venerdì 31 dicembre 2021

Un caso letterario – 1

Il pezzo di oggi è opera dell'amico Sergio Pastore, che ringrazio, ed è dedicato ad un romanzo dello scrittore spagnolo Leopoldo Alas Clarin, “La Presidentessa”, tanto famoso in patria, quanto poco conosciuto all'estero.

Anche chi non ha letto il libro, però, potrà apprezzare le considerazioni ed i commenti di Sergio. Il testo è stato suddiviso in 2 parti, per comodità di lettura.

LUMEN


<< La Presidentessa (in spagnolo La Regenta) – il capolavoro di Leopoldo Alas «Clarín» (1852-1901) - è uno dei grandi romanzi dell’Ottocento praticamente sconosciuto in Italia. Anzi la maggior parte degli italiani, se si eccettuano gli ispanisti, non conosce nemmeno il nome dell’autore.

Ma l’opera di Leopoldo Alas «Clarín» è rimasta a lungo ignota anche in altri paesi europei come la Francia e la Germania, basti pensare che la traduzione tedesca e francese è stata fatta solo recentemente, una ventina d’anni fa, a circa un secolo dalla pubblicazione avvenuta nel 1854-55. E il romanzo non è attualmente in commercio in italiano, segno che non è richiesto.

Del resto anch’io ho appreso dell’esistenza dell’autore e della sua opera per caso. L’ispanista e francesista Gerhold Hilty tenne infatti un corso su Clarín all’università di Zurigo negli anni Sessanta che io frequentai. Altrimenti quasi sicuramente non avrei mai letto quest’opera che è diventata una delle mie preferite e che non esito a mettere accanto a Guerra e Pace e ad Anna Karenina, i romanzi dell’Ottocento che mi sono più cari. Come si spiega che Clarín sia stato così a lungo ignorato e continui ad esserlo fuori della Spagna?

Fredda accoglienza in patria, critiche e oblio

Oggi Leopoldo Alas Clarín, docente di diritto, scrittore e critico letterario (Clarín ‘clarino, clarinettista’ è un soprannome datogli per la sua attività di polemico e vivace critico letterario) è riconosciuto come uno dei grandi scrittori e narratori spagnoli, alla pari di Benito Pérez Galdós, il Balzac spagnolo. Galdós, suo contemporaneo, fu per altro un estimatore de La Presidentessa. Ma l’accoglienza fu in generale fredda e l’autore fu accusato persino di plagio: avrebbe copiato Madame Bovary di Flaubert, un’accusa ridicola.

Ma le ragioni del rifiuto dell’opera di Clarín sono da ricercare nel ritratto impietoso di una città di provincia spagnola, Oviedo, e della società spagnola dell’epoca. Clarín pubblicò il suo capolavoro ad appena 32 anni. Il libro può leggersi come un feroce libello anticlericale, ciò che per la società dell’epoca era inaccettabile. Il vescovo di Oviedo (Vetusta nel romanzo) lanciò i suoi strali verso Clarín.

Effettivamente l’immagine della Chiesa e dei suoi funzionari è devastante. Il protagonista, il canonico Fermín de Pas, è un carrierista (mira al vescovato), un uomo d’affari (gestisce con la madre un negozio di arredi sacri e non si perita di far fallire un concorrente) e un peccatore (vagheggia la Presidentessa e va regolarmente a letto con la domestica, sotto gli sguardi benevoli della madre, e non si fa scrupoli di cogliere altre casuali occasioni).

Clarín un anticlericale? Nient’affatto. Era giovane, ma aveva osservato bene i suoi concittadini e la vita di Oviedo e aveva capito tutto. E li ha realistamente descritti. Il romanzo è un grande affresco della città e di un’epoca, brulicante di personaggi (qualcuno ne ha contati centoquarantanove!). Non è solo la storia di amori e seduzioni, anche se la vicenda della Presidentessa ne costituisce il nucleo.

