venerdì 30 aprile 2021

La cicala e la formica – 2

Continuano le considerazioni di Gaia Baracetti sui limiti ed i difetti del risparmio finanziario (dal suo blog - seconda parte).

LUMEN


<< Solitamente il denaro perde progressivamente di valore, perché c’è l’inflazione. Anche il grano lasciato nel deposito troppo a lungo si deteriora, ma non per questo ci si aspetta di vederlo aumentare. Semmai si cerca di conservarlo bene e di garantire che l’agricoltura continui a funzionare anno dopo anno, per tutti.

Si potrebbe fare lo stesso con il denaro: se dopo anni e anni ancora non hai avuto modo di spenderlo o di metterlo a disposizione di qualcun altro, forse non ti serviva così tanto. Ma la nostra società, anziché sulla sostenibilità a lungo termine, è fondata sulla crescita, e crescita significa avere sempre di più anche se questo, ovviamente, a lungo andare non è possibile. I risparmiatori, quindi, non si accontentano che il frutto del loro lavoro sia protetto: vogliono che cresca.

Qui, in realtà, potrebbero anche incontrarsi due interessi complementari con profitto di entrambi. L’idea dell’investimento non è male: chi ha soldi e non sa cosa farsene li dà a chi ha idee e non ha soldi. Ci sono però alcuni problemi con questa pratica.

Innanzitutto, c’è sempre il rischio che l’idea che sembrava buona per qualche motivo non funzioni, e allora chi ha prestato soldi deve accettare di perderli. Altrimenti, se il debitore non è in grado di risarcire, questo significherebbe che il creditore si aspetta di essere risarcito dalla collettività, e questo non è giusto perché non è stata la collettività a decidere di finanziare un dato progetto.

Al contempo, chi presta soldi accetta il rischio di perderli e in cambio dell’accettazione di questo rischio pretende che i suoi soldi gli vengano restituiti con gli interessi. Detta così non ha completamente senso, ma la nostra società si è assestata su questa pratica (un’alternativa potrebbe essere prestare senza interessi perché ci si aspetta che tutti traggano beneficio da un buon investimento, ma raramente questo accade).

Passiamo al secondo problema con questo sistema: che i soldi creano soldi. Siccome l’incremento è percentuale, ma quello che conta ai fini pratici è l’assoluto, a parità di rendimento chi più presta guadagnerà di più, e sarà incrementalmente sempre più ricco rispetto a chi presta meno soldi perché ne ha di meno. Questo sembra essere uno dei meccanismi alla base della tendenza generale all’aumento delle diseguaglianze.

Tra l’altro, permettere ai soldi di crescere senza che la persona che li possiede debba fare fatica significa permettere alla gente di non lavorare anche se sarebbe in grado di farlo, e di essere pure ricca. Bastano pochi anni di lavoro molto redditizio, o addirittura un’eredità, e chi ha non deve muovere un dito mentre chi non ha si spacca la schiena.

Questo, semplicemente, non mi sembra giusto, anche perché, per l’appunto, è la società e non il singolo a stabilire quale lavoro è redditizio e quale no, e quindi chi ha avuto dalla società il permesso di guadagnare di più e di fatto il suo reddito non dovrebbe approfittarsene così tanto a spese della società stessa. >>

Il terzo problema è che un aumento di denaro nel tempo premia inevitabilmente chi è più vecchio e ha investito i propri soldi da più anni. Si potrebbe vedere questo fattore come un elemento di riequilibrio tra generazioni, dato che chi è più vecchio è meno in grado di lavorare, ma allora a cosa servono le pensioni?

È vero che le pensioni stesse si finanziano con gli investimenti, ma perché questo meccanismo di finanziamento funzioni bene serve un’economia in costante crescita. Se l’economia non cresce più, o i vecchi rinunciano ai profitti garantiti dai loro investimenti, o i giovani devono risarcirli a spese proprie, e a me sembra che sia questo quello che succede.

Un ulteriore problema è che la possibilità di vedere un investimento crescere nel tempo incoraggia l’estrazione del massimo delle risorse subito, a spese di chi verrà dopo. Se io voglio che ci siano abbastanza caprioli da cacciare anche l’anno prossimo, quest’anno ne ammazzo pochi. Se invece io so che più caprioli prendo adesso più ce ne saranno in futuro, sono incoraggiato ad ammazzarli anche tutti.

Una delle cause della catastrofe ambientale in corso, nonché delle diseguaglianze generazionali, è che si è premiato chi prelevava e non chi lasciava, chi teneva per sé e non chi condivideva con tutti.

Certo, in questo modo si è anche generata ricchezza, ma siccome la ricchezza umana distrugge la ricchezza ambientale, massimizzare la ricchezza umana incoraggiando meccanismi accumulativi e distruttivi ha finito per distruggere anche le basi materiali su cui si basava. Chi ha messo da parte i soldi guadagnati costruendo una fabbrica adesso dovrebbe restituirli a suo nipote che non può mangiare perché quella fabbrica ha ucciso tutti i pesci.

C’è poi un quinto problema, che è quello che si sta manifestando più esplicitamente in questi giorni. Si tratta del problema degli intermediari. La maggior parte delle persone non ha il tempo, le competenze e il talento per riconoscere con sicurezza un buon investimento.

