sabato 27 ottobre 2018

Nazionalismo e Imperialismo

Il post di oggi è dedicato a due termini politico-istituzionali che hanno alle spalle una lunga evoluzione storica, ma risultano oggi di particolare attualità, ovvero “Nazione” ed “Impero”, da intendersi nel loro senso più ampio.
Le considerazioni, molto interessanti e soprattutto non banali, sono di Marco Gervasoni e sono state pubblicate inizialmente su "Atlanticoquotidiano.it (quotidiano on line di approfondimenti economico-politici) e poi riportate da “Il Giornale”. Buona lettura. 
LUMEN


<< [Oggi] lo ripetono tutti (…): la nazione chiude, la nazione impoverisce gli spiriti, la nazione fa provinciale (e anche un po' deplorabile). Quando poi diventa nazionalismo, orrore!, equivale a fascismo, razzismo, xenofobia. E poi il nazionalismo porta inevitabilmente con sé le guerre, non ne ha provocate due nel Novecento ? Meno male che l'Europa c'è ! (…)

I “tòpoi” che reggono questa (povera) ideologia dell'anti nazione sono fondamentalmente tre:
1) le nazioni sono superate;
2) le nazioni portano alla guerra;
3) le nazioni producono il nazionalismo.

Si tratta nei primi due casi di affermazioni storicamente infondate, nel terzo di una vera e propria tautologia. Che le nazioni fossero superate lo sostennero, negli anni immediatamente successivi al crollo del muro di Berlino, una serie di autori statunitensi, come Francis Fukuyama e Thomas L. Friedman, o giapponesi, come Kenichi Ohmae (guarda caso tutti appartenenti a Stati nazione ben solidi). Era un'autentica ideologia, che ha spopolato negli anni Novanta, ma già imbarcava acqua con l'11 settembre, e che è finita affondata con la crisi del 2008.

Già all'epoca qualcuno, come il grande Samuel Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt'altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Cosa che larga parte delle scienze sociali e politiche ha poi confermato nei decenni successivi. Oggi nessuno studioso informato e serio prenderebbe più sul serio le tesi del «superamento delle nazioni».

Quanto al sentimento nazionale che porterebbe alla guerra, anche questa è un'interpretazione dei due conflitti mondiali datata e discutibile: quelli che si scontrarono nel 1914 non erano Stati nazione, ma Imperi (anche quando non si chiamavano così, come la Francia) e la guerra fu prodotta dai conflitti ingenerati dall'espansione imperiale, come già allora videro non solo Lenin ma anche il liberale Hobson.

Per ciò che riguarda la Seconda guerra mondiale, solo chi non conosce il nazismo può definirlo un nazionalismo: Hitler non era un nazionalista ma un imperial-razzista, e le razze non si disponevano nella sua visione all'interno della nazione, ma di spazi post nazionali, cioè imperiali. Basta leggere qualsiasi discorso di Hitler, basta sapere, come tutti dovrebbero, che in caso di vittoria la Germania avrebbe creato uno spazio europeo con una moneta unica, basta immergersi negli straordinari testi sullo spazio imperiale composti da Carl Schmitt durante la guerra (…).

La terza affermazione è infine una tautologia: non ci può esser nazione senza nazionalismo, cioè senza un legame solido, razionalmente emozionale ed emozionalmente razionale, con la propria nazione. Per cui, se correttamente inteso, il nazionalismo è un sentimento da rivalutare; di più, è una virtù. Come ci spiega Yoram Hazony, filosofo politico e biblista israeliano (…), nel libro ‘The Virtue of Nationalism’. Il nazionalismo non è un sentimento negativo e va inteso come una virtù nel senso greco del termine: come una condotta naturale (la natura dell'uomo essendo quella di animale politico) e adesione alla forma più giusta, in senso aristotelico, di comunità politica.

Il libro di Hazony è importante e ricco di spunti, richiederebbe quindi un lungo spazio per analizzarlo bene. Ci sono tuttavia tre punti essenziali. Il primo. Dobbiamo essere riconoscenti in eterno a Israele e riscoprire la Bibbia, cioè l'Antico Testamento [ehm - NdL], come all'origine della nostra tradizione politica. In Italia tendiamo a dimenticarlo, diversamente dal mondo anglosassone, ma l'Occidente è, come scrisse il grande Leo Strauss, sia Atene che Gerusalemme. L'una non deve esistere senza l'altra. Cosa ci ha tramandato Gerusalemme, cioè l'Antico Testamento ? Che l'antico popolo d'Israele è la prima nazione della storia e che questa Alleanza è più buona e giusta di quella dell'altra forma di organizzazione politica, l'Impero.

