mercoledì 31 maggio 2017

Elogio del Proporzionale

Due interessanti riflessioni (tratte dal web) in favore del sistema elettorale “proporzionale”, considerato il sistema migliore per l’Italia, sia perché più legato alla nostra storia recente, sia perché più congeniale alla nostra mentalità. 
LUMEN


<< La nostra Costituzione ha sempre difeso il paese dall’autoritarismo e continuerà a farlo, se rimane così com’è. L’esempio più chiaro che possiamo prendere è la legge elettorale, quel proporzionale puro tanto vituperato che garantiva la piena rappresentanza del popolo nelle istituzioni.
 
Prendete il 1976. In Italia vige il proporzionale puro, un sistema semplice e collaudato. Ai partiti che raggiungono il quoziente per eleggere, in almeno una circoscrizione, vengono assegnati dei seggi. In base poi al numero delle preferenze ottenute (3 per ogni elettore) si eleggevano i deputati, che andavo a formare il parlamento. Senza alcun sbarramento nazionale, senza premi di maggioranza.
 
Per avere la maggioranza assoluta bisognava prendere il 51% dei voti. Non essendo prevista la formazione di coalizioni, doveva essere il singolo partito a prendere i voti per arrivare al 51%; molto difficile quindi governare da soli, ma questa difficoltà non è un caso.
 
I padri costituenti, reduci da una guerra sanguinaria contro il fascismo, per eliminare ogni pericolo di svolte autoritarie, scelsero un sistema che favoriva la rappresentanza del popolo nelle istituzioni. In questo modo i partiti dovevano mettersi d’accordo sui programmi e le proposte, confrontarsi, trattare, dialogare per poi governare. Questo sistema ha garantito uno sviluppo economico e sociale nel paese senza eguali per decenni.
 
Alla fine della Prima Repubblica, una delle critiche maggiori fu contro la legge elettorale, che, secondo i “nuovi” partiti che stavano nascendo, produceva solo l’inciucio perenne, il ricatto continuo dei piccoli partiti e continue cadute dei governi. Bisognava far fuori i partiti piccoli e garantire la governabilità.
 
Ma torniamo indietro al 1976. (…) L’affluenza è altissima, più del 93%. Da soli la DC e il PCI rappresentavano 26.824.169 cittadini, gli altri partiti che entrarono in parlamento raccolsero in tutto 9.796.395 voti. I cittadini rappresentati nel parlamento della Repubblica erano 36.620.564 suddivisi in 11 partiti. (…) Solo 1.154.526 di cittadini rimasero senza rappresentanza, appena il 3,05%.
 
Questa possiamo tranquillamente chiamarla democrazia parlamentare, dove governabilità e rappresentanza sono garantite, e garantita allo stesso modo è la stabilità politica e istituzionale del nostro paese, senza alcun pericolo di derive autoritarie, che eppure sono state tentate, ma senza alcun successo (finora). (…)
 
Il messaggio è questo: i padri costituenti, nello scrivere la costituzione, avevano la mente proiettata a 50, 100 anni. La legge elettorale proporzionale pura, il bicameralismo perfetto e l’allontanamento di ogni idea di presidenzialismo hanno avuto ed hanno tutt’ora il compito di frenare ogni deriva autoritaria, un vero e proprio meccanismo di auto difesa della democrazia. (…)
 
Se invece la politica nostrana continuerà sulla strada della mitica “governabilità”, vorrà dire che la paura di un premier autoritario, uomo solo al comando, è pura menzogna e quindi una volontà politica ben precisa. >>
 
NICCOLO’ MONTI


 
<< [Sono convinto] che il sistema tedesco (cioè proporzionale – NdL) sarebbe il più adatto a gestire la complicata situazione italiana, (…) anche per ragioni che definirei «antropologiche», oltre che «storiche».
 
 «Storiche» perché mezzo secolo di proporzionalismo (che ha pur sempre accompagnato la trasformazione dell’Italia in un Paese democratico) non si cancella facilmente. «Antropologiche» perché in una materia come questa l’italianità non è una variabile indipendente. E gli italiani sono tutto meno che un popolo che abbia il gusto di ragionare in termini di alternative secche (destra/sinistra, giusto/sbagliato, bene/male, ecc.) e che di conseguenza sia incline a compiere scelte altrettanto nette.
 
Mi rendo conto che il discorso, posto in questi termini, è un tantino generico (starei per dire: meta-politico). Però, non posso proprio fare a meno di pensare che, per il modo di ragionare e di essere dei popoli anglosassoni, (…) un sistema politico imperniato sul maggioritario rifletta abbastanza (non totalmente) quel mondo, quella mentalità, e molto poco, o per niente, il nostro modo di sentire profondo ed anche la nostra mentalità spicciola.
 
Basti pensare, a puro titolo esemplificativo, alle differenze tra i sistemi giudiziari italiano e americano: negli States, dopo un processo, si riesce sempre a capire se, a giudizio di chi pronuncia la sentenza, uno è colpevole o innocente, in Italia no: sei innocente, ma sei un po’ colpevole, e viceversa. (…) Qualcosa di inconcepibile in America.
 