A questo punto può fare due cose: comprare una casa o affidarsi a un intermediario. Lasciamo stare la casa, l’investimento sicuro per eccellenza, che tanti danni ha fatto al nostro paese proprio per questo motivo, e passiamo alla questione degli intermediari. Anche questo, da un certo punto di vista, potrebbe sembrare giusto: io pago qualcuno perché mi offre un servizio, e ci guadagnamo in tre: io, lui, e la persona o l’azienda a cui diamo i soldi.

La delega è sempre un problema nelle società umane, perché deresponsabilizza: ci si aspetta un risultato con fatica minima. (…) Una gestione più diretta è più responsabilizzante e dovrebbe generare meno abusi, perché ognuno dovrebbe prendersi personalmente la responsabilità delle scelte che fa e della fatica di portarle avanti. >>

GAIA BARACETTI

(continua)

domenica 25 aprile 2021

La cicala e la formica – 1

Sin dai tempi della favola del titolo, il risparmio è sempre stato visto come un atto virtuoso, un esempio da seguire senza riserve.

Ma, come spesso succede, ogni medaglia ha il suo rovescio e Gaia Baracetti - in questo lungo pezzo tratto dal suo blog – cerca di esaminare anche i difetti del risparmio, soprattutto sotto il profilo dell'eccessiva 'finanziarizzazione' dell'economia.

Il post è stato suddiviso in 3 parti per comodità di lettura.

LUMEN


<< Partiamo con il concetto di base: l’idea di mettere da parte dei soldi. La necessità di immagazzinare la produzione attuale in vista del futuro nasce, stando a quanto ho letto, con l’agricoltura.

Le società di cacciatori e raccoglitori semplicemente si spostano (ciclicamente) seguendo le loro fonti di cibo. Se non ne prelevano eccessivamente, c’è qualcosa da mangiare anche per l’anno dopo. L’investimento, quindi, non consiste nell’accumulo, ma nello sforzo di contenere collettivamente il proprio prelievo. Si investe in un ambiente sano e in una popolazione stabile, e ci sarà sempre abbastanza per tutti.

Le società agricole, invece, sono per definizione sedentarie. Inoltre sono in grado di generare un surplus, un eccesso di cibo rispetto a quello che serve in una data annata, e di immagazzinarlo nell’eventualità di un periodo di crisi futuro. Secondo alcuni (Jared Diamond è l’esempio più famoso), le diseguaglianze nascono proprio da qui: una volta che vi è un surplus, servirà qualcuno che lo controlli, lo difenda e lo distribuisca. Da qui nascono gerarchie, burocrazie, stati, diseguaglianze economiche e sociali.

Infatti, la gestione del surplus non necessariamente è sempre stata una questione individuale. Nel famoso episodio biblico delle vacche grasse e vacche magre, Giuseppe consiglia al faraone di trovare un uomo saggio che amministri la sovrapproduzione imminente in vista della carestia futura predetta dal suo sogno.

La nostra società preferisce invece il sistema del risparmio diffuso e personale; l’articolo 47 della Costituzione recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.”

Si tratta di una logica basata su un principio decentralizzante e individual-familiaristico (la proprietà della casa e della terra, il risparmio), e uno centralizzante (la grande industria, il controllo e coordinamento del credito). Adesso che ci troviamo davanti al risultato dell’investimento senza freni nel cosiddetto “mattone”, cioè la cementificazione del paese, oltre che ai danni ambientali e alle complicazioni sociali causate dai “grandi complessi produttivi del Paese”, mi chiedo se questo articolo non sia, come tanti altri, da superare.

Ammetto comunque che nella nostra società è considerato necessario poter accantonare del denaro che ci può servire nei momenti di emergenza. Dico che è considerato necessario, e non che è necessario, perché ci sarebbero altre possibilità: queste emergenze potrebbero essere affrontate con l’aiuto della collettività, che ad esempio potrebbe finanziare spese mediche improvvise, aiutare a ricostruire una casa bruciata, prestare del denaro senza interessi per costruire un’abitazione, e così via. Forse questo sistema si presterebbe ad abusi, ma anche, evidentemente ed enormemente, quello attuale.

C’è un’altra cosa da sottolineare. Un conto è accantonare grano, un altro accantonare soldi. Il grano, o qualsiasi altro bene materiale, è concreto, non si moltiplica se non con grande fatica e lavoro, e può esistere in ogni dato momento solo in quantità limitate – c’è infatti un limite a quanto grano si può produrre, immagazzinare e conservare.

I soldi, invece, sono una pura convenzione e non conoscono limiti (ancor di più oggi che non sono legati all’oro). Sono i meccanismi di una società e le decisioni di chi comanda a stabilire che moneta si deve usare, che valore ha, come il suo valore cambia nel tempo e come deve essere distribuita.

I soldi hanno un legame molto tenue, che si va sempre più affievolendo, con il mondo materiale e delle cose reali. La distribuzione del denaro ha conseguenze enormi su questo mondo materiale, ma questa distribuzione segue leggi umane arbitrarie e contingenti, a differenza di quelle della fisica.

