Il
post di oggi è dedicato alle vibranti e combattive riflessioni di
Gaia Baracetti (tratte dal suo blog) contro l’evoluzione politica dell’Unione Europea,
che è diventata una sorta di “turris eburnea” sempre più
scollegata dai cittadini..
Purtroppo,
la struttura europea è ormai giunta ad un tale punto di non ritorno,
che qualsiasi considerazione in senso contrario, anche se fondata,
finisce per non lasciare traccia. Ma
questo non ci deve impedire di manifestarla.
LUMEN
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Nei dibattiti sul futuro dell’Europa (…) prevale un’insidiosa
confusione tra forma e contenuto. L’Europa dei diritti, l’Europa
liberista, più Europa per controllare le banche, più Europa per
frenare le derive autoritarie, l’Europa per la pace, l’Europa per
avere un peso nel mondo, l’Europa cristiana, l’Europa per la
disciplina fiscale… tutti tirano l’Unione Europea dalla loro
parte, chiedendo che cambi, quasi sempre, ma non mettendo in
discussione la sua stessa esistenza.
Se
la criticano, di solito è per i comportamenti che tiene, non per le
premesse fondamentali su cui si basa. Qualche eretico propone di
uscire dall’euro; molti meno [di farlo] dall’Europa politica.
Anzi: ci vuole “più Europa”, perché l’Europa saprà fare le
cose giuste; sempre più Europa, mai meno. L’Europa è un’entità
in principio positiva, o al massimo che va corretta. A me sembra che
gli europeisti, cioè al momento la maggioranza, appoggino
l’esistenza dell’Unione Europea non perché pensano che sia un
metodo migliore di governo, ma perché, implicitamente, si aspettano
che sappia imporre su scala più ampia di quella statale le politiche
di loro preferenza.
Infatti,
gli europeisti appartengono a tutti gli schieramenti, salvo forse
all’estrema destra nazionalista. Perché ognuno crede che l’Europa
sia o possa essere la realizzazione del proprio sogno. Io invece
contesto l’idea di unione europea indipendentemente dai suoi
contenuti, che faccia gli interessi dei lavoratori o delle banche,
che cacci i governi che non mi piacciono o che imponga standard
assurdi su come dobbiamo fare da mangiare, indipendentemente persino
dal predominio di Germania e Francia – io sono contro il governo
europeo a priori.
Sono
favorevole alla cooperazione europea su certe questioni, ad hoc, agli
scambi culturali e alla conoscenza e all’esempio reciproco, a
un’identità comune compatibilmente con le nostre altre identità,
e sono anche favorevole a tavoli non solo interstatali ma anche
interregionali di coordinazione e collaborazione – per fare un
esempio tra i moltissimi possibili, tra Friuli Venezia Giulia,
Slovenia e Carinzia. Quello che invece non voglio sono istituzioni
europee permanenti che prendono decisioni vincolanti per gli altri
governi e per i cittadini dei paesi appartenenti all’Unione. Non lo
vorrei nemmeno se prendessero le stesse identiche decisioni che io
auspico – così come non vorrei essere governata da un sovrano
illuminato, nemmeno se quel sovrano fossi io.
Il
motivo è che l’Unione Europea è troppo grande, e l’Unione
Europea è complicata. Questo significa che qualunque cosa faccia, la
stragrande maggioranza dei cittadini non avrà il tempo o la
preparazione per capirlo, se non a grandissime linee e
superficialmente. Io mi considero una persona con molto tempo per
queste cose e con il tipo di istruzione giusta, e non particolarmente
ottusa, eppure mi sfugge la gran parte di quello che succede – e
non mi basta farmelo spiegare in breve dall’editorialista del
quotidiano che leggo in un tal momento o dal TG che mi capita di
guardare. Un giorno ho modo di approfondire, ma il giorno dopo devo
pensare ad altro e mi sfuggono passaggi importantissimi. C’è
troppa roba.
Uno
potrebbe obiettare che l’operato dei governi si valuta in base alle
conseguenze: non serve conoscere tutti i passaggi, basta vedere
l’esito. Non è vero. Si può governare bene, per avere risultati
tra anni, e quindi deludere l’elettorato nel frattempo. Si può
governare male, e la gente non se ne accorge finché non è troppo
tardi o c’è un altro governo che si trova con un casino di cui non
è responsabile. Si possono prendere decisioni disastrose, gestire
male la cosa pubblica, e nasconderlo alla cittadinanza che non può
orientarsi su scale ampie e in meccanismi complessi, e quindi magari
incantarla dando la colpa a chi non è colpevole o facendo finta che
tutto vada bene.
Inoltre,
anche se i cittadini capiscono di venire fregati, cambiare un governo
su scala così grande, o convincere l’amministrazione in carica a
cambiare operato, è difficilissimo. Se non mi piace la pista
ciclabile della mia città, raccolgo le firme e le porto al sindaco e
all’assessore. Ma se non voglio la TAV, sono contraria a un certo
tipo di politica di sostegno all’agricoltura (pensate a quella cosa
che è la PAC), andare a Bruxelles è complicato e non posso che
esprimermi votando. Però devo scegliere tra candidati che, data la
complessità della materia, possono avere tutta una serie di
posizioni su molte questioni (…), alcune delle quali mi vanno bene,
altre no, e come fargli capire cosa mi va bene cosa no?