Ana Ozores, la Presidentessa

È una donna di provincia maritata a un simpatico anziano che la trascura, sia per l’età che per i suoi altri interessi (legge i classici e va a caccia). Ana Ozores gode dell’incondizionata ammirazione della cittadina ed è considerata da tutti – persino dai soci del circolo ateo – una donna avvenente e rispettabilissima e una rocca inespugnabile. Ma un fatuo dongiovanni del circolo, Álvaro Mesías, si propone di sedurla, quasi per scommessa.

Su Ana ha però gettato un occhio anche don Fermín de Pas, suo confessore e padre spirituale, che cercherà di farla sua sfruttando la sua posizione. Abbiamo dunque non un terzetto, ma un quartetto: Ana, Fermín, Mesías e Quintanar, il Presidente e marito di Ana. E sarà proprio Mesías a conquistarla, per la disperazione del prete. C’è anche un finale tragico, perché Quintanar sfiderà a duello Mesías dopo aver scoperto la tresca e rimarrà ucciso.

La lunga opera di seduzione dei due concorrenti è sicuramente interessante, ma La Presidentessa è molto di più dell’ennesima storia di amore e di sesso di cui sono intessuti secondo Tolstoi tutti i romanzi (che sono per questo immorali). È un grande affresco di Oviedo e della società spagnola dell’Ottocento pieno d’ironia e grande acume, anche molto divertente.

L’accusa di plagio

Tutti conoscono Madame Bovary e quasi nessuno Ana Ozores ovvero La Presidentessa. Confesso di non ammirare per niente Madame Bovary e non ho mai capito il successo di questo cosiddetto capolavoro di Flaubert. La Bovary è una sciocca provinciale che sogna l’amore e la bella vita e fa le corna al marito, il dottor Bovary, un uomo forse noioso e banale ma che pur sempre la mantiene. Le delusioni la porteranno al suicidio, una morte atroce col veleno per topi. Si racconta che Flaubert dicesse “Madame Bovary, c’est moi” (sono io Madame Bovary). Che un uomo così intelligente s’immedesimmase a tal punto in un personaggio così sciocco come Madame Bovary mi sconcerta.

Ana Ozores è anch’essa una provinciale non particolarmente interessante a parte la bellezza e l’irreprensibilità. Aspira anche lei a un vita diversa, vorrebbe anche lei evadere dall’atmosfera soffocante di un ambiente come Vetusta. L’anziano marito Quintanar la trascura: a letto preferisce esaltarsi leggendo i drammi classici spagnoli, mentre la moglie è presa regolarmente da attacchi isterici!

Le si apre una via di salvezza nel misticismo, fomentato dal canonico che le passa le opere di Santa Teresa, ma Ana ha bisogno di altro (e il prete osserva irritato, col binocolo dal campanile della chiesa, come Ana abbandoni annoiata la lettura del libro che le ha raccomandato …).

Comunque tra le due opere – Madame Bovary e La Regenta – c’è un abisso. Non credo proprio che Clarín si sia ispirato, abbia avuto bisogno d’ispirarsi alla vicenda della Bovary. L’amore e gli amori contrastati sono stati i motivi di così tanti romanzi dell’Ottocento, sono motivi universali. >>

SERGIO PASTORE

(segue)

venerdì 24 dicembre 2021

Scontro fra Elites

Per chi segue la teoria 'elitista' (come me) è pacifico che siano sempre le elites a guidare le società umane; non è però scontato che si tratti sempre di gruppi coesi, essendo possibile che si creino dei contrasti tra le loro diverse componenti.

Così per esempio, secondo alcuni, sarebbe attualmente in corso un contrasto molto serrato tra le elites globaliste e quelle nazionaliste.

A questa ipotesi è dedicato il post di oggi, tratto da un più lungo articolo di 'Liberiamo l'Italia' per il sito di Sollevazione.

