giovedì 28 ottobre 2021

Il buio oltre la siepe – 1

La difesa dell'ambiente risulta, almeno a parole, una delle preoccupazioni più ricorrenti nei discorsi dei governanti e dei decisori pubblici. Ma, secondo gli ambientalisti più preparati, potrebbe essere ormai troppo tardi.

Di questa opinione appare, per esempio, Luca Pardi, autore del testo che segue, tratto dal suo blog 'Commenti Personali' (prima parte).

LUMEN.



<< L'estate appena trascorsa ha avuto il tema dell’ambiente come sottofondo costante. Le inondazioni, gli incendi, i record di temperatura, una quantità di eventi minori e, alla fine, l’ultimo rapporto dell’ONU sul cambiamento climatico. Rapporto che ha fatto notizia, forse, per due giorni.

Ma, a parte l’inguaribile tendenza alla superficialità dei media, tendenza che in pochi giorni fa scomparire temi che dovrebbero restare nel dibattito pubblico a favore di notizie “vendibili”, non mi è sembrato di notare fra gli ambientalisti un cambio di marcia oltre le solite lamentele, speranze, “soluzioni”.

La crisi ambientale attuale è determinata, a mio parere, dal raggiungimento dei limiti fisici e cognitivi dell’espansione umana.

I limiti fisici si presentano come un progressivo aumento della viscosità nel flusso di risorse che dall’ecosfera vengono convogliate nell’antroposfera e come progressiva (ed evidente) saturazione degli ecosistemi terrestri e marini con i rifiuti delle nostre attività economiche e sociali. (...)

I limiti cognitivi riguardano principalmente l’incapacità collettiva di vedere i limiti fisici da parte di una maggioranza schiacciante della popolazione umana e dei suoi leader politici. Una combinazione di inganno deliberato e autoinganno giuocano un ruolo essenziale in questo contesto perché fanno parte, probabilmente, del nostro bagaglio etologico.

La negazione dell’evidenza del Cambiamento Climatico e di altre componenti della crisi ecologica (altri aspetti legati alla perturbazione del ciclo del carbonio e di altri cicli bio- geo- chimici, perdita di biodiversità, inquinamento da ogni sorta di materiale, liquido e gas di sintesi) che sembra essere diventato prerogativa delle destre conservatrici a livello globale, e specialmente nell’occidente, fa il pari con il benpensantismo progressista che vende meri tentativi di miglioramento ambientale della produzione e dei consumi, come passi decisivi per la sostenibilità e la cosiddetta economia circolare (ecco l’inganno). L’inganno è peggiore della menzogna.

Alcuni ambientalisti perdono una parte del loro tempo a confutare le posizioni dei negazionisti che vengono amplificate sui giornali di destra, ma il vero nemico della transizione verso la sostenibilità è il consenso generalizzato nei confronti dell’economia trainata dal consumo (si può chiamare semplicemente consumismo), l’illusione che sia possibile mantenere un livello di consumi crescente nel tempo, per noi e per le generazioni a venire, semplicemente facendo le stesse cose in modo più pulito ed efficiente grazie al progresso tecnologico.

La comunità scientifica (di cui, per inciso, faccio parte) ha le sue responsabilità, avendo definitivamente abbandonato ogni senso critico, per abbracciare entusiasticamente il ruolo di gregario del sistema di mercato e di sostenitrice della sua ideologia. Ideologia che si concretizza in una rappresentazione pubblicitaria degli spesso mediocri risultati della ricerca di base degli ultimi decenni, e dello sviluppo tecnologico indifferenziato.

Nessuno scienziato, udibile sui mezzi di comunicazione, ha il coraggio di dire, oggi, che è probabilmente molto più importante quello che già abbiamo scoperto su come funziona il mondo, di tutto quanto potremo ancora scoprire e, soprattutto, che lo sviluppo tecnologico non è la principale soluzione al problema ecologico della nostra specie.

Nessuno scienziato ha il coraggio di dirlo perché dirlo significherebbe ammettere l’ipertrofia del sistema della ricerca finalizzata nel suo complesso e attaccare uno dei pilastri sia del conservatorismo che del progressismo distruttivi dell’ambiente: l’ideologia del libero mercato sostenuto dallo sviluppo tecnologico. Il ricercatore oggi è chiamato essenzialmente a far entrare quello che ha imparato a fare nella narrativa corrente in modo da poter attirare fondi di ricerca.

Non è importante cercare qualcosa di veramente utile, è importante solo convincere qualcuno che quello che fai è utile allo scopo. Per cui si vedono soggetti di ricerca totalmente avulsi dalla realtà presentati come se fossero contributi significativi al grande fine della sostenibilità ambientale.