Infatti, mentre un uomo che lavori tantissimo e sia bravissimo non può ottenere dal suo lavoro un prodotto che superi quello del vicino, più pigro, di cento o mille volte, è normale e accettato nella nostra società e a livello globale che due persone che lavorano lo stesso numero di ore percepiscano l’uno uno stipendio anche cento o mille volte superiore a quello dell’altro.

Essendo i soldi un costrutto, permetterne l’accumulazione e l’accantonamento senza affrontare il problema del legame tra questi soldi e il mondo reale crea (...) un popolo viziato e irresponsabile.

I soldi non valgono niente se non c’è un’economia reale funzionante – se, cioè, la collettività che dovrebbe garantire quel denaro non è in grado di garantire anche dei beni e dei servizi da comprare con esso; ma l’iper-finanziarizzazione, la complicatezza e l’astrazione estrema della nostra economia rendono questo fatto invisibile, così come rendono invisibile la dipendenza dell’economia dallo stato delle risorse materiali.

Per cui siamo abituati a pretendere una pensione, uno stipendio, una rendita, non acqua pulita, cibo, spazio, ecc.; siamo convinti che da qualche parte “i soldi ci sono”, anche se attorno a noi tutto è degrado.

Abbiamo staccato l’economia e il lavoro dalla materia, e il risultato è che così saremo sempre di più risparmiatori frustrati, perché non capiremo che fine hanno fatto i nostri soldi né che i soldi, di per sé, non significano nulla. Inoltre, crediamo di aver diritto a dei soldi senza porci il problema di contribuire allo sforzo collettivo che mantiene un’economia in cui quei soldi abbiano un senso.

Dal mio punto di vista, quindi, è discutibile l’accumulo, è discutibile l’accumulo individuale, è discutibile il concetto di denaro, e non abbiamo ancora finito. (…) >>

GAIA BARACETTI

(continua)

lunedì 19 aprile 2021

Un Vangelo troppo segreto

Tutti conoscono il Vangelo di Marco, considerato dagli studiosi il più antico dei 4 canonici.

Pochi sanno però che a Marco è attribuito anche una sorta di 'vangelo segreto', ovviamente apocrifo, la cui storia avventurosa merita di essere raccontata.

Ce ne parla Massimo Introvigne in questo pezzo tratto dal sito CESNUR.

LUMEN.


<< C’è un gruppo di studiosi che ha contestato il “Codice da Vinci” da una prospettiva opposta a quella di molti cattolici e protestanti. Sono i seguaci di Morton Smith (1911-1991), il famoso e controverso storico della Chiesa, docente alla Columbia University di New York, secondo cui Gesù Cristo era il capo di una conventicola esoterica in cui si entrava con un rituale di iniziazione segreto che comprendeva elementi chiaramente omosessuali.

Evidentemente il Gesù eterosessuale, sposato alla Maddalena e con figli di Dan Brown, non poteva piacere agli smithiani.

Morton Smith si era conquistato fama e onori accademici annunciando nel 1958 di avere scoperto nella biblioteca del monastero di Mar Saba, in Palestina, inserita in un libro del 1646, la copia scritta a mano da un monaco circa un secolo dopo di un frammento di una lettera asseritamente scritta da San Clemente di Alessandria (?-215) a un certo Teodoro.

Nella lettera – oltre a parlare male degli gnostici carpocraziani – si fa stato dell’esistenza di una versione segreta del Vangelo di Marco, e se ne cita in particolare un brano parallelo al noto episodio della resurrezione di Lazzaro.

Il giovane che Gesù amava”, un personaggio che assomiglia a Lazzaro, in questo Vangelo Segreto di Marco non è morto (tanto che “un grande grido si ode dalla sua tomba”) ma solo malato. Gesù lo riaccompagna a casa, e “dopo sei giorni”, come il Maestro gli aveva chiesto, Lazzaro gli si presenta “con un panno di lino sul corpo nudo”. Gesù “rimase con lui quella notte” e “gli insegnò i misteri del Regno di Dio”.

Secondo Morton Smith si ha qui la prova di cerimonie iniziatiche in cui i discepoli sperimentano una “esperienza allucinatoria” e ottengono una “libertà dalla Legge (ebraica)” che li porta a una strettissima unione spirituale con Gesù, “completata da un’unione fisica”. Detto in termini meno accademici, Gesù è il capo di una setta esoterica come tante apparse in seguito nella storia e che esistono ancora oggi, che pratica rituali di magia sessuale, nella specie omosessuali.

Per alcuni anni un buon numero di studiosi ha creduto all’esistenza del Vangelo Segreto di Marco sulla base della testimonianza di Morton Smith, delle fotografie da lui scattate della lettera del monaco settecentesco, e delle autentiche di una serie di specialisti greci cui Smith mostrò a suo tempo le fotografie e che certificarono che si trattava in effetti di un testo scritto nel Settecento e su carta dell’epoca.

Naturalmente, che il monaco del Settecento avesse copiato fedelmente un testo perduto di san Clemente non si poteva provare direttamente, ma Morton Smith e i suoi seguaci assicuravano che lo stile era così tipicamente di Clemente da rendere la tesi dell’autenticità praticamente certa. E Clemente era abbastanza vicino ai tempi apostolici per dovere sapere di che cosa stava parlando: se affermava che esisteva un Vangelo Segreto di Marco, questo doveva esistere.