LUMEN



<< Con il crollo dell’Unione Sovietica, l’élite americana (sia neo-con che clintoniana) scatenò un’offensiva a tutto campo per trasformare l’indiscussa preminenza degli U.S.A. nei diversi campi — economico, finanziario, militare, scientifico, culturale — in supremazia geopolitica assoluta. L’offensiva si risolse in un fiasco. Invece del nuovo ordine monopolare, sorse un disordinato e instabile multilateralismo.

La grande recessione economica che colpì l’Occidente, innescata dal disastro finanziario americano del 2006-2008, fu un punto di svolta dalle molteplici conseguenze.

Indichiamo le principali: (1) il “capitalismo casinò” — contraddistinto dalla centralità della finanzia predatoria: accumulazione di denaro attraverso denaro saltando la fase della produzione di merci e di valore — dimostrava di essere una mina vagante per il sistema capitalistico mondiale; (2) il modello economico neoliberista, quello che aveva consentito la metastasi della iper-finanziarizzazione, esauriva la sua spinta propulsiva ; (3) la globalizzazione liberoscambista a guida americana giungeva al capolinea sostituita da una “regionalizzazione” delle relazioni economiche mondiali e dalla rinascita di politiche protezionistiche; (4) la Cina, uscita dallo sconquasso come principale motore del ciclo economico mondiale, occupava il ruolo di nuovo alfiere della globalizzazione; (5) una profonda scissione maturava in senso alle élite occidentali: la crisi di egemonia delle frazioni mondialiste alimentava il fenomeno del populismo. Così ci spieghiamo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, l’avanzata dirompente di nuove forze politiche “sovraniste” in diversi paesi europei (Italia in primis), la Brexit.

Le élite mondialiste non si arresero, prepararono una controffensiva su larga scala. Raccolti attorno al World Economic Forum e ad altri think tank, guru visionari e falangi di intellettuali ispirarono all’élite un piano strategico di contrattacco.

Il piano prese forma: (1) riprendere prima possibile le postazioni governative e istituzionali in mano agli avversari ad ai populisti; (2) riconquistare egemonia etico-politica e il consenso perduti con una nuova e penetrante narrazione ideologica ultra-progressista: l’idea di una svolta di civiltà grazie alla potenza della scienza e della tecnica; (3) spingere fino alle estreme conseguenze la radicale trasformazione sistemica interna già in atto grazie alla “Quarta Rivoluzione Industriale” ed alla digitalizzazione della vita; (4) proporre una nuova versione consociativa non conflittiva della globalizzazione, non più basata sulla preminenza americana e liberata dalla metastasi della iper-finanziarizzazione; (5) per spianare la strada ad una simile palingenesi, vincere le resistenze e far accettare a grandi masse il salto nel buio della nuova civiltà tecnocratica e cibernetica, occorreva tuttavia un evento traumatico globale, occorreva “il grande reset”.

La pandemia influenzale Sars-CoV-2 è stata, per l’establishment mondialista occidentale, provvidenziale. Una volta spacciata come una catastrofe epocale — “Siamo in guerra, nulla sarà come prima” —, seminati terrore e paura, la pandemia è stata utilizzata come uno rullo compressore per spianare la strada all’ambizioso piano strategico.

L’Operazione Covid ottiene presto un doppio e grande successo. Negli U.S.A. l’élite neo-globalista, pur grazie ad un blocco alquanto eterogeneo, riesce a cacciare Trump ed a riconquistare la Casa Bianca. In seno all’Unione Europea, addomesticati i populisti e costruita una coalizione ancor più eterogenea, un corifeo della confraternita mondialista come Mario Draghi diviene addirittura Presidente del consiglio. (...)

Il “Grande reset” anticipa e spiana la strada a questo nuovo stadio del sistema capitalistico. Si deve parlare di passaggio da uno stadio ad un altro ove si tratti non di mutamenti epidermici ma di avvento di un nuovo modello sociale: diversa divisione del lavoro, diversa composizione delle classi, diversi blocchi sociali, diversa ideologia, diversi assetti statuali, diversi equilibri geopolitici.