Perché, da noi, è così ? Per tanti motivi (…) In testa al lungo elenco metterei il fatto che siamo gente «sottile», perché affondiamo le radici in un passato che è troppo complesso, che ci ha insegnato a pensare che la nettezza delle posizioni e degli atteggiamenti non solo è “pericolosa”, è (quasi sempre) sbagliata, perché smentita da una realtà troppo spesso contraddittoria, di cui siamo stati testimoni, protagonisti e vittime.
 
Alla fin fine non siamo forse il popolo che ha avuto il più grande Partito comunista dell’Occidente, che però era comunista soltanto un po’? Un partito che era alleato dell’Unione Sovietica, ma non auspicava per l’Italia quel tipo di comunismo, bensì un altro, purché però mantenesse il logo e non contraddicesse (almeno formalmente) i “sacri testi”.
 
Non siamo forse un Paese in cui quasi tutti i partiti, l’Assindustria, ecc., sono “per il libero mercato” purché la cosa non riguardi la Fiat, e purché nessuno di quelli che contano abbia a rimetterci qualcosa ?
 
Non siamo forse un Paese in cui nessuno è in grado di capire come stiano effettivamente le cose in questo o quel settore dell’economia, dal momento che leggendo i giornali troviamo non soltanto interpretazioni diverse, come è giusto che sia, ma dati diversi e addirittura opposti, cifre diverse, per cui al cittadino non resta che fidarsi del proprio naso o ricorrere a scelte fideistiche ? (…)
 
Su niente, da noi, ci sono ragionevoli certezze, tutto è avvolto in una nebbia in cui si fa fatica a distinguere non solo i dettagli, magari anche rilevanti, ma la sostanza stessa delle cose. E in un Paese del genere - che Dio lo benedica, malgrado tutto -uno, ogni cinque anni, dovrebbe recarsi al seggio elettorale e fare una scelta di campo secca, irrevocabile, chiara ? Ma mi facciano il piacere, direbbe Totò.
 
Tornando al punto, se il problema principale del nostro sistema politico è la «stabilità» dei governi, credo che la storia della Germania dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi dimostri che quel modello, preso nel complesso (cancellierato, sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento e "sfiducia costruttiva") ha funzionato egregiamente, salvaguardando identità e governabilità nel contempo.
 
Che bisogno abbiamo di costringerci ad essere (o a far finta di essere) ciò non siamo mai stati e che non saremo mai ? >>
 
S. ROBERTO PICCOLI

mercoledì 24 maggio 2017

Alta velocità

Il libro “Pensieri lenti e veloci” di Daniel Kahneman è un testo davvero interessante, che consiglio a tutti, perché ci aiuta a capire meglio come funzionano i nostri processi mentali. Quella che segue è una delle migliori recensioni trovate sul web (dal sito Matitaverde). 
LUMEN


<< David Kahneman, autore di questo “Pensieri lenti e veloci”, è uno scienziato israelo-americano a dir poco versatile. Ha ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2002, ma i suoi studi (nonché le sue deduzioni) sono risultati validi, o più che validi, in settori che spaziano dalla statistica, alla sociologia, alle neuro-scienze.
 
Spesso, i saggi sulla mente umana fanno poco altro che riproporre con lessico scientifico teorie intuibili – se non già note - sul modo in cui ci formiamo le opinioni, senza comprovare tali teorie con studi statistici consistenti e convincenti. Kahneman si dà una compito diverso, nel libro oggetto di questa recensione.
 
La sua trattazione sul pensiero umano, e su certe cattive abitudini che noi umani possediamo e di cui non ci rendiamo conto, ha un fine pratico. Dopo aver spiegato, con la forza della statistica, quali errori spesso commettiamo nel prendere decisioni importanti durante le nostre esistenze, Daniel Kahneman suggerisce pragmaticamente alcuni stratagemmi per ridurre il più possibile le scelte sbagliate e vivere (o almeno capirci) meglio.
 
“Pensieri lenti e veloci” si propone di mostrare che raramente le scelte umane sono dettate esclusivamente dalla razionalità, anche quando sembrano molto, molto ben ponderate. Difatti, una grossa e ben celata componente delle decisioni che prendiamo tutti i giorni deriva dagli stimoli dettati del cosiddetto "sistema 1" della mente, quello primordiale, istintivo e "veloce" (come da titolo del libro), piuttosto che dal "sistema 2", quello "lento" che dà suggerimenti migliori, perché fondati su fatti concreti elaborati con criterio.
 
Un esempio pratico di questa dicotomia, supportato da uno studio statistico esteso: i giudici più esperti del tribunale della libertà vigilata israeliano sono fortemente influenzati dal proprio livello di appetito nel momento in cui prendono la decisione se garantire la libertà o no a un condannato. Per quanto la cosa appaia crudele e assurda, o kafkiana, un ampio campione statistico ha dimostrato che, nei momenti più lontani dai pasti, i giudici concedono la libertà vigilata in percentuali molto più basse rispetto a quando hanno lo stomaco pieno.
 
Questo è solo un esempio che dimostra come i circuiti primordiali del cervello influenzino pure le decisioni che necessitano di maggiore meditazione. Non solo il "sistema 2" (la nostra parte intelligente) ha molta meno voce in capitolo di quanto si pensi, ma tende anche a nascondere e giustificare l’intervento del "sistema 1".
 