Dal momento che molte ipotesi di Morton Smith su insegnamenti esoterici di Gesù Cristo, diversi da quelli essoterici a tutti noti, erano piuttosto spericolate, molti storici e teologi si rifiutavano di seguirlo fino in fondo.

Ma fino a qualche anno fa i più si limitavano a sostenere che il Vangelo Segreto di Marco citato da Clemente era in realtà un testo gnostico posteriore al Vangelo di Marco che tutti conosciamo, imitato da questo e da collocare nella categoria dei Vangeli apocrifi, dove storie più o meno bizzarre su Gesù sono (...) più o meno comuni.

C’era anche, per la verità, chi sosteneva che la lettera di Clemente era falsa e che il fatto che il manoscritto fotografato da Morton Smith fosse andato perduto nel monastero di Mar Saba e non si trovasse più per sottoporlo a ulteriori esami era un po’ troppo comodo. Ma queste voci erano messe a tacere: si rischiava di passare da bigotti, che volevano soffocare la voce scomoda di un professore progressista gettando dubbi indegni sulla integrità di un illustre docente.

Un libro di Stephen C. Carlson (“The Gospel Hoax: Morton Smith's Invention of Secret Mark”) presenta ora il caso sotto una luce completamente diversa.

Afferma che le fotografie sono più che sufficienti. Applicando tecniche di investigazione forense non note negli anni 1950 Carlson dimostra persuasivamente – tanto da avere convinto tutti i recensori specializzati in criminologia – che è possibile provare non solo che il testo è stato prodotto nel XX secolo, non nel XVIII, ma anche che l’autore dello scritto è lo stesso Morton Smith.

Le prove calligrafiche, estremamente tecniche, sono di per sé sufficienti. Ma – come molti falsari – Smith non ha resistito alla tentazione di lasciare una firma e ha inserito un’allusione a un metodo di roduzione del sale assolutamente ignoto nel XVIII secolo – per non parlare dell’epoca di san Clemente – noto come “metodo Morton”, e altri riferimenti alla parola “Smith”.

Inoltre la famosa prova costituita dall’“inconfondibile” stile di Clemente tradisce ancora il falsario, perché esagera. Ci sono stilemi e modi di esprimersi unici utilizzati da Clemente, ma nelle sue opere ricorrono una volta ogni due o tre frasi. Qui in un solo breve testo ce ne sono decine.

Dopo lo scandalo letterario del “Codice da Vinci”, interamente costruito su documenti noti da vent’anni come falsi (...), siamo di fronte a uno scandalo accademico che interesserà meno il grande pubblico, ma assai più esplosivo. (…)

Da questo punto di vista, un rispettato professore della Columbia University – un tempio del progressismo politico e religioso – come Morton Smith appare, a posteriori, come la semplice versione accademica di un Dan Brown qualunque. >>

MASSIMO INTROVIGNE

martedì 13 aprile 2021

La cultura dell'immagine

Stiamo passando lentamente dalla cultura del libro a quella dell'immagine, ma – a quanto pare – le conseguenze per la nostra inteligenza non sono molto positive.

Ce ne parla Roberto Pecchioli in questo post – combattivo e polemico – tratto dal sito di Accademia Nuova Italia.

LUMEN


<< Da quando esistono strumenti per valutare il quoziente intellettivo si riscontrò, con la diffusione dell’istruzione, della lettura, della libertà di pensiero, un costante aumento dell’intelligenza. Uno studioso neozelandese, James R. Flynn, nel 1987 dimostrò che il Q.I. medio era aumentato di almeno 8 punti in 40 anni.

La tendenza si sta invertendo, l’effetto è capovolto: nei paesi occidentali il Q.I. scende di mezzo punto annuo dal 2000. Stiamo diventando più stupidi. Nulla avviene per caso, dietro le quinte agisce un’intelligenza sopraffina che non potrebbe resettarci se non avesse preventivamente conseguito il nostro imbarbarimento morale e intellettuale.

Il 'Grande Reset' avanza senza essere percepito: il moto è più veloce verso la fine. Adesso, chi l’ha determinato è in grado di dare la spallata decisiva: modificare la nostra natura. E’ l’effetto della civiltà dell’immagine, basata sulla superficialità, l’accumulo indifferenziato di informazioni, lo specialismo che rende esperti solo di un minuscolo ambito della conoscenza.

E’ anche l’esito dell’affidamento agli apparati artificiali per compiere qualsiasi operazione cognitiva, disattivando intere aree del cervello. La terza e la quarta rivoluzione industriale-informatica e robotizzazione, non hanno bisogno di intelligenze speculative.

Diventiamo masse che non si pongono domande, addestrate all’uso dei dispositivi informatici, dalla mente binaria come gli apparati tecnici. Il pensiero critico è abolito, la cultura riservata a minoranze destinate al comando: basta l’immagine, il frammento, il flusso di informazioni disperse, delle quali devono essere trattenute solo quelle utili al mercato.

L’uso compulsivo di computer e smartphone diminuisce la capacità di calcolo, concentrazione, ragionamento, inibisce l’esercizio della memoria.