Ecco il secondo punto importante del libro di Hazony. Non esistono infiniti modelli di comunità politica, anzi nella storia ve ne sono solo due: la nazione, e il suo opposto, l'Impero. Quando perciò molti esaltano modelli post-nazionali, globali, federalisti e quant'altro, anche se non lo sanno (o fanno finta di non saperlo) quello per cui essi si battono è un Impero. La stessa Unione europea, come scrive Hazony, è strutturata come un Impero, fallace e fallimentare perché privo di un centro e guidato da un'autorità non politica ma tecnocratica, però pur sempre entità di carattere imperiale. (…).

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa vi sia di male nell'Impero. Per Hazony esso mostra almeno tre ordini di problemi: conduce a guerre disastrose, produce una sorta di anarchismo diffuso perché si estende su spazi talmente vasti da non potere, neanche oggi, essere controllabili e infine lede la libertà dei popoli e degli individui e minaccia la democrazia intesa come controllo. Siccome la storia, dagli Assiri fino al 1919, è stata essenzialmente storia di Imperi, tanto in Occidente quanto in Oriente, le affermazioni di Hazony sono tutte verificabili.

Al contrario le guerre condotte dalle nazioni, realtà più ristrette, più omogenee, in cui vige il principio di sussidiarietà tra i vari livelli del potere, sono sempre state più limitate. Altro che il nazionalismo autostrada verso la guerra, è al contrario l'imperialismo che la produce. Basta del resto vedere, nella storia della Ue, dopo che dal 1992 i governi nazionali hanno accelerato il processo di integrazione verso uno spazio post nazionale (imperiale), quanto le tensioni siano accresciute.

Il terzo punto importante del volume di Hazony sta nello scenario di insieme: quello che oggi è in corso è un conflitto su scala mondiale tra Nazioni e Imperi, tra nazionalismo e imperialismo (sotto forma di globalismo). Non è un caso che la nazione più imperialista e globalista del mondo, la Cina, sia al tempo stesso la più favorevole al commercio internazionale senza freni. E anche se le tesi sul superamento delle nazioni non hanno più molto credito, continua a essere egemonica in una larga parte delle élite internazionali l'ideologia imperialista-globalista, che porta a demonizzare, a condannare a priori, a delegittimare tutte quelle realtà che vogliono restare nazionali e non intendono assoggettarsi a spazi imperiali. (…)

Hazony ci dimostra che una delle ragioni per cui una parte delle élite europee e nordamericane oggi odia Israele sta nella sua pervicacia a voler restare nazione, nel difendere i propri confini, la propria religione, la propria lingua e la propria cultura. Israele è lo scandalo: invece di adeguarsi ai valori dell'imperialismo-globalismo, cioè niente cultura nazionale, niente lingua, frontiere aperte, multilateralismo, sottomissione alle agenzie internazionali tipo Onu, Gerusalemme continua a tenere alta la fiamma della difesa del proprio popolo, dell'Alleanza, come nell'Antico Testamento.

Hazony fornisce al concetto di nazionalismo un significato un po' diverso da quello che siamo abituati oggi a sentire in Europa e soprattutto in Italia: la nazione per lui è comunità politica, fondata sulla omogeneità di una etnia, di una cultura e di una lingua principali, che però devono essere aperte, non esclusiviste e ovviamente rispettose delle minoranze integrate nello spazio politico nazionale.

Quanto ai confini, il nazionalismo teorizzato da Hazony è difensivo e non espansivo. È una idea di nazione che rimanda (…) al significato francese di République. Ma è anche tanto simile all'idea di nazione del nostro Risorgimento, che non era destinata, come sciaguratamente hanno scritto alcuni storici negli ultimi vent'anni, a generare il fascismo. Al contrario, l'idea liberale di nazione di Cavour e quella repubblicana di Mazzini hanno ancora molto da trasmetterci. E se non amiamo definirci nazionalisti, perché diffidiamo sempre un po' degli ismi, possiamo però sottoscrivere la tesi di Hazony: il nazionalismo è, indubbiamente, una virtù. >>

MARCO GERVASONI

sabato 20 ottobre 2018

Un fantasma per amico - 2

Si conclude qui l’articolo di Giorgio Vallortigara sull’origine delle facili credenze nel soprannaturale e nelle superstizioni. Lumen


(seconda parte)

<< La dicotomia nella rappresentazione mentale delle ‘entità’, [tra quelle] animate e [quelle] inanimate, ha avuto conseguenze inaspettate nella nostra specie, nella quale la sofisticatezza della vita di relazione ha raggiunto livelli impensabili rispetto ad altre specie pure sociali.

