Ovviamente anche questo, come tutti i miti, finì ben presto per essere demolito, ma la sua suggestione, in qualche modo, rimane ancora oggi, come ci racconta Marcello Veneziani in questo gustoso testo, tratto dal suo sito personale.
Perché idealizza la natura e non vede le sue crudeltà e le sue asprezze, la “natura matrigna” su cui scriverà Leopardi; idealizza l’uomo allo stato di natura, lo ritiene naturalmente buono, sano, sincero, poi corrotto dalla civiltà e dalle sue costruzioni politiche, sociali, economiche e religiose. Nega la visione di Hobbes e Machiavelli circa la natura ferina dell’uomo e abbraccia un’idea quasi puerile dell’uomo e della sua innocenza originaria.
Ma il selvaggio è mosso dalle pulsioni, dagli istinti, a partire dall’istinto di sopravvivenza, non è buono in natura, è crudo e brutale, come del resto è la vita. L’egoismo è una molla originaria e non sopraggiunta con la civiltà, e la generosità è solo un riflesso ulteriore o un’estensione degli istinti protettivi verso chi sentiamo appartenerci.
Così le disuguaglianze sociali non sono solo il frutto di costrizioni sociali, dominazioni e sfruttamento, come pensava Rousseau; esistono già in natura perché gli uomini nascono diversi per sesso, forza, indole, intelligenza e fattezze. Genuino o ingenuo non sono sinonimi di indole buona e animo puro.
Il mito del buon selvaggio ribalta l’idea cristiana del peccato originale e l’idea laica del progresso che procedendo ci rende migliori. Ma ripercorre da un verso la nostalgia del paradiso originario, l’Eden perduto; e dall’altro s’intreccia col pensiero illuminista fondato sul primato della ragione contro l’oscurantismo della religione.
Il tema si comprende meglio partendo dal suo rovescio: la negazione del naturale è l’artificiale o il culturale, l’opposto della natura è la macchina o la civiltà, la tecnica o la storia, la modernità o la tradizione?
La sua antitesi è l’egoismo che produce sopraffazione e dominio, o è la religione, con le sue falsità e costrizioni, a partire dal peccato originale? E il ritorno alla natura è una liberazione dell’uomo attraverso un umanesimo “eco-compatibile” o è liberazione dall’uomo e dunque dall’umanesimo e dalle sue costruzioni artificiali, fino a liberare “l’animale che mi porto dentro”?
Rousseau è il più importante teorico del “buon selvaggio”, questa figura che percorre come un’ombra la società del Settecento. Rousseau è prigioniero di quell’ambiguità incompatibile tra spirito romantico e spirito illuminista. (...)
Nel mito del buon selvaggio, che sorge non a caso agli albori del capitalismo, la società del Settecento rivede i suoi canoni e cerca di stabilire un rapporto più verace e diretto con la natura a partire dal corpo, le sue pulsioni sessuali, i suoi richiami. Avverte di essersi troppo allontanato dagli elementi naturali, dalla terra, gli animali e le piante.
Il pensiero “selvatico” accompagnerà come un fratello nascosto la filosofia, l’arte e la letteratura: riemergerà in forme diverse, da Schopenhauer a Nietzsche, rispetto alla linea razionalista e storicista, idealista e scientista, oltre che nel naturalismo artistico e letterario, in una parabola che si potrebbe riassumere così: da Rousseau il pensatore a Rousseau il doganiere, pittore della natura esotica.
Per lungo tempo restò una linea d’ombra, una cultura alternativa, minoritaria rispetto ai due secoli dominati dal primato della storia e dal conflitto tra Progresso e Tradizione, tra Fabbrica e Altare (incluso l’altare della patria). Riemerse poi sull’onda della contestazione giovanile, in una nuova forma anarchica, permissiva, egualitaria ed ecologista.
E oggi che fine ha fatto il Buon Selvaggio? Dove abita o si nasconde? Il selvaggio oggi assume un duplice aspetto, endogeno ed esogeno.
Il primo è il selvaggio di ritorno, come si dice dell’analfabeta di ritorno, ovvero la crescita di un tipo selvatico, neo-primitivo, nel pieno della società avanzata, che usa la tecnologia, ascolta musica, “beve” i video e segue i trend epocali, ma in una specie di regressione bestiale; vive di istinti e d’istanti, totalmente scollegato da ogni passato e futuro, da ogni cultura e tradizione, seguendo solo ciò che gli va di fare o ciò che “lo fa stare bene”.
È’ ormai diffusa e non da oggi, questa tendenza selvatica, che nulla ha a che vedere con “l’omo salvatico” di cui scrivevano cent’anni fa Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, che non era solo selvaggio ma colui che “si salva”, in lotta con la modernità. Il neo-primitivismo ebbe prima una connotazione artistica, poi indicò la tendenza neo-barbarica dell’uomo massa, descritta da Ortega y Gasset.
Oggi il selvaggio è accessoriato, tecno-dotato, ma usa un linguaggio basic, ha modi rozzi e mente incolta, sconnessa, incivile che risponde a impulsi e riflessi condizionati e vive solo del momento.
Ma accanto al selvaggio endogeno o indigeno è cresciuto con gli anni anche il selvaggio esogeno o allogeno, venuto da lontano, magari sui barconi, in fuga da società povere e primitive. Se vogliamo, i flussi migratori sono il girone di ritorno, e la nemesi, della colonizzazione e dello schiavismo.
Ridotta a razzismo ogni lettura critica del fenomeno migratorio, si è sviluppato in Occidente un nuovo mito del buon selvaggio applicato al migrante venuto dall’Africa o dai paesi arretrati: i malvagi siamo noi, lui è più vero, più genuino, naturaliter generoso e non ancora corrotto dalla civiltà. Così tornammo al selvaggio di partenza, il viaggio circolare è compiuto; fine della storia, in ogni senso. >>
MARCELLO VENEZIANI