Di qui l’impoverimento del linguaggio. Non solo la diminuzione della conoscenza lessicale, ma la perdita della capacità di elaborazione linguistica che permette il pensiero complesso. Di qui anche la progressiva scomparsa di tempi e modi verbali, un pensiero declinato al presente, incapace di proiettarsi nel tempo. L’uomo resettato pensa, parla e si comporta al presente.

Senza le parole, il pensiero è impossibile. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c'è pensiero senza parole. Il potere, padrone delle parole, si fa proibizionista. Il sistema di dominio non ha bisogno di nascondersi; dichiara apertamente il suo programma, tanto la maggioranza non è in grado di comprendere.

E’ un mondo abitato da una massa acritica, immersa in paradisi artificiali audiovisivi e chimici in cui l’uomo è un codice numerico. Nel 2020 è avvenuto il salto di qualità. Il potere è diventato biopotere, gestione dei corpi e delle menti. Le masse tornano al ruolo di materiale plastico, in un mondo prigione di cui siamo i detenuti. La ricreazione è finita.

La futura umanità sarà ignorante e meno intelligente. Vivrà di impulsi eterodiretti, istinti primari senza pensiero né spirito. Il Grande Reset ci considera greggi destinate al mattatoio, a cui andremo contenti, poiché la menzogna sarà costante e suadente. Nessuno avrà gli strumenti culturali, intellettuali e morali per oziose speculazioni sul bene e sul male: non “servono” alla vita animale.

Pensare crea problemi: meglio seguire la corrente. Credevamo di avere voce attraverso le procedure dell’intangibile democrazia. Finito, residui di un passato in cui il potere doveva mostrare una certa dissimulazione. Hanno comprovato, con il Coronavirus, che la massa è immobile. Non reagisce, non si oppone: paura più manipolazione. Crede ciò che le viene fatto credere, il cervello ha disattivato i sensori del dubbio, perfino della vecchia, sana diffidenza popolare. (...)

La chiusura della mente produce danni irreversibili. L’uomo pos-tmoderno crede di sapere tutto, racchiuso negli apparati artificiali che usa come giocattoli. Senza curiosità, svaluta tutto ciò che non comprende con un sapere parcellizzato. Il potere ha diffuso un’ignoranza di massa attraverso cui riesce a far credere quello che le generazioni precedenti non avrebbero accettato per evidenza e senso comune. Meno intelligenti, più conformisti. (…)

L’uomo contemporaneo disprezza quanto ignora, convinto che l’arte, la bellezza ereditata siano “location” per spettacoli, messaggi pubblicitari e foto con al centro “Io”. Gòmez Dàvila gridò invano che le cattedrali non furono costruite dall’ente per il turismo. (...)

L’ignorante di ieri sapeva di non sapere, quello di oggi crede a qualsiasi sproposito, purché condiviso dalla maggioranza e rivestito dall’autorità degli “esperti”. E’ un accecato volontario, manipolato da un sistema educativo che crea ignoranti con titoli accademici, sciocchi di nuovo conio, indocili, arroganti, pieni di sé.

Ne scrissero [negli anni '80] Fruttero e Lucentini ne 'La prevalenza del cretino'. (...) Che cosa avrebbero scritto se avessero conosciuto l’ignorante da tastiera con la vita scandita da mi piace, non mi piace, pollice alzato o rovesciato come la plebe nel Colosseo?

L’ignoranza ha salito gli scalini del governo. Non scegliamo i migliori, ma quelli che ci assomigliano nei difetti. (...) Affidiamo decisioni capitali ad autentiche nullità, che lasceranno il campo a personaggi di analogo livello. Più diventiamo ignoranti, più siamo manipolabili, soggetti a credere ogni menzogna, tra superstizione della tecnica e fede cieca nella scienza. >>

ROBERTO PECCHIOLI

mercoledì 7 aprile 2021

Vincitori e vinti

Nel suo libro “Armi, acciaio, malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni”, Jared Diamond cerca di applicare i criteri dell’evoluzionismo darwiniano alle diverse società umane, descrivendone i successi (e gli insuccessi) nel corso del tempo.

Il libro racconta pertanto la diffusione della specie umana al di fuori della natia Africa, la conquista delle terre emerse, l’invenzione dell’agricoltura, la nascita delle città ed il sorgere delle civiltà, con la loro diffusione in ondate successive.

La recensione che segue è tratta dal sito “Pikaia”. LUMEN


<< Nella prefazione [del libro], di Luca e Francesco Cavalli Sforza, si introduce la domanda principale alla quale l’opera vuole dare una risposta scientificamente accurata: perche’ gli europei sono stati in grado di conquistare in pochi secoli tutto il mondo?

Per molto tempo le ragioni addotte sono state superficiali, ideologiche, spesso razziste: si e’ insistito sulla presunta superiorita’ biologica dell’uomo europeo. Diamond analizza il problema in tutta la sua complessita’, cercando di introdurre seri elementi scientifici di discussione, quali la biogeografia, l’ecologia, l’etologia e la storia della tecnologia e dell’organizzazione sociale umana.

Nella prima parte del libro Diamond presenta il quadro iniziale, e pone in evidenza come gli uomini che popolavano la Terra alla fine dell’ultima glaciazione si presentassero fondamentalmente con le stesse potenzialita’ ai nastri di partenza: intorno all’11000 a.C., con la colonizzazione del continente americano, gran parte delle terre abitabili erano ormai popolate da Homo sapiens, e non c’erano ancora chiari segni di un diverso sviluppo delle popolazioni stanziate nelle varie aree geografiche.