Quando dunque, dal conflitto in seno ai dominanti, emerge come egemone la frazione che meglio asseconda le forze oggettive e intrinseche del mutamento.

Il capitalismo, per sua stessa natura, è un sistema condannato a crisi economiche ricorrenti. Esso ha tuttavia mostrato una straordinaria capacità di superare anche quelle più catastrofiche che si rivelano dunque come fasi necessarie di ristrutturazione, rilancio e trapasso da un assetto sistemico ad un altro.

La tesi secondo la quale il capitalismo avrebbe definitivamente cessato di sviluppare le forze produttive, si è dimostrata, ad oggi, priva di fondamento. Esso, proprio per superare le crisi, deve invece sviluppare le forze produttive anche grazie alle innovazioni scientifiche e tecniche. Abbiamo infatti che ogni rivoluzione industriale è stata concausa di relative trasformazioni sistemiche.

La “Quarta Rivoluzione Industriale” (digitalizzazione dispiegata, intelligenza artificiale, internet delle cose) scatena forze potenti destinate a riplasmare in tempi brevi l’intero sistema sociale. Cyber-capitalismo è il nome che diamo a questo nuovo stadio evolutivo del sistema capitalistico. >>

LIBERIAMO L'ITALIA

giovedì 16 dicembre 2021

Il piacere della Poesia

Questo post è dedicato alla poesia ed al piacere impareggiabile che essa ci regala quando leggiamo dei versi che ci toccano nel cuore.
Diceva Goethe che: “Si dovrebbe, almeno ogni giorno, ascoltare qualche canzone, leggere una bella poesia, vedere un bel quadro, e, se possibile, dire qualche parola ragionevole.”
E, come precisava la scrittrice Michela Stefani: “Non c'è bisogno di aver studiato per leggere le poesie. Basta sentirle. Amarle. Io le leggo perché mi aiutano a vivere. Perché, come ha detto lei, parlano di noi e come noi. Anzi, come vorremmo parlare noi.”
Purtroppo la poesia non è più molto di moda, anche per colpa del modernismo che ha reso (apparentemente) inutile la bravura tecnica dell'artista. Ma il sentimento poetico è dentro di noi e, pertanto, non morirà mai.
Le considerazioni che seguono sono di Gaia Baracetti, blogger e scrittrice eclettica, autrice non solo di saggi e di romanzi, ma anche di libri di poesie.
LUMEN


<< Come accade a molti altri che scrivono poesie, ho la sensazione di non esserne completamente in controllo e di essere letteralmente investita da un’ispirazione che potrebbe venire come non venire (infatti può benissimo darsi che non ne scriva mai più), per cui potrei anche dirvi con sincerità che il merito di queste poesie che vengono da non so dove e non del tutto da me è della Musa e non mio, e che quindi non mi sto nemmeno vantando se non di aver avuto l’onore temporaneo di un dono misterioso. (...)

Un sacco di gente, quando dico che ho scritto poesie, mi risponde: “non mi piace la poesia.” Io non ci credo. Se c’è una cosa che non può non piacere in toto, questa è la poesia.

È come dire “non mi piace la musica” – quello che stai dicendo è che non stai tutto il tempo a seguire le nuove uscite, ad andare a concerti o a scaricare canzoni, ma non ci credo che non hai mai ballato, mai cantato una ninna nanna o un coro da stadio o uno slogan a una manifestazione o un inno in chiesa o qualsiasi altra cosa. È impossibile.

Stessa cosa per la poesia. Il problema è la definizione. Se per poesia si intendono quelle poche frasi incomprensibili e palesemente autocompiaciute di sconosciuti autori del dopoguerra e adolescenti presuntuosi, bè, quella roba lì non piace neanche a me.