Difficile, per esempio, che il "sistema 2" ammetta di non ricordare un particolare di un evento cui ha preso parte. La mente umana riesce a ricordare solo alcuni momenti salienti degli avvenimenti cui assiste. Piuttosto che riconoscere la propria fallacia, però, il "sistema 2" inventa dettagli di cui di dice convinto ma che in realtà non ha mai visto o ascoltato, e che gli servono solo per creare una storia integra e credibile per sé e per gli altri (la mente umana ama la coerenza nelle storie).
 
Il “Sistema 1” (o “veloce”) e il “Sistema 2” (o “lento”) sono i due antagonisti che dirigono le nostre decisioni, secondo Daniel Kahneman. Nello svolgersi del libro, si rincorrono, si prendono a pugni, infine si alleano. Kahneman introduce poi un terzo protagonista: il fato, inteso come un risultato inatteso dovuto alla natura caotica del nostro mondo.
 
Il sistema “2”, quello razionale e lento, odia il fato. Il pensiero “lento” è convinto di poter controllare ogni fenomeno e non solo non tollera intromissioni del sistema “1”, che tende a nascondere con grandissime panzane, ma anche della casualità, che non riesce proprio ad accettare, perché genera dubbi e incoerenze. A noi esseri umani piace pensare che il fato giochi un ruolo marginale nella nostra vita, convinti di poter dirigere le nostre esistenze dove vogliamo.
 
E' il nostro amore per le storie coerenti che ci porta ad attribuire grandi qualità alle persone di successo, mentre svalutiamo le capacità di chi rimane nell’anonimato, magari perché palesemente meno fortunato in certe circostanze. Noi umani non siamo predisposti a dare la giusta importanza al fato, nelle nostre valutazioni.
 
Questo è riscontrabile in molti ambiti, compreso (tristemente per le nostre tasche) quello della finanza. Kahneman riesce a dimostrare, dati alla mano, che non esistono “esperti di finanza”: le decisioni azzeccate sui mercati un certo anno da un certo gruppo di “guru” vengono puntualmente sconfessate l’anno successivo, data la natura totalmente erratica dei valori finanziari.
 
Ciononostante, a noi umani piace pensare che ci siano persone che hanno talento, anche dove il talento non può giocare alcun ruolo, e compriamo libri di "auto-miglioramento" scritti da gente che ha ottenuto successo, grazie a un po’ di intelligenza e probabilmente molta fortuna. Libri che, intima Daniel Kahneman, non ci serviranno assolutamente a nulla.
 
“Pensieri lenti e veloci” fa presa perché, a differenza di altri saggi sui comportamenti umani, cerca di (e spesso riesce a) rafforzare le teorie con analisi statistiche ben estese. Quest’approccio riflette uno degli argomenti di cui si fa paladino Kahneman: l’invalidità degli studi statistici compiuti su campioni poco rappresentativi della popolazione.
 
L’autore scrive: siccome il cervello umano ama avere ragione, dà grande significato a studi chiaramente poco significativi, in cui il caso gioca un ruolo importante, purché provino le proprie convinzioni superficiali. Una statistica calcolata su piccoli gruppi (esistono formule precise per decidere se un gruppo è valido o no, rispetto alla popolazione totale) può distorcere totalmente la realtà dei fatti che vuole spiegare, eppure spesso la accettiamo, perché fa comodo all'ostinazione della mente di ricevere conferme per le proprie impressioni. (…)
 
Un altro elemento originale di questo tomo è che, a differenza - per esempio - dello studio sul cervello di Leonard Mlodinow, esso non rimane lettera morta, ma suggerisce azioni concrete che si possono intraprendere per cercare di migliorare la qualità della propria vita.
 
Nello specifico, alla fine di ogni capitolo Kahneman propone di “cambiare gli argomenti alla macchinetta del caffè”. Al posto delle chiacchiere dettate dal “sistema 1” (il quale è molto attratto dall’errore e dal gossip sull’errore), la persona addomesticata dalle tesi di “Pensieri lenti e veloci” può dare una prospettiva diversa a quello che ascolta, ponendo l’interpretazione razionale (“sistema 2”) a un livello superiore rispetto all’istinto.
 
E’ pretenzioso immaginare che questo atteggiamento possa migliorare il mondo, ma è apprezzabilissimo che il nostro premio Nobel voglia dare una mano.
 
Nelle classifiche internazionali di vendita libri, questo saggio occupa le prime posizioni da mesi: è innovativo e dà consigli davvero utili nei processi decisionali a tutti i livelli (non solo aziendali: anche quando si compra l’auto, si vota, si sceglie il fidanzato, si prendono cantonate evitabilissime).
 