A questo punto Diamond parte alla ricerca delle ragioni dell’indubbio successo del continente euro-asiatico, iniziando questo percorso con interessanti esempi tratti dalla evoluzione storica di alcune popolazioni dell’Oceania e dalla piu’ nota vicenda della colonizzazione del Nuovo Mondo da parte di Pizarro e Cortés.

Tutta la seconda parte del libro e’ dedicata all’analisi della nascita e dello sviluppo di quell’attivita’ umana che puo’ davvero considerarsi condizione sine qua non per lo sviluppo delle societa’ umane: l’agricoltura, e cioe’ la domesticazione di piante ed animali con lo scopo non solo di migliorare ed aumentare le disponibilita’ alimentari, ma con tutta la cascata di conseguenze che cio’ ha comportato.

L’uomo si è trasformato, laddove è risultato piu’ conveniente e dove le risorse naturali lo hanno consentito, da cacciatore-raccoglitore qual e’ sempre stato, in agricoltore. Questo evento importante si e’ verificato in epoche diverse ed in modo indipendente in almeno cinque regioni della Terra, come la Mezzaluna Fertile, il Mesoamerica, la Cina, la regione Andina e gli USA Orientali.

Col tempo gli agricoltori hanno inoltre imparato ad esercitare la selezione artificiale su piante ed animali, migliorando sempre di piu’ la tecnologia associata. L’allevamento di animali di grossa taglia e’ invece particolarmente riuscito soltanto in Eurasia, per la disponibilita’ di un gran numero di animali adatti alla domesticazione.

Gli animali domestici si riveleranno un vero e proprio elemento vincente in quanto forniranno all’uomo non solo proteine, protezione dal freddo, concime e forza motrice, ma anche superiorita’ militare sotto forma di mezzo per sbaragliare il nemico ed anche come veicolo di pericolosissime malattie! Finora la presunta superiorita’ dell’uomo europeo non emerge dalle evidenze: tutte le popolazioni venute a contatto in un secondo tempo con le specie utili offerte dalla natura hanno rapidamente imparato ad usufruirne.

Un altro importantissimo fattore analizzato da Diamond e’ quello bio-geografico: il continente euroasiatico e’ molto vasto, non interrotto da insormontabili barriere geografiche, molto vario dal punto di vista climatico (e quindi biologico) e con un asse di sviluppo di tipo Est-Ovest, particolarmente favorevole: tutte queste caratteristiche hanno favorito l’espansione non solo dell’agricoltura, ma anche delle sue inevitabili conseguenze: la scrittura, la cultura, la tecnologia, e con esse la crescente complessita’ dell’organizzazione sociale.

Nella Terza Parte dell’opera si parte dal cibo per giungere alle armi, all’acciaio e alle malattie, sviluppando in dettaglio le questioni legate alla terribile arma in piu’ nelle mani dell’uomo europeo rappresentata dalle malattie epidemiche (tifo, peste, colera, tubercolosi, morbillo, ecc.), derivate dal lungo contatto con gli animali domestici e verso le quali gli europei avevano gia’ da tempo sviluppato una certa immunita’.

Un altro fattore decisivo per lo sviluppo di una societa’ umana e’ legato alla scrittura: questa nasce da semplici necessita’ di contabilita’ e classificazione, per poi diventare piu’ raffinata e contribuire alla efficace diffusione delle idee, e di conseguenza favorisce il miglioramento della tecnologia.

La tecnologia, a sua volta, si autocatalizza in virtu’ della sua capacita’ di espansione tra societa’ in competizione: ancora una volta l’Eurasia, con scarse barriere lungo il suo asse pricipale Est-Ovest, con una popolazione numerosa e con l’apporto di un’agricoltura che fornisce eccedenze alimentari, ha contribuito piu’ di ogni altro continente all’avanzamento tecnologico.

La quarta ed ultima parte del libro e’ un ideale giro del Mondo, nel quale vengono analizzate le vicende delle sue piu’ importanti regioni: Australia e Nuova Guinea, Cina, Polinesia, Eurasia e America, Africa.

In conclusione, si tratta certo di un’opera che “pretende” di condensare 13.000 anni di storia in poco piu’ di 300 pagine, ma che riesce con la forza e la chiarezza delle argomentazioni a sfatare definitivamente il mito della superiorita’ biologica dell’uomo europeo, e che soprattutto vuole trovare le vere ragioni di una altrettanto indubbia supremazia dello stesso negli ultimi secoli. (...)

Molto resta ancora da fare per comprendere appieno le cause che hanno determinato alcuni grandi eventi del passato: ad esempio, ci si chiede come mai la Cina, la societa’ piu’ tecnologicamente avanzata fino al 1400, non sia arrivata per prima a conquistare il Nuovo Mondo e l’Australia, o cosa e’ successo alla Mezzaluna “Fertile” per non essere piu’ tale. (…)

Ma la lezione che si puo’ trarre e’ molto importante: le condizioni cambiano, e la supremazia nel passato non garantisce lo stesso primato nel futuro. >>

PIKAIA

giovedì 1 aprile 2021

Considerazioni sulla pena di morte

Il post di oggi è opera dell'amico Sergio Pastore, che ringrazio, e contiene alcune riflessioni sulla pena di morte, e la sua attuale utilità e sensatezza.

