L’Italia unita, come noto, nacque da una serie di guerre e di battaglie (le famose guerre d’indipendenza), ma le virtù belliche degli italiani erano e rimanevano molto modeste. Ce ne parla lo storico Giordano Bruno Guerri, in questo breve passo tratto da un suo libro. Lumen
<< Il nuovo Regno d'Italia usciva dalle tre guerre d' indipendenza (nelle quali morirono «appena» 6000 uomini) con una totale mancanza di prestigio militare. I comandanti si erano rivelati divisi e incompetenti, le truppe indisciplinate e poco sensibili ai grandi appelli del patriottismo. Non era una novità.
Gli italiani avevano avuto la loro prima coscrizione obbligatoria sotto Napoleone, e non l'avevano presa bene: le diserzioni, gli imboscamenti, le richieste di esonero per i più svariati motivi erano stati moltissimi, e non si trattava solo di scarso entusiasmo per l'esercito straniero. Fino ad allora solo nel Regno di Napoli e in quello di Piemonte c'era una tradizione marziale e gli italiani non amavano il servizio militare, inteso appunto come servizio allo Stato, entità misteriosa ed estranea.
Di questo atteggiamento si videro gli effetti durante il Risorgimento e dopo, nelle tragiche battaglie coloniali di fine secolo e nella guerra di Libia del 1911 : «Ho sempre dovuto falsificare i bollettini degli scontri in Libia», confidò privatamente Giolitti, «per non dimostrare che si vinceva solo quando si era in dieci contro uno». Giolitti disse anche che «per due generazioni nelle famiglie italiane non si sono avviati alla carriera militate che i ragazzi di cui non si sapeva che cosa fare, i discoli e i deficienti».
Era in gran parte vero: per la borghesia e la nobiltà l'esercito aveva sostituito la Chiesa come sistemazione sicura e prestigiosa, ma non impegnativa. Gli ufficiali tendevano a considerare la vita militare una elegante sinecura o al più un servizio da svolgere burocraticamente, senza passione, come molti sacerdoti fino a tutto il Settecento.
Un altro grave problema era il disprezzo reciproco fra gli alti gradi militari e il mondo politico, che si vantavano di non sapere niente l'uno dell'altro, per «non contaminarsi». La prima guerra mondiale fece risaltare questa tragica divisione, e l'altra ancora più grave tra ufficiali e popolo.
Chiamati per la prima volta alla leva di massa e a un grande sforzo collettivo, gli italiani mostrarono tutta la loro debolezza militare: alle deficienze organizzative e alla mancanza di armamenti moderni e di rifornimenti si aggiunse lo scarso entusiasmo dei soldati nel battersi per uno Stato che veniva identificato con «i padroni».
Gli episodi di valore individuale e collettivo (poi enfatizzati fino alla nausea nella storia patria) non mancarono mai, però gli italiani hanno confermato in ogni conflitto la loro antica fama di mediocrissimi guerrieri. L'italiano è negato per la guerra, e lo si potrebbe finalmente ammettere, oggi che un lungo periodo di pace e il progresso della ragione permettono di non considerare più le guerre come un esercizio ammirevole e virile.
Ma, curiosamente, il valore militare viene ancora considerato patrimonio prezioso dell'onore nazionale. Grava su di noi il giudizio, tante volte ripetuto nei secoli dagli stranieri, che gli italiani «non si battono», e se lo fanno non ne sono capaci. E se avessero ragione loro?
Non che gli italiani siano vili o deboli - per carità - o incapaci di sacrifici, tutt'altro. La guerra però richiede organizzazione, disciplina, solidarietà. Richiede anche ferocia, fede in un ideale di Stato, certezza cieca di avere ragione e genuina capacità di odio verso altri popoli: tutte caratteristiche - buone e cattive - che ci mancano.
Il fenomeno ha origini antiche, si potrebbe addirittura partire dall'editto con il quale Caracalla, nel 212 e.v., affidava ai barbari la difesa della penisola. E i barbari sottomisero l'Italia.
La successiva civiltà comunale, se sviluppò straordinari fenomeni di cultura ed economia, non era la più idonea a creare lo spirito cavalleresco dell'onore e del sacrificio tipico delle società feudali. Per combattere, umile lavoro da barbari, Comuni e Signorie arruolavano mercenari stranieri: tutto sommato, era meglio delegare ad altri la morte in battaglia.
Questo atteggiamento, di per sé lodevole, nasceva da una totale mancanza di senso della collettività e la aumentava. Già Machiavelli sosteneva che solo chi sa essere un buon soldato può essere anche un buon cittadino: oggi è più giusto dire che solo un buon cittadino può essere anche un buon soldato; ma il risultato non cambia.
Alla mancanza di senso dello Stato si aggiunse il particolare rapporto italiani-Chiesa. Non si può dire che la Chiesa non abbia mai menato le mani (anzi fu una delle sue attività prevalenti fra il IX e il XVI secolo), però anche il papato preferiva ricorrere all'appoggio di eserciti stranieri o di mercenari.
Nel Medioevo ci fu una diatriba interminabile per decidere se la Chiesa, portatrice evangelica di pace, potesse fare o approvare guerre. Si decise che c'erano guerre «giuste» e guerre «ingiuste». Erano guerre giuste quelle approvate dal papa, ingiuste tutte le altre. Per il resto il clero diffondeva gli insegnamenti del Vangelo: uccidere non è bene; meglio porgere l'altra guancia e perdonare.
Fu un'educazione alla mitezza costante e idealmente meritoria, ma poco pratica in secoli nei quali la fortuna dei cittadini e degli Stati si otteneva con le armi. Per la Chiesa tutte le guerre risorgimentali furono «ingiuste». Ne derivò la mancata partecipazione al Risorgimento di tanti cattolici, l'incertezza di altri. >>
GIORDANO BRUNO GUERRI