Le grandi transizioni energetiche, che hanno accompagnato da sempre la storia dell’umanità, sono sempre
molto complesse.
Ma
quella che ci attende nel secolo XXI, ovvero la transizione,
inevitabile, dai combustibili fossili
(petrolio & co.) alle energie rinnovabili, minaccia di essere molto
difficile da gestire, anche perché, probabilmente, molto più rapida di
quanto ci aspettiamo.
Ce ne parla Luca Pardi, presidente di ASPO Italia, in questo breve post tratto da “Risorse, Economia,
Ambiente”.
LUMEN
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Nell’ultimo numero di “Le Scienze”, il prof. Vaclav Smil [afferma] che
la transizione fra fonti fossili e fonti rinnovabili sarà lenta. (…)
In
breve, Smil argomenta come segue: l’ottocento non fu, come molti
credono, il secolo del carbone, ma (ancora) quello della legna,
parimenti il novecento non è stato il
secolo del petrolio, ma quello del carbone.
Le sostituzioni sono sempre state lente e quella delle rinnovabili non farà eccezione (…).
Ci sono almeno due motivi per mettere in discussione queste affermazioni: il primo è che è opinabile parlare di sostituzione in quanto le diverse fonti fossili si sono affiancate per soddisfare la domanda crescente di energia.
Il
secondo, e secondo me più importante, riguarda la prevalenza delle
diverse fonti nei diversi periodi storici. Se l’affermazione di Smil è
vera per quanto riguarda i valori
assoluti, non lo è sul piano dell’importanza relativa.
Quest’ultimo punto può apparire più formale che sostanziale, ma in realtà non lo è. E’ vero che in valori assoluti il peso del carbone è minoritario in tutto il XIX secolo, ma il carbone rese possibile le prime fasi della rivoluzione industriale che esordì nell’isola Britannica dove le foreste erano finite.
Lo sviluppo della macchina a vapore e la crescita del settore siderurgico non sarebbe stata possibile con la legna e il carbone di legna. Il XX secolo è il secolo del petrolio non nella quantità assoluta, ma, ancora, nella centralità che questa fonte gioca fin dall’inizio del secolo, soprattutto a partire dalla meccanizzazione dell’agricoltura e dallo sviluppo della mobilità di uomini e merci.
E’ vero che nel XX secolo il carbone resta a lungo la fonte fossile dominante soprattutto per la produzione di energia elettrica. Ma nei paesi industrializzati e con l’accelerazione della globalizzazione economica in tutto il mondo il petrolio diventa in modo crescente la condizione necessaria per ogni altra produzione, inclusa l’estrazione del carbone e del gas, la loro distribuzione, la costruzione e la manutenzione degli impianti.
La questione non ha dunque un valore puramente accademico, ma una profonda valenza geopolitica, sociale ed economica.
La
lotta per il controllo e la messa in sicurezza delle aree di produzione
del petrolio sono intimamente connesse con l’origine, gli sviluppi e
l’esito delle due guerre mondiali
e degli altri confronti e scontri internazionali, che, non a caso,
hanno come principale palcoscenico il Vicino Oriente sede dei maggiori
giacimenti petroliferi conosciuti.
Sono le tensioni sul fronte della produzione petrolifera che innescano le principali crisi economiche nella seconda metà del secolo scorso, ed è una crisi che gioca un ruolo, a mio parere centrale, nell’innesco e nello sviluppo di quella iniziata nel 2007 con la cosiddetta crisi finanziaria dei “subprime”.
Il fatto è che qualsiasi perturbazione del mercato petrolifero manda le sue onde attraverso il sistema economico globalizzato creando inedite e imprevedibili, almeno secondo le scuole classiche di economia politica, figure di interferenza.
Il tempo presente è il tempo degli idrocarburi e, in particolare, del petrolio, per il semplice fatto che senza i suoi prodotti, i diversi tipi di combustibili liquidi, non esiste praticamente nessuna struttura del sistema industriale e non esistono le sue connessioni, il petrolio è la linfa vitale della civiltà attuale.
Possiamo essere d’accordo sul fatto che la sua sostituzione con le rinnovabili possa essere un processo lungo, ma si deve ammettere che il discorso allora si sposta sulla questione dell’esaurimento degli idrocarburi e sui loro effetti ambientali, sull’inesorabile caduta dell’EROEI del petrolio e del gas, sull’imminenza del picco, sull’entità dei suoi effetti e sulla difficoltà delle classi dirigenti globali di vedere il problema a causa della narrativa economica corrente che informa visioni del mondo, a mio modo di vedere, del tutto irrealistiche.
In questo frangente gli scienziati si trovano nella difficile situazione di non poter essere catastrofisti, pena il rischio di essere ignorati, e di non poter nemmeno, come molti, fanno suonare il ritornello del “tutto va ben madama la marchesa”.
Il
punto è che se si immagina il mondo andare avanti in configurazione
Businnes As Usual (BAU) per tutto il XXI secolo si può anche
esercitarsi, come fa Smil, a disegnare
il decollo delle nuove rinnovabili secondo una curva di apprendimento
analoga a quella seguita dalle altre fonti in passato.
Ma se questo non è realistico, se si conviene sul fatto che il BAU non sia sostenibile, allora il problema è come accelerare il processo di sviluppo delle rinnovabili, di come trovarne di nuove e più efficienti, di come affiancarle a opportuni mezzi di accumulazione e immagazzinamento. Insomma di come creare un’infrastruttura energetica sostenibile che, va da se, si dovrà sviluppare all’interno di strutture sociali altrettanto sostenibili.
Il secolo XX sarà ricordato come il secolo del petrolio, il XXI, in assenza di una transizione sostenibile, rischia di essere ricordato come quello del collasso della civiltà. E’ arrivato il tempo in cui gli scienziati si devono rendere utili per tutti. Molti lo hanno capito e questo ci da qualche speranza. >>
LUCA PARDI