Il testo è molto interessante, anche se, personalmente, non mi trovo d'accordo su tutto; proverò pertanto ad esporre le mie considerazioni in sede di commento.

LUMEN


<< In occidente cresce l’avversione per la pena di morte considerata retaggio di un passato barbaro. La pena capitale è applicata ancora in paesi come la Cina e l’Iran o l’Arabia Saudita, ma anche negli USA, sebbene non sia qui ormai quasi più eseguita. Il tentativo di Trump di riabilitare la pena di morte negli ultimi giorni del suo mandato non avrà probabilmente successo. Ma riconsideriamo il pro e il contro di questa pena con semplici parole. Chi scrive non è un giurista o un filosofo, crede tuttavia d’interpretare il comune sentire.

L’abolizione della pena di morte

Confesso di essere stato da sempre contrario alla pena di morte, per ragioni umanitarie e sentimentali che non sono tuttavia irrazionali. La morale può cambiare ma si fonda sempre sul comune sentire e una lunga tradizione. Persino il linciaggio, che noi consideriamo barbaro e inammissibile (cosa da 'far west' o paese sottosviluppato) ha in un certo senso una sua giustificazione: si applica ancora (per es. in India o in Messico) in flagranza di reati particolarmente odiosi, dunque a caldo.

Applicare la pena di morte a freddo sembra, specie oggi in occidente, contro natura e perciò riprovevole. Alla stragrande maggioranza della gente, per non dire la totalità, ripugna uccidere non solo un proprio simile, seppur colpevole di atrocità, ma persino un animale.

L’inibizione a uccidere sembra insita nella natura umana e anche animale, almeno tra intraspecifici (il lupo non uccide un altro lupo rivale e soccombente se questi si arrende presentandogli il collo). In guerra si uccide per necessità, per non essere uccisi, ma le guerre, per quanto frequenti nella storia umana, rappresentano situazioni eccezionali.

Ma in situazioni normali l’uomo comune non uccide per inibizione naturale. Resterebbe però da spiegare la necessità del quinto comandamento, non uccidere: fa presumere che l’omicidio non fosse così raro, anzi piuttosto diffuso. Comunque Mosè disceso dal Sinai con le famose tavole, che spezzò sdegnato per l’idolatria dei suoi correligionari, fece passare immediatamente a fil di spada 1500 di loro! Non si trattò evidentemente di omicidio, ma di condanna a morte di reprobi. Il quinto comandamento vieta dunque l’omicidio ingiustificato.

E infatti la pena di morte ha trovato sempre giustificazioni sul piano legale, filosofico e teologico. La Chiesa cattolica l’ha sempre ammessa, financo nel Nuovo Catechismo del 1992, anche se circoscritta a particolari circostanze.

E favorevole alla pena di morte fu anche Kant che considerò ridicolo il trattato di Beccaria “Dei delitti e delle pene”. Kant disse persino “che una condanna a morte doveva essere eseguita anche se il mondo stesse per crollare, affinché sia reso onore alla giustizia”. Sembrano le parole di un fanatico più che di un filosofo. Quanto a Beccaria è vero che fosse contrario alla tortura e alla pena di morte, ma ritenne la pena di morte lecita in alcuni casi (per esempio durante rivolte o rivoluzioni). Beccaria fece comunque scuola e la pena di morte cominciò ad essere abolita (il Gran Ducato di Toscana l’abolì per primo).

E tuttavia duecento anni dopo il problema resta. Dicevo in apertura che io sono stato sempre contrario alla pena di morte. Ma recentemente ho avuto qualche ripensamento, soprattutto dopo aver letto il parere di due filosofi contemporanei che io apprezzo e financo ammiro.

Costoro si dichiarano non solo favorevoli alla pena di morte, ma si dicono persino disposti ad applicarla con le proprie mani! Confesso la mia sorpresa in un primo momento, anzi ne ero scandalizzato. Due occidentali di vaste letture e cognizioni, intellettuali di ​mestiere, che si dicono disposti a – per esempio – mettere il cappio intorno al collo di Saddam Hussein! Com’è possibile?!

Persino la Chiesa cattolica ha cambiato opinione in merito alla pena di morte, dopo averla giustifica per ben due millenni. Bergoglio l’ha infatti abolita, almeno in Vaticano, e auspica la sua abolizione nel mondo intero. Anche l’ONU ritiene questa pena barbara e si augura venga cancellata. Tuttavia anche la morale cattolica giustifica l’uccisione di una persona se ciò avviene per legittima difesa. Vi sono dunque situazioni in cui uccidere è permesso o persino necessario (in caso di aggressione personale e ovviamente nei conflitti armati).

Sono però questi casi eccezionali. Il problema che si pone oggi, almeno in occidente, è se sia lecito condannare a morte omicidi e pluriomicidi o rei di atroci delitti. Le anime belle rispondono: no, anche in questi casi la pena di morte è non solo riprovevole, ma persino illegale e immorale. Al colpevole deve essere data una seconda chance di reintegrarsi nel comune consorzio. L’ucciso non può avere purtroppo questa seconda chance! Ma consideriamo ora la questione da un punto di vista filosofico e poi pratico.