Ma la poesia è uno dei metodi fondamentali dell’espressione linguistica umana. Il rap è poesia. Le canzoni di De Andrè sono poesia. I cartelloni della laurea nelle cerimonie del Nord Italia [usanza che personamente non conosco - NdL] sono poesia. Buona parte dei testi sacri sono poesia.

La poesia è un modo di usare la lingua al tempo stesso concentrato e infinitamente espandibile. Una parola ne contiene infinite. Una metafora può essere interpretata in tanti modi. Questa è la forza della poesia.

La poesia migliore, come secondo me l’arte migliore, ha un suo significato, una sua bellezza, immediati. Non serve essere un professore di letteratura o storia dell’arte per emozionarsi nel leggere Dante o nel vedere un quadro di Caravaggio. C’è poi, però, una possibilità senza fine di interpretazione di ciò che va oltre la prima impressione che rende queste opere veramente grandiose.

Possiamo parlare della “selva oscura” come immagine immediata e potente che suggerisce sgomento, smarrimento e paura, ma anche scrivere un intero libro sul significato culturale della foresta nell’immaginario occidentale (tra l’altro questo libro esiste ed è meraviglioso).

Il fatto che gran parte della poesia e dell’arte figurativa contemporanea non siano immediatamente comprensibili, ma richiedano sin da subito una spiegazione critica, è una gran tragedia e uno dei motivi per cui la gente non le apprezza più. Ma l’arte che piace al popolo resta, nella forma ad esempio dei testi delle canzoni o dei film o serie.

La poesia fa uso non solo delle ambiguità e stratificazioni di una lingua, ma anche dei suoi suoni. Per quanto mi riguarda, una poesia senza assonanze, consonanze, rime e allitterazioni è come una canzone senza melodia (cioè, non una canzone).

Ogni tanto leggo a voce alta i miei poeti preferiti, e mi ritrovo a cantare. Le loro poesie sono come degli spartiti, in cui al posto delle note (per cui serve uno strumento) ci sono le lettere (per cui basta una voce umana), e io leggendo le lettere così come loro hanno inteso mi ritrovo a imitare il canto degli uccelli, creo atmosfere, mi allargo o rimbalzo o rallento e alle volte infine scoppio a piangere.

Per questo io credo che la poesia sia fondamentalmente intraducibile. Andrebbe letta nella lingua originale, altrimenti se ne perde almeno metà.

Quando uno che non sa il polacco mi dice che “gli piace” una poetessa polacca, io penso che quello che sta veramente dicendo é: mi piace come quel traduttore cerca di rendere in prosa spezzettata le poesie di quell’autrice, o: se queste poesie sono così belle tradotte, chissà cosa dev’essere l’originale!

Ma se davvero tu sei convinto di aver letto le poesie di quella poetessa non conoscendo la lingua in cui sono scritte, mi dispiace, non hai capito cos’è la poesia. >>

GAIA BARACETTI

venerdì 10 dicembre 2021

Il selvaggio sotto la maschera

Le considerazioni di Gianni Pardo sulle eterne contraddizioni del comportamento umano, perennemente sballottato tra gi istinti della natura, i freni della cultura e le potenzialità della tecnica.

Il testo, acuto e disincantato, è tratto dal suo blog.

LUMEN.


<< L’uomo è un primate molto evoluto. Il suo cervello, come anche la sua mano, sono capolavori della natura, macchine capaci di prestazioni straordinarie.

Ma per centinaia di migliaia di anni, forse milioni, queste dotazioni non sono servite a differenziarci molto dagli scimpanzé, anche se rispetto a loro avremo incredibilmente migliorato le capacità di comunicazione verbale. Insomma avevamo le ruote, i freni, il motore ma ci mancava una piccola cosa essenziale, la benzina, che nel nostro caso è stata l’invenzione della scrittura.