Anche
a livello locale, un politico o un partito può non andarmi bene del
tutto, certo, ma almeno lì posso dirglielo personalmente, con altri
cittadini, posso partecipare. Farglielo capire via elezioni europee è
molto più difficile. Inoltre devo sperare che il mio candidato
vinca, che vincano altri come lui in altri paesi, che si batta su
tutti i fronti che ha promesso, e che riesca ad ottenere qualcosa a
fronte di un groviglio di interessi contrastanti, tutto questo mentre
i miei personali contatti con lui sono limitati, perché rappresenta
tantissime persone e non può ascoltarle tutte individualmente su
ogni cosa. È come cercare di spostare una nave con un bastoncino.
Per
questo motivo io ritengo il governo su scala ridotta preferibile:
perché è più democratico, più trasparente, più conoscibile. Non
nego che grandi scale abbiano vantaggi: maggiore potenza, maggiore
peso internazionale, per esempio. Forse, ma solo forse, maggiore
efficienza o efficacia, ma ho i miei dubbi: meglio far partire la
raccolta differenziata su scala comunale, che aspettare che l’Europa
ci dica come. E comunque, per la democrazia e per la libertà di
decidere sono disposta a sacrificare i vantaggi di una grande
dimensione.
Guardate
ai prodigi degli imperi nella storia. Hanno fatto cose straordinarie.
Infrastrutture, legislazioni che hanno fatto scuola, influenze
culturali che permangono ancora, opere d’arte passate alla storia,
intuizioni lungimiranti. Ma io non voglio stare sotto un impero.
Siate
sinceri: chi di voi sa qual è il budget dell’Unione Europea? Come
spende i soldi? Quali sono le sue istituzioni principali e cosa
fanno? Chi di voi ha contatti regolari con i nostri rappresentanti in
Europa, a vario titolo, o ha mai visto un burocrate? Chi di voi ha la
sensazione di potere qualcosa su quello che fanno? Ora rispondete
alle stesse domande, ma per il comune o la regione. Credo vada già
meglio. (…)
Inoltre:
già l’Italia è diversa tra nord, centro e sud, e difficile da
tenere insieme. Ma l’Europa ancora di più. Certo, ci sono molte
cose in comune tra i popoli europei, tanto più ora in un mondo
appiattito e globalizzato. La storia e la geografia ci legano, e
questo non lo nego, anzi lo sento con orgoglio. Ma ancora non siamo
tutti uguali e le differenze culturali, geografiche, climatiche,
etniche, linguistiche, di valori, si traducono anche in diverse
esigenze da governare diversamente, con strumenti diversi e con
scelte diverse. Non sono folklore da proteggere perché si estingue o
da valorizzare perché è pittoresco. Sono realtà fondamentali.
Non
sto dicendo che gruppi umani diversi non possano governare assieme e
coesistere in un’unità politica. Ma hanno bisogno di autonomia al
suo interno, e comunque oltre un certo limite, non stabilibile
facilmente ma non per questo inesistente, la diversità diventa
ingestibile. Ognuno dialoghi con gli altri, ma governi se stesso.
Pensiamo alla nostra vita di tutti i giorni. Per non parlare di
realtà importanti ma molto piccole come un quartiere,
un’associazione o un’università, diciamo che prima incontriamo
il comune, poi la provincia (che non serve a molto), poi la regione,
poi lo stato, e sono già tanti livelli. Salire ancora mi pare
vertiginoso e inutile. Alle volte si può fare: ma non sempre e non
per tutto.
Concludo
dicendo che il progetto di pace e cooperazione che sta alla base
dell’idea europea è sicuramente bello e potente. Lo condivido. Ma
non credo che l’unione politica sia in alcun modo, soprattutto
adesso, garanzia di pace. Dove ne sono le prove? Si può dire che si
è fatta l’Europa perché c’era volontà di pace, ma anche che
questa volontà di pace sarebbe potuta bastare per proteggere il
continente da ulteriori guerre, o che sarebbe l’unico requisito
necessario per scongiurarle in futuro, al di là di istituzioni che
possono anche crollare più velocemente di un’idea.
Pensiamo
alla Svizzera, che sta per conto suo, ma è troppo furba per fare le
guerre, oppure alla ex Jugoslavia. Ad un certo punto non ha retto più
e si è dissolta violentemente. E ora che la guerra è finita da anni
i paesi, risollevandosi pian piano, cominciano a cercarsi di nuovo, a
cooperare, a fare affari, a confrontarsi. Questo è dovuto alla
geografia, alla lingua comune, alle esigenze economiche, al ricambio
generazionale. Non all’unità politica. Quella è stata fatta a
pezzi quando non andava più bene.
Se
la crisi europea continua, non si può escludere che si aggravi e
diventi più aspra, fino alla violenza. È da desiderare che non
accada e da impegnarsi per questo, ma saranno la volontà e
l’impegno, la generosità e la capacità di trattare, non
l’esistenza di istituzioni rigide in cui farlo, che ci salveranno
da altre guerre. >>
GAIA
BARACETTI