Come sostiene lo psicologo Paul Bloom, la possibilità di trattare gli oggetti fisici come entità separate dagli oggetti mentali ci ha reso dei “dualisti intuitivi”, capaci cioè di concepire corpi privi di menti e menti prive di corpo. I cadaveri, per esempio, sono oggetti che hanno posseduto una mente, che sono stati abitati dallo spirito, e per questo meritano forme di rispetto, sebbene lo spirito ora li abbia lasciati. Spettri, angeli e demoni, invece, posseggono delle menti, ma possono in misura maggiore o minore fare a meno dei corpi. Il dualismo intuitivo costituirebbe, perciò, il fondamento cognitivo della credenza in una vita dopo la morte.

È nella letteratura, probabilmente, osserva Bloom, che meglio si palesa il dualismo che è connaturato alla nostra psicologia. Nessuno crede che sia una storia vera, ma tutti riusciamo a capire benissimo che cosa possa voler dire svegliarsi una mattina con il corpo trasformato in quello di uno scarafaggio, rimanendo nondimeno, in un qualche senso profondo, la stessa persona, Gregor Samsa [si tratta ovviamente de ‘La Metamorfosi’ di Franz Kafka - NdL].

È bizzarro che si trovino plausibili storie come questa. Se la trasformazione è avvenuta, essa deve aver riguardato l’organismo tutto intero, quindi Gregor Samsa ora deve avere il sistema nervoso di uno scarafaggio e pensare come uno scarafaggio (qualsiasi cosa questo possa voler dire!). Si palesa, qui, un altro tratto costitutivo delle nostre menti che fornisce ulteriore supporto alle credenze nel sovrannaturale, l’essenzialismo psicologico. L’essenzialismo è l’idea per cui certe categorie di cose (le donne, i gruppi razziali, le lucertole, i quadri di Matisse) posseggono una loro natura interna, un’essenza per l’appunto, non osservabile direttamente, che definisce la loro identità e spiega le somiglianze tra membri della stessa categoria.

Le proprietà delle essenze tendono [anche] a trasferirsi da un corpo all’altro. Lo psicologo Bruce Hood lo illustra con un semplice esempio: sareste disposti a indossare il maglione di un serial killer ? E perché no ? Davvero pensate che la tendenza all’omicidio seriale possa trasferirsi tramite un maglione, contagiandovi come un bacillo ? Insensato, certo. Eppure, quante storie avete letto e quanti film avete visto centrati sull’idea che dopo un trapianto di cuore qualcosa dell’espiantato, una qualche virtù o un qualche orribile vizio psicologico, si possa trasferire nel trapiantato mediante l’innesto del muscolo cardiaco ?

Se provate a chiedere a un bambino in età prescolare se una lucertola senza zampe sia ancora una lucertola e non invece un serpente, cui di fatto assomiglia maggiormente dopo l’amputazione, vi risponderà che sì, la lucertola è ancora una lucertola, non è diventata un serpente. Ci saremmo potuti aspettare che per i bambini le qualità percettive delle cose, quelle “superficiali” per così dire, siano più importanti di quelle “profonde”, essenziali. Invece i bambini sono essenzialisti da subito.

In ambito scientifico l’essenzialismo viene giustamente guardato con sospetto, perché è stato causa di molte controversie. Per esempio, quelle attorno alla definizione di che cosa sia “vivente”. Nozioni come quella di “razza” non corrispondono ad alcuna sottostante essenza. Lo stesso vale per la nozione di “specie”, perché le specie evolvono e sono definite a livello di popolazione e non come proprietà intrinseca degli individui. Molte discussioni che investono la sfera civica, etica e religiosa sono legate all’essenzialismo (l’aborto, le cellule staminali, gli OGM). Ciò accade presumibilmente a causa del fatto che pensare in termini essenzialistici fa parte del nostro retaggio biologico.