Con la scrittura è cominciata quell’accumulazione di sapere che oggi è alta come una montagna. Noi sediamo sulla sua cima e forse l’abbiamo elevata un po’, ma certo la montagna l’hanno fatta i secoli. E tutto questo lo dobbiamo alla scrittura. Senza di essa l’accumulazione del sapere, ed anche dei “saperi” (nel senso di tecniche) non sarebbe stata possibile. Era necessaria una memoria esterna più longeva e più grande di quella degli uomini: con la scrittura il passato non è più morto.

Dopo una stagnazione di centinaia di migliaia di anni, forse milioni, in pochi millenni l’umanità è passata dall’età della pietra a società evolute come quella egiziana, quella greca o quella romana. Ad uomini che, se fosse possibile incontrarli, ci sorprenderebbero per quanto sono uguali a noi.

Naturalmente, quando si dice questo non si intende che tutti gli abitanti dell’impero romano avessero la cultura di Cicerone o di Mecenate. Le grandi masse erano analfabete e vivevano più o meno come erano sempre vissute, per non parlare dei popoli estranei all’Impero Romano. Ma le élite, per molti versi, erano già nostre contemporanee.

Purtroppo la scrittura ha cambiato il sapere, ha perfino fatto nascere quelle alte riflessioni che si chiamano filosofia, ma non ha mutato la mentalità corrente. E a lungo non ha cambiato neanche il livello economico corrente. Ancora agli inizi del Novecento, nel Sud Italia, la maggior parte della popolazione era analfabeta e aveva un’economia di pura sussistenza o poco più. Non molto diversamente da come vivevano gli egiziani al tempo dei Faraoni.

L’invenzione della scrittura ha cambiato la cultura dell’umanità ma ciò che ha cambiato la sua vita quotidiana è stato altro. Non la scienza, come si potrebbe credere - perché la mentalità dell’uomo normale è incapace di capirne il metodo - ma l’applicazione della scienza. La tecnologia.

L’uomo medio non capisce le regole del metodo scientifico ma capisce al volo l’utilità del telefonino. Non sa come funziona ma lo adotta. E a forza di adottare tutte le comodità che ha offerto la Rivoluzione Industriale ne ha anche, un po’, adottato la mentalità. L’uomo contemporaneo – soprattutto l’uomo colto - crede meno ai fantasmi e alle streghe e più al principio di causalità; meno a Dio e più alla medicina; meno alla religione e più alla chimica. Ma è veramente cambiato?

A mio parere no. La scienza è stata adottata da tutti in quanto cassetta degli attrezzi, non in quanto dottrina. Gli uomini dispongono di nuovi mezzi di trasporto, ma non di nuove mete. Di nuovo mezzi di comunicazione, ma non di nuove idee. Di una nuova potenza di azione, con i motori, ma non di un maggiore buon senso nell’usarli. Soprattutto non hanno perduto la loro affettività che da un lato a volte li rende stupidi come bambini (“Mussolini ha sempre ragione”) dall’altro li rende capaci di massacri non meno atroci di quelli del passato.

Noi ci vergogniamo della Shoah e nessuno, nei primi anni del Novecento, l’avrebbe creduta possibile. E invece era possibile perché, per questo aspetto, l’umanità non è cambiata. Nelle infinite guerre intestine della Grecia classica avveniva che l’esercito vincitore passasse a fil di spada tutti gli uomini della città conquistata, risparmiando soltanto le donne e i bambini: ma non per pietà, semplicemente perché ci guadagnava vendendoli come schiavi.

Date all’uomo contemporaneo l’occasione di comportarsi come un selvaggio e si comporterà come un selvaggio. Poco importano le armi di cui disporrà, identico è il piacere di uccidere. Inoltre, dal momento che l’analfabetismo non è stato sradicato, è facile installare nella testa degli incolti teorie in linea con la loro mentalità.