E’ uno dei pochi saggi che riguardano la mente di cui ci siamo ricordati (o meglio, cui il nostro sistema “2” fa riferimento aggiungendo dettagli a scelta) in occasioni di vita vissuta. Non ci lanceremmo a dire che si tratta di un testo illuminante, ma spenderemo l’aggettivo di utile. >>

MATITAVERDE.IT

mercoledì 17 maggio 2017

Previsioni del Tempo

Quando si parla di “previsioni del tempo” pensiamo subito al tempo meteorologico. Pioverà, non pioverà ? Farà caldo, farà freddo ?
Ma anche i calendari sono, in un certo senso, degli strumenti per la previsione del tempo: il tempo astronomico, il tempo della nostra vita.
Quello che segue è un breve excursus di Eugenio Songia, tratto dal sito 'Il Calendario', sulla storia dei calendari, tra curiosità storiche e retroscena poco noti.
LUMEN

 

<< L'anno solare (...) è il periodo di tempo compreso fra due passaggi successivi del Sole all'equinozio di primavera (misura dunque il periodo di tempo intercorrente tra l'inizio della primavera e l'inizio della primavera successiva), e ha una durata di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi.
 
Vediamo allora come è stato risolto, nel corso del tempo, il problema dello "scollamento" fra anno solare e anno civile, dovuto al fatto che il secondo (di 365 o 366 giorni) non può essere uguale esattamente all'anno solare, che misura, per l'appunto, 365 g, 5 h, 48 m, 45 s .
 
Se l'anno civile non marciasse di pari passo con l'anno solare, si avrebbe uno spostamento delle stagioni nell'arco dell'anno, per cui, ad esempio, l'equinozio di primavera finirebbe per scivolare, col tempo, dal 21 marzo ad aprile, poi in maggio, in giugno, ecc.
 
Tra i calendari antichi merita di essere ricordato quello egiziano, in quanto rassomiglia al nostro attuale. La durata dell'anno era infatti di 365 giorni, divisi in 12 mesi di 30 giorni più 5 giorni complementari.
 
Sembra che ai tempi di Romolo, nel primo periodo della vita di Roma (intorno all'VIII secolo a.C.), l'anno civile fosse di 304 giorni, divisi in 10 mesi, dei quali 6 di 30 giorni e 4 di 31. I nomi dei mesi erano quelli attuali, ad eccezione di gennaio e febbraio, che non esistevano, poiché l'anno veniva fatto iniziare a marzo. Il mese di luglio veniva chiamato Quintilis, cioè "quinto mese": fu cambiato in Julius successivamente, dal tribuno Marco Antonio, in onore di Giulio Cesare (che era nato in quel mese).
 
Anche il mese di agosto inizialmente non si chiamava così: il suo nome era Sextilis, cioè "sesto mese". Fu Cesare Augusto che successivamente ne cambiò il nome in Augustus, a motivo del fatto che in quel mese riportò tre vittorie e mise fine alle guerre civili. E' ovvio che i mesi da settembre in poi sono così chiamati perché inizialmente erano il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo mese dell'anno.
 
Un'ipotesi di spiegazione dell'esistenza, in quell'epoca, di un calendario di dieci mesi fu data nel 1903 da uno studioso di nome Tilak il quale, in un saggio dal titolo “La dimora artica dei Veda”, dimostrò come fosse possibile che gli antichi Romani avessero ereditato quel calendario da una popolazione indoeuropea (i Veda, per l'appunto), abitante in qualche luogo presso il Polo Nord quando il clima in quella zona era temperato.
 
I due mesi in meno sarebbero in relazione col periodo, durante l'anno, di mancanza totale o quasi di luce solare caratterizzante le terre vicino al Polo. Quando questo popolo migrò a Sud, come conseguenza del cambiamento di clima, dovette mutare il calendario, per adeguarlo alle stagioni caratterizzanti il continente europeo, dove anche i mesi più invernali non sono di notte completa; così avrebbero fatto anche i Romani, in un primo tempo aggiungendo ai dieci mesi i giorni mancanti per completare l'anno solare, e in seguito creando due veri e propri nuovi mesi.
 
I mesi di gennaio e febbraio furono aggiunti, secondo la leggenda, da Numa Pompilio (secondo re di Roma), che avrebbe così portato l'anno a 355 giorni (equivalente pressappoco a un periodo di 12 mesi lunari o lunazioni, detto anche anno lunare, che è di 354 giorni, 8 ore, 48 minuti e 26 secondi).
 
Tuttavia la differenza di circa dieci giorni e mezzo fra l'anno solare e quello di Numa Pompilio provocò in breve tempo un notevole distacco tra l'andamento delle stagioni e quello dell'anno civile, per cui si tentò di rimediare aggiungendo, ogni due anni, un tredicesimo mese che avrebbe dovuto essere, alternativamente, di 22 e di 23 giorni.
 
Ma sembra che i pontefici, i quali avevano l'incarico di far eseguire le necessarie intercalazioni al momento opportuno, abbreviassero o allungassero l'anno come loro meglio accomodava per scopi politici, ora favorendo, ora osteggiando chi esercitava le magistrature o i pubblici appalti.
 
Fu Giulio Cesare che, nel 46 a.C., procedette a una nuova riforma, dietro suggerimento, forse, dell'astronomo alessandrino Sosigene e, probabilmente, di vari filosofi e matematici. Dopo aver assegnato la durata di 445 giorni all'anno 708 di Roma (46 a.C.), che definì “ultimus annus confusionis”, stabilì che la durata dell'anno sarebbe stata di 365 giorni, e che ogni quattro anni si sarebbe dovuto intercalare un giorno complementare.
 