La psicologa Susan Gelman ha raccolto molte importanti osservazioni a favore dell’idea che i bambini in età prescolare siano spontaneamente essenzialisti. Per esempio, i bambini sembrano possedere una sorta di concezione intuitiva di “potenziale innato”, cioè l’idea che certe proprietà siano stabilite alla nascita. Se viene loro raccontata la storia di un coniglio che è stato adottato da una coppia di scimmie e si chiede ai bambini se il coniglio mangerà carote o banane e se avrà le orecchie corte oppure lunghe, questi rispondono tipicamente affermando che il coniglio mangerà carote e avrà le orecchie lunghe. Ciò anche se il coniglio non ha mai mangiato carote da piccolo e non ha mai visto carote in vita sua. Per i bambini, mangiare carote sembra inerente alla natura dei conigli: si tratta di una proprietà che presto o tardi deve necessariamente esprimersi, un potenziale innato appunto.

Numerosi dati raccolti dagli antropologi in culture diverse convergono sull’idea dell’essenzialismo. In tutte le culture studiate, a dispetto delle diversità che queste mostrano nel modo di concepire la nascita e le pratiche di allevamento, i bambini e gli adulti sottoposti a diverse varianti del test dell’adozione mostrano di concepire l’appartenenza a una specie come un tratto determinato da un’essenza, da un potenziale specifico e innato.

È interessante come le persone siano disposte a ritenere che una categoria possegga un’essenza, senza che esse sappiano in che cosa consista tale essenza. Le persone sono convinte che vi debbano essere importanti differenze nella struttura mentale di maschi e femmine o che certe precise entità di natura genetica definiscano l’appartenenza a una razza, ma non saprebbero dire quali esse siano.

In effetti, non è importante che lo sappiano per ciò che riguarda la funzione biologica dell’essenzialismo. Le essenze servono come dei “segnaposto concettuali”, consentono cioè di distinguere i membri di una categoria come simili a causa di una struttura interna, che è comune a tutti loro e che è innata o biologicamente determinata, stabilendo altresì dei confini netti per la categoria, fissi e immutabili.

Da questo punto di vista le essenze sono preziose, perché consentono di esercitare inferenze su base induttiva. L’induzione è quel processo per cui estendiamo la nostra conoscenza a nuove entità a partire dalle proprietà di una categoria, come quando stabiliamo che un certo tipo di fungo nuovo, mai incontrato prima, è velenoso sulla base degli altri funghi velenosi incontrati in precedenza.

Le inferenze che sono condotte dai bambini appaiono essere in accordo con una concezione essenzialista per due aspetti cruciali: primo, i bambini trasferiscono con grande facilità le proprietà interne e le funzioni non visibili da un membro di una categoria a un altro; secondo, i bambini traggono tali inferenze anche quando l’appartenenza alla categoria contrasta con le proprietà percettive superficiali. Se faccio vedere a un bambino un insetto che ha l’aspetto esterno di una foglia, spiegandogli che si tratta di un insetto, egli attribuirà all’insetto, senza alcun addestramento, proprietà da insetto e non da foglia, indipendentemente dal suo aspetto.

Essenzialismo, pensiero teleologico e dualismo intuitivo rappresentano dunque fondamentali adattamenti cognitivi che hanno generato, come sottoprodotti, la nostra inclinazione a credere al sovrannaturale e alle superstizioni in generale. Per quali ragioni biologiche si sarebbero sviluppati questi adattamenti è abbastanza chiaro: gli agenti sono categorie fondamentali per riconoscere potenziali prede, predatori, partner sociali o sessuali. Perciò, se vediamo un ramo spezzato nel bosco tenderemo a interpretarlo come il segno che “qualcuno” è passato di lì, anziché il risultato accidentale di un evento naturale, “qualcosa” come un temporale.