Infatti l’idea di Dio è coerente con la natura umana, l’idea di cieca causalità no, e tendenzialmente l’uomo la rifiuta. Perché è abituato a vivere teleologicamente, e altrettanto attribuisce ad un potere superiore che guiderebbe la realtà verso qualcosa. Così, per lo scienziato il magico è per ciò stesso falso, per l’uomo comune il magico, essendo suggestivo, è per ciò stesso vero.

Se poi qualcuno riesce a convincere noi selvaggi che un certo comportamento è voluto da Dio, siamo capaci assolutamente di tutto. Basti pensare alla crociata contro gli Albigesi o agli orrori dei terroristi islamici. Tutta gente che non ha orecchie per la razionalità, ma le ha – e spalancate – per una mitologia a misura d’uomo.

Così arriviamo all’Afghanistan [di oggi]. Non dobbiamo meravigliarci che esistano ancora nazioni medievali o peggio che medievali, con un assurdo livello di intolleranza. Dovremmo piuttosto stupirci delle eccezioni costituite da quei Paesi in cui, come si sosteneva centocinquant’anni fa in Inghilterra, “tutto è permesso, salvo spaventare i cavalli e dir male della Regina”.

Può darsi che l’Afghanistan, fra cent’anni, somigli all’Inghilterra vittoriana, ma speriamo che non sia l’Inghilterra che, fra cent’anni, somiglierà all’Afghanistan di oggi. Il cambiamento non è sempre per il meglio. I tedeschi degli Anni Quaranta non rappresentavano un progresso rispetto a quelli di cent’anni prima. L’uomo è una cara bestia, ma non dimentichiamo di mettergli la museruola. >>

GIANNI PARDO

venerdì 3 dicembre 2021

La scelta Svedese

Dice (giustamente) Gianni Pardo, in uno dei suoi post, che “il carcere è un’istituzione tremenda che tira fuori il peggio dagli uomini. Da tutti gli uomini.”.

Eppure in Svezia stanno provando, ormai da decenni, ad impostare le cose in un modo molto diverso. Ce ne parla Domenico Celi in questo interessantissimo articolo tratto dal sito Trasgressione.net.

LUMEN.


<< La Svezia a partire dagli anni trenta ha adottato un sistema punitivo basato sulla “filosofia del trattamento”, con l’intento di ridurre al massimo l’area della pena detentiva e di ampliare le forme alternative alla stessa. In particolare, in Svezia lo Stato si è impegnato nella definizione di una serie di leggi in materia penale e penitenziaria che offrono ai condannati l’opportunità di astenersi dal commettere qualsiasi infrazione per incamminarsi sulla via della dignità e del recupero sociale.

Obiettivo questo che deve essere realizzato, secondo l’ordinamento svedese, tenendo bene a mente che:

= la perdita della libertà è di per sé un intervento afflittivo di tale entità da non richiedere alcun aggravamento per puntualizzarne il valore intimidatorio;

= il detenuto deve essere trattato con fermezza, con premura e con tutta la considerazione dovuta alla sua persona.

Dopo aver conosciuto i principi su cui si fonda il sistema punitivo svedese passiamo ad analizzarne i contenuti. Le pene previste in caso dell’accertamento di un reato sono:

= L’ammenda o pena pecuniaria. Essa viene calcolata col metodo dei “ tassi giornalieri” ed è ampliamente praticata;

= Il Probation, che consiste nella sospensione dell’esecuzione della condanna per la durata di tre anni, prorogabile ad un massimo di cinque. Tale misura obbliga il soggetto ad osservare determinate regole di condotta. La loro inosservanza può determinare la revoca del probation;

= Il Parole, che consente la liberazione condizionale quando è scontata una parte della pena che varia dai 5/6 alla metà della medesima. Il parole può essere concesso anche prima di tale termine; in questo caso tale misura è adottata da una commissione amministrativa;

= La detenzione, semplice o a vita. La prima va da un mese a dieci anni elevabile a 12 nel caso di concorso di reati. La seconda è per consuetudine convertita, mediante un provvedimento di grazia, in detenzione da 10 a 15 anni;