L'anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così “bis sexto die ante Kalendas Martias” (= nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo).
 
Con la riforma di Giulio Cesare (che stabilì così la regola del calendario giuliano) l'anno restò diviso in 12 mesi, della durata, alternativamente, di 31 e 30 giorni, con la sola eccezione di febbraio, che era destinato ad avere 29 giorni oppure 30 (negli anni bisestili). Inoltre gennaio e febbraio diventarono i primi mesi dell'anno, anziché gli ultimi, com'era stato dai tempi di Numa Pompilio fino ad allora. E il calendario da luni-solare divenne in questo modo solare, simile dunque a quello degli Egizi.
 
Purtroppo, già nel 44 a.C., subito dopo la morte di Cesare, si iniziò a commettere errori, inserendo un anno bisestile ogni tre anziché ogni quattro anni. A ciò si pose rimedio nell'8 a.C., quando Augusto ordinò che fossero omessi i successivi tre anni bisestili, rimettendo a posto le cose.
 
In quello stesso periodo il Senato decise di dare il nome di Augustus al mese di Sextilis, in onore dell'imperatore. Non limitandosi a ciò, stabilì anche che questo mese dovesse avere lo stesso numero di giorni del mese che onorava la memoria di Giulio Cesare, ossia Julius.
 
Fu così che fu tolto un giorno a febbraio, che scese a 28 giorni (29 negli anni bisestili), per darlo ad agosto, mentre fu cambiato il numero dei giorni degli ultimi quattro mesi dell'anno, per evitare che ci fossero tre mesi consecutivi con 31 giorni. In definitiva, da una situazione di mesi alterni di 31 e 30 giorni si passò alla situazione, un po' più pasticciata, che persiste tutt'oggi.
 
Lo scopo di far aderire il calendario civile all'anno solare non era stato ancora raggiunto perfettamente, poiché quest'ultimo è, come abbiamo visto, circa undici minuti più corto di 365 giorni e un quarto. Questa piccola differenza produce il divario di un giorno intero in circa 128 anni, o di circa tre giorni in 400 anni. Da questa constatazione derivò la riforma attuata nel 1582 da papa Gregorio XIII, dietro proposta di una Commissione (…).
 
Con tale riforma, che fu detta gregoriana (e diede il via al calendario gregoriano), si stabilì che dovessero essere comuni (anziché bisestili) quegli anni secolari che non fossero divisibili per 400. Quindi, in definitiva, rimangono bisestili tutti gli anni non terminanti con due zeri e divisibili per 4, e quegli anni terminanti con due zeri ma divisibili per 400. Dalla data della riforma a oggi, dunque, fu bisestile l'anno 1600, non lo furono gli anni secolari 1700, 1800 e 1900, mentre lo è il 2000. (…)
 
Con l'attuazione della riforma gregoriana si provvide anche a correggere gli errori che erano venuti accumulandosi nel passato: il giorno successivo a quello di giovedì 4 ottobre 1582 divenne venerdì 15 ottobre, attuandosi così un salto di 10 giorni. Fu scelto tale periodo perché in esso non ricorrevano feste solenni.
 
Il calendario gregoriano fu accettato successivamente, anche se gradualmente, dalla maggior parte degli stati civili: in un primo tempo dagli stati con popolazione cattolica (fra il 1582 e il 1584), poi da quelli a popolazione protestante. In Germania entrò in vigore parzialmente nel 1700 e definitivamente nel 1775, in Gran Bretagna nel 1752, in Svezia nel 1753.
 
In altri paesi, tra cui quelli a religione ortodossa, il calendario giuliano è rimasto in vigore fino ai primi decenni di questo secolo. Il governo rivoluzionario russo adottò il calendario gregoriano nel 1918. Il Giappone vi aveva già aderito nel 1873, la Cina nel 1812 (ma in modo completo nel 1949).  

Anche le chiese ortodosse (ad eccezione di quelle di Russia, di Serbia e di Gerusalemme, che hanno mantenuto il calendario giuliano) hanno peraltro adottato un calendario riformato, in cui risultano bisestili, fra gli anni secolari, solo quelli il cui millesimo, diviso per 9, dia per resto 2 oppure 6. In pratica, diventa bisestile un anno secolare ogni 4 o 5. Le chiese ortodosse hanno però mantenuto, in generale, il vecchio metodo di calcolo del giorno di Pasqua. Fa eccezione la chiesa ortodossa di Finlandia, che ha aderito completamente al calendario gregoriano. >>

EUGENIO SONGIA

mercoledì 10 maggio 2017

Pensierini – XXXIII

DECADENZA DELLA RELIGIONE
I motivi della decadenza del sentimento religioso nel mondo occidentale sono tanti, ma i principali, secondo me, restano due: il benessere diffuso, che rende inutili certi tentativi di consolazione ultraterrena, e, subito dopo, il diffondersi della mentalità scientifica, che rende ridicoli i dogmi ed i misteri.
Il benessere, ovviamente, può sempre sparire ed in questo caso le consolazioni religiose possono facilmente tornare in auge.
Per la mentalità scientifica, invece, mi pare più difficile ipotizzare un ritorno al passato; ma l'attrazione naturale degli uomini per il magico, il superstizioso e il soprannaturale potrebbe anche ritornare a prevalere.
Pertanto, quando si parla di declino della religione, “mai dire mai”.
LUMEN