D’altronde, cooperazione e competizione sociale necessitano di raffinate abilità d’interpretazione e anticipazione dei comportamenti altrui: in questo senso, la capacità di rilevare tracce di agentività e d’interpretarle è fondamentale. E il prezzo da pagare per tutto ciò, la nostra credulità, sembra tutto sommato esser valso la pena. >>

GIORGIO VALLORTIGARA

sabato 13 ottobre 2018

Un fantasma per amico - 1

Da dove proviene la nostra inclinazione a credere nel soprannaturale o nelle superstizioni in generale ?
A credere, con sincera convinzione, nell’esistenza di esseri superiori chiamati dei o in una vita dopo la morte ?
Pare che tutto nasca dal fatto che siamo diventati, in sommo grado, dei “dualisti intuitivi”, portati a suddividere il mondo esterno in due grandi categorie separate tra loro: da una parte i ‘corpi’ e dall’altra le ‘menti’.
A questi meccanismi cognitivi, alle loro cause ed alle loro conseguenze, è dedicato l’interessante articolo che segue (diviso in 2 parti), scritto da Giorgio Vallortigara e tratto dal sito della UAAR. 
LUMEN


<< Siamo tutti creduloni, almeno un po’. A tal riguardo l’antropologo cognitivo Scott Atran ha confezionato una divertente messa in scena per i suoi studenti. Egli entra in aula con una scatoletta finemente decorata e dall’aspetto esotico, spiegando che si tratta di un reperto delle sue esplorazioni etnografiche: un oggetto magico che, a detta dei membri della tribù che gliene hanno fatto dono, avrebbe la proprietà di far scomparire qualsiasi oggetto vi venga riposto, qualora l’individuo proprietario dell’oggetto medesimo dubitasse o addirittura osteggiasse gli spiriti che abitano la scatoletta. Scettici e razionalisti quali sono, i ragazzi accolgono l’informazione con manifesta incredulità.

A questo punto, con aria molto seria, Atran lascia la cattedra avvicinandosi a uno degli studenti e, fissandolo negli occhi, lo invita a riporre nella scatoletta la sua patente di guida o a infilarci un dito. E qui succede qualcosa d’interessante. Lo studente ha un attimo di esitazione e spesso esibisce un sorriso tirato, facendo mostra di essere a disagio. Poi di solito fa quel che deve, infilando la patente o il dito nella scatolina magica. Ma quell’attimo di esitazione, che sembra essere un tratto comune riscontrabile negli individui delle culture più diverse, perfino in quelli addestrati ai metodi e alle procedure del pensiero scientifico occidentale, come gli studenti di Atran, è un fenomeno che richiede di essere spiegato.

Come mai – pur asserendo magari di non credere alle superstizioni – cerchiamo di evitare che un gatto nero ci attraversi la strada, facciamo gli scongiuri toccando ferro o leggiamo l’oroscopo sul giornale ? E perché in tutte le culture del mondo le persone hanno sviluppato una serie di credenze relative all’esistenza di entità che violano platealmente alcune fondamentali proprietà del mondo fisico e biologico (fantasmi che passano attraverso i muri, zombie che camminano anche se sono defunti, angeli in sembianze umane capaci di volare, santi in grado di perpetrare varie specie di miracoli, ecc.) ?

Le ricerche condotte in questi ultimi anni da scienziati cognitivi, neuro-scienziati e psicologi evoluzionisti hanno cominciato a gettare un po’ di luce su questi fenomeni. C’è un primo fatto da considerare: gli organismi biologici sono stati foggiati dalla selezione naturale per essere efficientissimi “rilevatori di causalità”. Efficientissimi, ma non accurati. Infatti, i meccanismi che nel sistema nervoso si occupano di rilevare le relazioni di causa-effetto sono basati sulla rilevazione di una relazione di contingenza temporale e, perciò, non sanno davvero se la relazione sia causale o se sia, appunto, una contingenza, una mera correlazione.

C’è un celebre esperimento che lo dimostra. A intervalli casuali si fa cadere un po’ di cibo nella mangiatoia di un piccione. Dopo breve tempo l’animale sviluppa dei movimenti stereotipati, che egli riproduce più e più volte, come per esempio sbattere le ali o girare in tondo su se stesso. Nulla predice l’evento della caduta del cibo nella mangiatoia, ma il piccione si comporta come se le azioni che per caso si è trovato a condurre un istante prima della caduta del cibo fossero la causa della caduta del cibo. Se, per esempio, è successo che poco prima di ottenere il cibo l’animale ha girato il capo per pulirsi le piume del collo, egli in seguito tenderà a ripetere l’azione. Se il premio è elargito con relativa frequenza, accadrà ancora che la pulizia del collo sia seguita, per puro caso, dalla somministrazione del cibo. E questo accentuerà vieppiù il mantenimento dell’azione.

