, di fronte alla quale gli stessi credenti hanno reagito negativamente, scorgendo in essa il rischio di trasformare il cristianesimo in un instrumentum regni.

In effetti, sono facilmente immaginabili i pericoli, per la fede, che possono emergere dalla trasformazione del cristianesimo in una religione civile. “Se – ha osservato a questo proposito Giovanni Ferretti – per un verso la fede, e più in concretamente la comunità dei credenti, può e deve offrire un effettivo e gratuito servizio alla comunità degli uomini, per altro verso ciò può portare il cristianesimo storico ad appiattirsi nella sua funzione di supporto alla società civile, così che questa si autocomprende di fatto alla luce dei valori cui si ispira, perdendo così la sua caratteristica propria di essere testimonianza escatologica di un modo diverso da quello attuale e quindi costante riserva cristiana nei confronti dello status quo mondano”. 

Non meno gravi sono i pericoli, per i valori assiali della Città secolare, connessi alla proposta – avanzata da Marcello Pera   – di riportare al centro della scena pubblica il cristianesimo con l’argomento che “le nostre libertà e il nostro stesso liberalismo dipendono (sono derivati, legati, connessi) dal cristianesimo”: un argomento frontalmente e massicciamente contraddetto da tutta la storia della civiltà moderna, la quale è stata la storia della progressiva emancipazione della società dalla dittatura spirituale del cristianesimo e delle sue istituzioni. 

Giustamente, perciò, Vincenzo Ferrone ha energicamente polemizzato contro la “fantomatica […] idea di una primogenitura del cristianesimo rispetto ai diritti dell’uomo, al principio democratico e all’idea stessa di libertà in Occidente”. 

Tale primogenitura – esplicitamente rivendicata da Ratzinger – costituisce una distorsione ideologica della realtà le cui motivazioni sono assai chiare: dopo aver accanitamente combattuto la “libertà dei moderni”, percepita come la source della miscredenza, la Chiesa, non potendo più arrestare il dilagare dell’individualismo, ne rivendica la maternità; e avalla altresì l’idea che la laicità non sia nata fuori, o contro, ma dentro il mondo cristiano: una tesi completamente arbitraria, poiché, se c’è stata una cosa che la Chiesa ha sempre avversato, è stata proprio la libertà di credere e la conseguente separazione fra lo Stato e la religione; e lo ha fatto in coerenza con uno dei principi fondamentali del cristianesimo, secondo il quale “tutto ciò che non è di Dio è di Satana”; un principio da cui Sant’Agostino estrasse il corollario che la repressione dei diversamente pensanti era un sacrosanto dovere della Chiesa così argomentando: “Qualunque cosa faccia una madre vera e legittima, anche se quello che fa sa di aspro e di amaro, essa non rende mai male per male ; espellendo il male dell’iniquità, essa offre la dottrina salutare, non mossa mai da odioso desiderio di nuocere, ma dal benigno desiderio di sanare”.  >>

LUCIANO PELLICANI

(continua)