COMPENSAZIONE DEMOGRAFICA
Storici e demografi fanno rilevare che le civiltà, in genere, declinano quando si riduce il tasso di fertilità e quindi la popolazione, per cui il conseguente afflusso degli immigrati dall’estero, oltre ad essere inevitabile, risulta anche numericamente benefico.
Il ragionamento (a parte le complicazioni culturali) può anche essere vero, ma resta valido solo per il passato, perché oggi il problema demografico è diventato tragicamente diverso.
Una volta, infatti, i troppi figli non erano mai un problema mondiale, in quanto le società giovani, popolose ed emergenti andavano semplicemente ad occupare i territori di quelle vecchie e in decadenza. Qualcuno ne aveva un danno, qualcun altro ne aveva un beneficio, ma la cosa finiva lì.
Oggi però non sappiamo più dove andare, perché abbiamo un mondo solo e l'abbiamo occupato tutto.
Quindi anche la demografia avrebbe bisogno di strumenti concettuali nuovi che però, a quanto pare, sembrano ancora mancare.
LUMEN


PARADOSSO
Il matematico e saggista Raymond Smullyan, amava molto i paradossi, che citava spesso e, se del caso, inventava. Uno dei suoi paradossi più famosi è quello c.d. della “borraccia”:
<< In un’oasi sperduta nel deserto, A e B decidono, indipendentemente tra loro, di assassinare C.
A mette del veleno nella borraccia di C, ma poi B la buca e C muore di sete.
Chi è il vero colpevole della sua morte, visto che A ha messo del veleno, che però C non ha bevuto, e B ha bucato la sua borraccia, salvandolo però dall’acqua avvelenata ? >>.
Espressa la dovuta ammirazione per la geniale invenzione, ritengo che il paradosso possa essere comunque risolto seguendo la logica giuridica, cioè cercando i nessi causali tra gli eventi.
1– Come è morto C ? E’ morto di sete.
2– Chi ha causato la sete di C ? L’ha causata B, bucandogli la borraccia.
3– Ergo l’assassino è B, mentre A è colpevole solo di tentato omicidio.
Non voglio certo competere con un cervellone come Smullyan, ma io la vedo così.
LUMEN


IDEOLOGIA
Non c’è dubbio che alla base di ogni forza politica c’è quell’insieme di valori chiamata “ideologia”, che ne costituisce l’identità e la ragione di essere.
Però – come osserva acutamente Aldo Giannuli - c’è modo e modo di rapportarsi alla propria l’ideologia, che può essere utilizzata come uno strumento, ma anche subita come una camicia di forza.
Si possono quindi dividere le forze politiche in 3 grandi categorie:
- Quelle che utilizzano la propria ideologia come una guida all’azione, ma senza mai perdere di vista il realismo politico delle alleanze e delle mediazioni;
- Quelle che ne fanno un dogma “religioso”, dal quale non discostarsi neanche di un centimetro;
- Ed infine quelle che ne fanno solo una foglia di fico, per coprire le proprie nudità politiche e le vere aspirazioni dei suoi esponenti: occupare qualche poltrona.
Guarda caso, conclude Giannuli “I partiti tradizionali a trazione opportunistica hanno sempre una ideologia molto lasca e assai meno osservata”.
E gli elettori che ci credono ? Peggio per loro.
LUMEN


ALLOMETRIA
L'aumento delle dimensioni del cervello nel corso dell'evoluzione umana è forse il caso in cui l’accrescimento differenziale degli organi, chiamato scientificamente "allometria", ha avuto le conseguenze più profonde.
Dice Stephen J. Gould: << Le connessioni neurali in più furono sufficienti a convertire un congegno immodificabile e programmato abbastanza rigidamente in un sistema elastico, a dare al cervello logica e memoria sufficienti a far sì che alla base del comportamento sociale potesse esserci l'apprendimento e non una serie di istruzioni già codificate. >>
La flessibilità, quindi, può essere considerata uno dei fattori più importanti della coscienza umana, in quanto la programmazione diretta del comportamento era divenuta, probabimente, un carattere svantaggioso. 
LUMEN


UOMINI E FOLLE
Una breve citazione di Gustave Le Bon, tratta da uno dei suoi saggi più famosi, 'Psicologia delle Folle':
<< Nelle folle, l’imbecille, l’ignorante e l’invidioso sono liberati dal sentimento della loro nullità e impotenza, che è sostituita dalla nozione di una forza brutale, passeggera, ma immensa.
Per il solo fatto di far parte di una folla, l’uomo discende di parecchi gradi la scala della civiltà. Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è un istintivo, per conseguenza un barbaro.
Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un’altra parte, preferendo “deificare” l’errore, se questo le seduce.
Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima. >>
Le Bon, come noto, scrisse la sua opera verso la fine dell'ottocento, ma da allora ad oggi non sembra che sia cambiato poi molto.
LUMEN

mercoledì 3 maggio 2017

Breve compendio di Antropologia Criminale

Le considerazioni di Gianni Pardo sui presupposti antropologici del nostro sistema penale ed i suoi inevitabili limiti (dal suo blog). Lumen
 

<< È inutile chiamare “mostro” il criminale: che ci piaccia o no, è un essere umano. Capirlo – non giustificarlo – non può che arricchire le nostre conoscenze. Chissà quanti libri di criminologia sono pieni di parole d’oro, su questo argomento. Ma è difficile avere grande fiducia negli psichiatri, quando decidono che l’imputato di un grave delitto è sano, seminfermo o totalmente infermo di mente. La loro scienza è troppo giovane ed incerta.
 