Vi suona familiare ? Vi è capitato di scendere dal letto e di indossare prima la ciabatta sinistra e poi quella destra e di godere poi di una giornata straordinariamente fortunata ? E di decidere perciò il mattino seguente che, sì certo, i due eventi probabilmente non intrattenevano tra loro relazione alcuna, ma, tutto sommato, valeva la pena di riprovarci, indossando nuovamente prima la ciabatta di sinistra e poi quella di destra ? Eh già …

L’ossessione per le relazioni causali non basta però a spiegare la nostra inclinazione al sovrannaturale. Perché, come abbiamo già visto, la nozione di causa implica l’idea di un agente causale. Ed è a un tipo particolare di agenti causali – spesso invisibili – che è dedicata prioritariamente la nostra attenzione: gli agenti animati. Tra le scoperte più singolari delle ricerche sullo sviluppo cognitivo infantile vi è l’osservazione che i bambini di età prescolare tendono a spiegare gli eventi del mondo come prodotti da qualcuno piuttosto che da qualcosa. A un’interrogazione più attenta, si scopre altresì che questo “qualcuno” non si identifica precisamente con una persona umana, foss’anche la mamma o il papà, ma in un non meglio [specificato] agente intenzionale astratto.

Oltre a ciò, i bambini prediligono le spiegazioni funzionaliste degli eventi. Tendono cioè a concepire gli oggetti del mondo naturale come “costruiti per uno scopo” (pensiero teleologico) e manifestano questa tendenza in modo affatto indipendente da quello che gli adulti possano aver insegnato loro. Naturalmente nell’età adulta nuovi sistemi di credenze causali, veicolati dall’istruzione e in generale dalle conoscenze che si acquisiscono, possono sovraimporsi alle concezioni intuitive predisposte dalla nostra biologia, ma non possono eliminarle.

Per esempio, le psicologhe Deborah Kelemen ed Evelyn Rosset hanno mostrato che le persone adulte, quando sono richieste di fornire velocemente un giudizio di plausibilità scientifica ad affermazioni erronee di tipo teleologico (per esempio, “il sole irraggia la terra perché il calore facilita la vita”), appaiono più propense a giudicarle corrette di quanto non lo siano nei confronti di affermazioni che, seppur sbagliate, sono di tipo non-teleologico (per esempio: “le colline si sono formate a causa della glaciazione delle acque sotterranee”).

Sembra dunque esserci un’universale preferenza nella nostra specie a comprendere e spiegare il mondo in termini di scopi e funzioni, di agenti dotati di obbiettivi e intenzioni. Ma da dove viene questa predilezione per gli agenti intenzionali che agiscono mossi da obbiettivi e scopi ? Per quale motivo gli esseri umani ricercano ossessivamente tracce di “agentività” (agency), captando nel fruscio elettronico prodotto da una radio mal sintonizzata le voci dei defunti o attribuendo le catastrofi naturali alla volontà di qualche dio vendicativo irritato dai nostri comportamenti ?

La storia inizia nella culla, nella distinzione che noi compiamo precocissimamente tra gli oggetti fisici, inanimati, e quelli psicologici, animati. La distinzione è così basilare da essere presente anche in specie molto lontane da noi e senza alcuna forma di apprendimento [6]. Gli oggetti animati sono naturalmente anch’essi entità di tipo fisico, ma si muovono spinti da intenzioni e possono essere tristi o allegri, aggressivi o amichevoli. I bambini possiedono una capacità innata di distinguere gli oggetti animati da quelli non animati. E noi adulti possediamo aree cerebrali specificamente dedicate al trattamento degli uni e degli altri tipi di oggetti. >>

GIORGIO VALLORTIGARA

(continua)

sabato 6 ottobre 2018

Il genio di Darwin – 9

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Nona parte. Lumen)


<< La teoria dell'evoluzione è una teoria scientifica e come tale non spiega tutto. Anche nella sua forma più moderna, il neo-darwinismo, non può rendere conto di ogni fenomeno. Ha un suo campo di validità, entro il quale spiega molto bene quasi tutto, ma ha anche regioni dove non è di molto aiuto e altre nelle quali quasi non serve.

Ci sono persone convinte che la teoria evoluzionistica non spieghi nulla — e tutto il presente libro ha l'obiettivo di mostrare come questi abbiano torto —, ma c'è anche chi pensa che possa andare bene per tutto. Pure costoro sbagliano, poiché una teoria che spieghi ogni cosa non è una teoria scientifica, ma un articolo di fede. Vediamo allora in dettaglio che cosa spiega e che cosa non spiega la proposta neodarwiniana, fissando innanzitutto tre date.