La ragion pura

Non c’è dubbio che da un punto di vista filosofico o anche semplicemente logico la pena capitale non si giustifica. Il nesso tra causa effetto è universalmente riconosciuto. Ciò significa che ogni azione, persino un pensiero, ha una causa ovvero è la sintesi di varie premesse di cui possiamo non essere a conoscenza. I motivi del nostro agire non ci sono tutti noti, è difficile trovare a volte il motivo di certe azioni scellerate o stupide, irrazionali.

Il ladro o l’assassino agisce ovviamente nel proprio interesse ed è considerato responsabile delle sue azioni e quindi imputabile. Ma perché compie un’azione che può costargli il carcere o persino la vita? Può sperare naturalmente di farla franca, di sfuggire alla giustizia (questa speranza è uno dei fattori che può motivare la sua azione).

Chi scrive, e sicuramente pure chi legge queste righe, non ha intenzione di assaltare una banca o di liberarsi di un rivale o avversario uccidendolo. La stragrande maggioranza della gente, la quasi totalità, non ha intenzioni simili – e di ciò la comunità si rallegra. I tre comandamenti fondamentali sono: non rubare, non uccidere, non dire il falso. Abbiamo visto che l’inibizione a uccidere sembra essere iscritta nei nostri geni e forse il comandamento non era necessario. Invece l’inclinazione a mentire e a rubare sembra essere più diffusa ed era perciò necessario porre dei paletti.

Chi scrive e chi legge non dice il falso e non ruba, vive dunque rispettando la morale

comune. Ma chi ruba, mente e uccide lo fa per una necessità interiore. Anche queste azioni – che riteniamo immorali e puniamo, persino con la pena di morte – hanno delle cause, alcune note, altre meno. Non c’è causa senza effetto. Noi buoni e giusti viviamo secondo la comune morale che abbiamo introiettato copiando i comportamenti di chi ci stava vicino, dapprima i genitori, poi i compagni, poi la società. Ci siamo conformati al comune sentire senza accorgercene – E NON ABBIAMO PERCIÒ ALCUN MERITO.

Le circostanze poi – ambiente familiare, civiltà, cultura, benessere, agi – ci consentono di vivere bene da perfetti conformisti. Molti ladri e assassini non hanno avuto questa fortuna, hanno alle spalle una vita di miseria e magari anche atrocità e sono perciò più inclini a commettere azioni che la comunità punisce, deve punire per forza. La punizione si giustifica, ne va della sopravvivenza della società (se tutti rubano, mentono e uccidono la società si dissolve, abbiamo il caos, il bellum omnium contra omnes).

Ma possiamo anche condannare a morte, spegnere una vita? Persino la morale cattolica diceva fino a ieri (poi venne Bergoglio): sì, è lecito. Dente per dente, occhio per occhio. La legge del taglione è considerata oggi barbara, eppure era in un certo senso logica e giusta. E chi aveva tolto la vita a un altro doveva avere la stessa sorte, morire.

Ma noi siamo oggi più civili, comprensivi, morali e buoni – e perciò vogliamo che anche l’assassino si redima e possa essere reintegrato nella società (chissà che non inventi qualcosa di straordinario, componga una sinfonia che manco Beethoven o qualche altro capolavoro). Eh quanto siamo superiori e buoni noi, signora mia! Non siamo quattro scalcinati del far west pronti a impiccare senza processo un ladro colto sul fatto.

La ragion pratica

Abbiamo visto e sappiamo che non c’è effetto senza causa, quindi anche l’agire del ladro e dell’assassino ha delle cause che non sono tutte note. La legge ne tiene infatti conto e riconosce ormai da tanto tempo le attenuanti che mitigheranno la pena. Riconosciamo che ciò è giusto, logico, razionale. Bergoglio è molto più avanti di tanti suoi critici tradizionalisti (non per niente ha abolito dogmi e teologia, ormai improponibili).

Resta tuttavia il problema se sia giusto lasciare in vita chi ha ucciso, si è perciò reso colpevole del massimo delitto immaginabile, togliere la vita a qualcuno. Che non può essere risarcito in alcun modo! La ragion pratica potrebbe indurre a sopprimere chi mette in pericolo la pace pubblica o persino la sopravvivenza della società.

Pur essendo stato sempre contro la pena di morte – per le ragioni addotte – sono oggi perplesso, anche perché trovo stupido il garantismo a buon mercato di certa gente.

In chiusura vorrei però offrire ai garantisti o buonisti un argomento psicologico contro la pena di morte. Chi è a favore deve avere anche il coraggio, direi l’obbligo morale di applicare la pena. Come i giurati sono chiamati per legge a emettere un giudizio, anche i favorevoli alla pena di morte devono accettare di far parte del plotone di esecuzione e premete il grilletto spegnendo una vita.

Non sarà facile, ve lo garantisco. Non per niente nelle carceri americane si tiene conto della psicologia degli esecutori della pena di morte: solo uno dei tre addetti sarà il vero esecutore, ma non saprà di esserlo, potrà quindi illudersi di non essere stato lui a sopprimere una vita. >>

SERGIO PASTORE