A vederli lì, gli imputati, mentre rispondono al giudice o parlano col loro avvocato, sembrano normali. Ignoranti, magari. Palesemente bugiardi, magari, ma normali. Salvo si tratti di criminali professionisti, coloro che fino al giorno prima hanno frequentato gli assassini dicono sempre la stessa cosa: “Pareva una brava persona”, “Non ce lo saremmo mai aspettato”. “Sì, a volte esagerava, ma non aveva mai fatto niente di simile”. Com’è che lo stesso uomo risulta poi totalmente infermo di mente ?
 
L’Amministrazione della Giustizia si basa sulla responsabilità, e questa a sua volta sulla libertà: “L’hai fatto, potevi non farlo, sei responsabile d’averlo fatto”. L’infermità mentale toglierebbe la libertà e dunque la responsabilità. Ma lo schema zoppica. Da un lato, nemmeno Immanuel Kant è riuscito a dimostrare la libertà, il libero arbitrio o comunque si voglia chiamarlo.
 
Dall’altro, se il cervello di un criminale è una macchina, e può essere guasto come può essere guasto un televisore, anche il cervello sano ha un funzionamento sottoposto al determinismo. Ché anzi, scientificamente, questa è l’unica conclusione possibile. Per conseguenza bisognerebbe assolvere tutti dai delitti di sangue, in quanto non responsabili, e poi rinchiuderli per sempre in galera, perché la società non vuole simili “irresponsabili” in giro.
 
Non sono paradossi. Il diritto penale è fondato su un’ambiguità. Reputa gli uomini responsabili per il male fatto, ma la libertà non è dimostrata. Poi però di alcuni dice che non sono responsabili, perché non erano liberi. In realtà, la libertà è un dato metafisico indimostrato. Teoricamente, o siamo liberi tutti, anche i pazzi, o non è libero nessuno. La distinzione è peggio che discutibile.
 
Anche ragionando terra terra, è evidente che l’idiota (in senso tecnico) non è responsabile delle sue azioni, ma quando si arriva allo schizofrenico è veramente un altro paio di maniche. Se tutti fossimo sottoposti ad un serio esame psichiatrico, saremmo stupiti di scoprire quanti schizofrenici abbiamo intorno, e dunque quanti “totalmente incapaci di intendere e di volere”, dal punto di vista del diritto penale, ci sono in giro. Chi non ci crede, chieda lumi ad uno psichiatra. Per giunta, diagnosticare la schizofrenia non è sempre facile.
 
Una persona di buon senso si rassegna tuttavia a questo fascio di contraddizioni perché bisogna pur vivere. Se non ammettessimo la libertà, non ci sarebbero regole, morale, legge. E crollerebbe la società civile. Ammettiamola, dunque, la libertà, ma non dimentichiamo che lo facciamo perché ci conviene, non perché sia dimostrata o logicamente plausibile.
 
Sia detto di passaggio (per quelli che non si sono mai posto questo genere di problema), la sensazione che ognuno ha di essere libero non prova nulla. Ed anche la convinzione comune non prova nulla. La credenza di essere Napoleone non fa sì che un pazzo sia Napoleone.
 
Ognuno di noi crede di percepire la realtà com’è, ma ognuno di noi la filtra attraverso il suo essere. Si pensi ad una partita di calcio: l’azione è unica, ma i trentamila spettatori la vedono, fisicamente, da trentamila punti di vista diversi. E questo è niente rispetto alle mille facce dell’esistenza.
 
Come si può ritenere che abbiano la stessa nozione del denaro il bambino nato ricco e quello nato povero? La donna intelligente e la donna stupida vivono forse le stesse esperienze, hanno forse la stessa idea degli uomini? I figli di genitori ammirevoli e i figli di ubriaconi violenti non possono avere la stessa concezione della famiglia. L’uomo bello e brillante come potrebbe avere le stesse esperienze, e dunque lo stesso giudizio della realtà, rispetto ad un uomo brutto e insignificante?
 
Tutto ciò corrisponde ad una parola ormai entrata nell’uso comune: “condizionamento”. Ma il fatto di averla sentita tante volte induce all’errore di prenderla sottogamba. Considerando che il determinismo psichico è l’unica ipotesi valida dal punto di vista scientifico, collegando condizionamento e determinismo si ha, per così dire, il destino di una persona. In via puramente teorica, data la base fisiologica, e data l’esperienza, si dovrebbe sapere tutto, di un essere umano.
 
Per tutte queste ragioni, bisogna (…) chiedersi come funzioni, visto dall’interno, il cervello del criminale. >>
 

<< Nessuno sfugge al condizionamento. Persino chi reagisce ad esso, lo fa in chiave di condizionamento. Colui che odia la religione perché da ragazzo gliel’hanno imposta, in materia di religione non è “libero” quanto lo è colui per il quale la religione è qualcosa di cui ha sentito parlare ogni tanto.
 