La prima risale a tre miliardi e ottocento milioni di anni fa e riguarda la comparsa dei primi esseri viventi sulla Terra. La seconda si aggira invece intorno ai seicento milioni di anni fa e prende il nome di esplosione del Cambriano. Si è trattato, come abbiamo già detto, di un periodo durante il quale, in poco tempo — in verità circa venti milioni di anni —, sulle terre emerse si sono formate quasi tutte le divisioni tassonomiche importanti del regno animale: per la precisione trenta su trentuno-trentadue.

Non sappiamo esattamente che cosa sia successo, ma in tempi relativamente rapidi si sono costituiti tutti i grandi tipi animali. La terza data di cui si deve tenere conto risale a sei o sette milioni di anni fa, quando i primi antenati diretti dell'uomo si sono differenziati più o meno chiaramente dalle scimmie antropomorfe superiori.

Tenendo presente questi tre momenti, possiamo affermare che la teoria dell'evoluzione non spiega quello che è successo prima di tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Spiega abbastanza bene, anche se non del tutto, quello che è accaduto da quel momento fino a circa seicento milioni di anni fa, mentre spiega perfettamente tutto quello che è avvenuto dopo.

La teoria dell'evoluzione non può infatti funzionare in assenza di esseri viventi. Anche ciò che è avvenuto nel periodo che precede la data di tre miliardi e ottocento milioni di anni fa prende spesso il nome di evoluzione, per la precisione evoluzione chimica o prebiotica, ma sarebbe meglio utilizzare un altro termine per evitare ambiguità: non si tratta certo di evoluzione biologica, proprio per la mancanza di esseri viventi.

La spiegazione darwiniana, ma anche quella neodarwiniana, è quindi totalmente impotente nello spiegare quello che è successo prima della formazione del primo genoma, presente in un organismo capace di vita autonoma.

Non è in grado di far luce neanche su quello che è avvenuto nel lungo periodo che ha preceduto l'esplosione del Cambriano. In questo caso non per la mancanza di materia prima — poiché esistono in questo lasso di tempo tanti organismi dotati di genomi che possono portare mutazioni ed essere esposti all'azione della selezione —, ma sono le condizioni ambientali in cui tutto ciò avvenne a sfuggirci quasi completamente.

La spiegazione neodarwiniana nel suo nucleo concettuale vale anche in questo caso, ma non sappiamo bene come applicarla, poiché non conosciamo tutto quello che effettivamente è accaduto nell'ambiente circostante.

La teoria darwiniana spiega invece molto bene quello che è successo negli ultimi seicento milioni di anni, e non è poco, poiché in realtà tutto ciò di cui si parla di norma riguarda proprio questo periodo. Seicento milioni di anni fa non c'erano i Vertebrati, né gli Insetti. A maggior ragione non esistevano i Mammiferi o i Ditteri. Tutti questi si sono formati successivamente, durante il periodo in questione.

Si tratta quindi di un intervallo di tempo molto ampio per il quale abbiamo una conoscenza assai più profonda di tutto quello che è avvenuto dal punto di vista esterno alla vita.

Non bisogna dimenticare però il fatto che, per esempio, ancora oggi siamo all'oscuro di che cosa materialmente abbia portato alla scomparsa dei dinosauri: possiamo fare solo delle ipotesi. Anche in questo caso non è però la teoria dell'evoluzione a essere insufficiente, ma è l'ignoranza delle condizioni di contorno che non ci permette di articolare i dettagli della vicenda.

Al contrario, più ci si avvicina al presente e maggiori sono le informazioni — sulle glaciazioni e inter-glaciazioni, sulla comparsa e scomparsa di montagne e fiumi, sulla saldatura o frattura di continenti —, così che l'apparato teorico della teoria dell'evoluzione è in grado di trovare un'applicazione concreta.

Sbagliano quindi coloro che affermano che la teoria dell'evoluzione rappresenta una spiegazione completa degli eventi biologici, anche se non di molto: tutto quello che è avvenuto di importante sulla Terra viene infatti chiarito dalla proposta neodarwiniana. Esistono poi in questa storia due eventi critici, anche se per motivi assai diversi: l'inizio della vita e la comparsa dell'uomo. >>

EDOARDO BONCINELLI

(continua)