= L’internamento. Si tratta di una misura adottata nei confronti di criminali pericolosi o recidivi e consiste nel carcere per un tempo minimo fissato dal giudice e a durata massima illimitata;

= La sentenza condizionale, che consiste nel non infliggere la pena e nella concessione di un periodo di prova di due anni, a condizione che non siano commessi altri reati. Detta misura viene adottata solamente nei casi in cui la recidiva risulti altamente improbabile;

= La sorveglianza intensiva. Si tratta di una misura che sostituisce la pena detentiva, adottata in via sperimentale nel 1994, nei confronti di soggetti condannati a non più di tre mesi di reclusione. In questo caso, il condannato può scontare la pena nella sua abitazione sotto controllo elettronico. Inoltre la misura comporta frequenti visite del personale del servizio sociale, controlli relativi all’uso di alcool o droghe e la partecipazione del condannato ad un programma personalizzato di rieducazione. (…)

Il trattamento a cui viene sottoposto il colpevole (…) è progressivo. Ciò significa che diviene meno afflittivo, fino in alcuni casi a scomparire, quando il soggetto mostra chiari segni di potersi inserire nella società. Sono previsti istituti chiusi ed istituti aperti. I primi sono complessi edilizi muniti di difese sicure contro l’evasione, i secondi non sono circondati da mura o da altre difese, non hanno sbarre alle finestre e dispongono di ampi spazi.

Nelle istituzioni aperte è assente ogni tipo di autoritarismo e viene lasciato largo margine di libertà e iniziativa al soggetto. Egli può ricevere le visite della moglie, dei figli e di altre persone che gli sono vicine. Di norma la corrispondenza non è sottoposta a censura. Il sistema, come abbiamo detto, è progressivo, sino al punto che i detenuti stessi fanno i turni di guardia durante la notte e il personale di sorveglianza giunge al mattino quando la giornata lavorativa è già iniziata. In altri istituti aperti i detenuti lavorano in libertà e trascorrono all’interno solo il tempo libero e la notte. Durante il fine settimana si recano alle proprie case.

Nell’insieme, gli istituti aperti raccolgono un terzo della popolazione carceraria. L’accesso ad un istituto aperto piuttosto che ad uno chiuso è stabilito da giudice nella sentenza: se la condanna è ad una pena detentiva superiore ai tre mesi, almeno la prima parte della condanna è scontata in un istituto chiuso. Le persone condannate ad una pena inferiore ai tre mesi, invece vengono affidate direttamente a istituti aperti. Quando il detenuto assegnato ad un carcere chiuso tiene un comportamento che dimostri un acquisito senso di responsabilità, può essere trasferito ad uno aperto. (...)

Il detenuto svolge, a fianco delle attività del tempo libero, di svago, di studio e al trattamento psicologico propriamente detto, un lavoro retribuito, volto a far acquistare dimestichezza professionale e autodisciplina. Il lavoro è organizzato, con attrezzature moderne, anche di eccezionale perfezione tecnica e, comunque, secondo criteri non diversi da quelli che si applicano all’esterno. (…)

Quando il detenuto ha scontato la pena non è abbandonato a se stesso: alla scarcerazione definitiva, i sindacati prestano un notevole aiuto per l’inserimento nel libero mercato del lavoro. La direzione del Mercato Nazionale del Lavoro, che è un organo della pubblica amministrazione, riserva ogni anno un certo numero di posti alle persone rimesse in libertà. Si tratta per lo più di lavoro forestale o di costruzione di strade.

Ricordiamo infine che il sistema punitivo svedese conta mediamente il 15% di evasioni. In caso di evasione, il soggetto viene di solito trasferito in istituzioni con un regime più rigoroso. Salvo casi di particolare gravità, l’evasione in sé non viene punita come reato. >>

DOMENICO CELI