Il condizionamento a volte è accettato acriticamente, a volte criticamente, ma non è mai ininfluente. Come mai divengono tanto più spesso musicisti i figli di musicisti o di appassionati di musica classica? La ragione è semplice: sono stati allevati in quell’ambiente. E come dimenticare che erano professionisti della musica anche i padri di Mozart e Beethoven? Ciò significa che nel corso dei secoli chissà quanti geni musicali si sono perduti: perché non hanno avuto l’occasione di accostarsi alla musica, Essi stessi non hanno mai saputo di quali talenti disponevano.
 
Nell’opposta direzione, chi è violento spesso è cresciuto in una famiglia violenta, e per lui la violenza fa parte del “linguaggio”: superato un certo livello di calore, nella discussione, si passa alle vie di fatto. È ciò che quell’uomo ha visto fare, e spesso ha anche subito, sin da piccolo. Né diversamente vanno le cose per le persone nelle cui famiglie c’è l’abitudine di gridare. Qui non si passa alle percosse, ma le “discussioni” sono sempre alterchi sonori e per così dire pubblici.
 
Se invece si è cresciuti in una famiglia in cui non si alza la voce e non si è stupidamente aggressivi, la violenza diviene inconcepibile non soltanto riguardo agli altri membri della famiglia, ma anche riguardo al cane o al gatto. La violenza fa orrore, e sembra l’irruzione della preistoria nel presente.
 
Per motivi endogeni od esogeni, il cervello del criminale non possiede i normali freni e le normali inibizioni. Non a caso “asociale” è spesso usato come sinonimo di “criminale”. Come può, chi è vissuto in un ambiente di ladri, avere scolpito nell’anima il principio che “le cose altrui non si toccano”? Naturalmente ciò non significa che egli non potrebbe contro-reagire – per esempio vedendo in quale scarsa considerazione sociale viene tenuto chi ruba – e divenire scrupolosamente onesto. Ma la parola “ladro”, per lui, non si riferirà mai a qualcosa di estraneo e nebbioso.
 
Il violentatore, l’assassino, il “mostro” sono persone nella cui mente, per una serie di circostanze, mancano le controspinte ai comportamenti “selvaggi”. Lo stupratore forse non ha conosciuto l’amore ed è uno che, nel proprio imprinting, ha l’idea che le donne siano prede. Oggetti da catturare, usare, e magari sopprimere. Infatti fra le vittime più frequenti della violenza maschile ci sono le prostitute: proprio perché il loro mestiere le “reifica”, agli occhi dei maschi primitivi.
 
Il fenomeno è generale. Se la presenza di qualcuno è avvertita come un ostacolo alla realizzazione dei propri desideri, si affaccia l’idea di ucciderlo, esattamente come si scosta una sedia che ostruisce il passaggio. In particolare, i figli che uccidono i genitori sono spesso economicamente viziati: giovani che hanno finito col considerare il denaro che gli dànno i genitori non un regalo ma un diritto, tanto che il diniego di ulteriori somme è, per loro, un’ingiustizia e perfino l’inadempimento di un dovere. (…)
 
La mente del criminale è primitiva e caratterizzata da un’estrema povertà. Il soggetto segue pulsioni elementari, quasi bestiali. Apprezza soprattutto il piacere fisico, anche quando è estremo e pericoloso per la salute, e lo stesso piacere sessuale non è per lui il punto d’arrivo dell’amore, dell’amicizia, o quanto meno di un gioco liberamente consentito, ma somiglia all’acquisto, quando non alla rapina, del corpo di qualcuno. Sempre perché l’altra persona è considerata alla stregua di un oggetto.
 
Il denaro è spesso il valore supremo, in quanto chiave di tutti i vantaggi pratici, e di tutto ciò che si può comprare. E infatti la maggior parte dei ragazzi che hanno ucciso i genitori lo ha fatto per denaro. In generale i criminali sono incapaci di godere delle tante cose che non costano nulla e che valgono molto: il godimento estetico, per esempio, il piacere della cultura e della conversazione. Anche se l’onestà e le “gioie dello spirito” hanno come prezzo lo studio, la disciplina, e il lavoro, valgono ben più di quanto costano.
 
Il criminale è un uomo sfortunato. Ha qualcosa che non va nel suo cervello, nel suo imprinting e nel suo condizionamento. Rimane vicino ai livelli elementari ed in un certo senso bestiali. Così entra in conflitto con una società giunta ad un modello di vita più evoluto e la maggior parte delle volte finisce col pagarla. Non ha certo una vita felice.
 
L’asociale è un attardato, nell’evoluzione. Forse non dovremmo disprezzarlo perché, scientificamente, non può essere diverso da ciò che è. Ma se teoricamente la società non ha il diritto di condannarlo, praticamente ha il diritto di difendersene. “Non potevi non uccidere, e per questo non ti condanniamo; ma poiché noi non vogliamo essere uccisi, non possiamo non rinchiuderti per sempre in una prigione. Scusaci, è il nostro condizionamento”. >>
 
GIANNI PARDO