Secondo la classe dirigente delle istituzioni scientifiche si deve cercare di portare acqua (cioè fondi) al proprio mulino, facendo largo uso di retorica e di tecniche pubblicitarie. Chi non aderisce a questo modello è un apostata, uno che sputa nel piatto in cui mangia. Guai a mettere in discussione l’assunto secondo cui il progresso scientifico è inarrestabile.

La religione pubblica dell’economia della crescita richiede l’adesione al mito del progresso tecnico- scientifico senza fine. Questo costituisce un alibi per non fare nulla di politicamente concreto, né a livello locale né a livello globale.

A livello locale l’alibi all’inazione nell'occidente è sostenuto dall’affermazione apodittica secondo cui i paesi di antica industrializzazione hanno ridotto il proprio impatto ecologico grazie ad efficienza, digitalizzazione e terziarizzazione. Un falso. Il processo di disaccoppiamento è una delle componenti essenziali di questa mitologia che viene smentita nella realtà, ma le cui smentite vengono sistematicamente ignorate.

L’occidente ha semplicemente delocalizzato le produzioni più inquinanti, ma continua a consumare in modo non sostenibile tutte le principali risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili. Tutte le misure di intensità di impatto ambientale delle società occidentali indicano una situazione di non sostenibilità grave e conclamata.

A livello globale le decisioni dovrebbero partire dal riconoscimento della responsabilità dei paesi di antica industrializzazione (in pratica l’occidente) nell’aver perseguito la crescita economica, fondata sul consumo delle fonti fossili di energia, da ormai diversi secoli, con i noti impatti sull’ecosfera, ed aver trascinato su questa via ecologicamente non sostenibile tutto il resto del mondo, nelle lunghe ere coloniali e post-coloniali. Oltre ad aver determinato l’esplosione della popolazione umana attraverso l’aumento della domanda di lavoro a basso costo. >>

LUCA PARDI

(continua)

giovedì 21 ottobre 2021

La domesticazione sociale

Per domesticazione, in biologia, si intende il processo attraverso cui una specie animale o vegetale viene resa "domestica", cioè dipendente dalla convivenza con l'uomo e dal controllo da parte sua.

In molti casi, la domesticazione ha comportato, per le specie coinvolte, notevoli modificazioni del comportamento, del ciclo bilogico e della stessa fisiologia.

Ma, utilizzando il termine in senso traslato, si può parlare anche di 'auto-domesticazione', con riferimento alla capacità umana di convivere pacificamente in una società complessa. E, magari, utiizzare questo concetto per spiegare la nascita dei rapporti di classe, tipici delle società umane.

Ce ne parla Marco Pierfranceschi in questo testo, molto acuto e provocatorio, tratto dal suo blog Mammifero Bipede.

LUMEN


<< La strutturazione sociale [in classi] può essere descritta come un’ulteriore articolazione della catena trofica umana: attraverso l’efficientamento nell’acquisizione di cibo, e più avanti nella sua produzione, una porzione crescente della popolazione risulta svincolata dal provvedere direttamente alle proprie necessità, e finisce col dipendere dal lavoro altrui.

In termini di “domesticazione”, ciò significa che il lavoro eseguito dall’allevatore sulle specie animali da cui egli trae nutrimento, mostra delle affinità con l’operato degli strati sociali sovrastanti l’allevatore stesso, che dai suoi prodotti traggono sostentamento.

Vediamo altresì al lavoro l’ingegno umano, e non potrebbe essere diversamente: in un caso (l’allevatore) nel massimizzare la resa dei processi di allevamento animale e produzione di cibo, nell’altro (le classi dirigenti) nel massimizzare la quantità di ricchezza trasferita dai produttori diretti al livello successivo della scala sociale, quindi ad essi stessi.

Essendo i due processi mentali del tutto analoghi, è evidente come non ci si possa legittimamente attendere venga messo in atto, nei confronti di altri umani coi quali non si intrattengano relazioni dirette, una modalità di sfruttamento radicalmente differente da quella riservata al bestiame di cui ci si nutre.

Per quanto eticamente discutibile (ma, faccio notare, l’etica stessa altro non è che un costrutto culturale basato su assunti arbitrari, e pertanto indimostrabile) lo sfruttamento del lavoro altrui appare essere un tassello chiave nel processo di auto-domesticazione che coinvolge la nostra specie. Un comportamento ‘emergente’ che (...) discende in linea diretta dall’evoluzione dei processi correlati allo sviluppo del potenziale cognitivo del cervello umano.

La differenza sostanziale, nei due meccanismi descritti, sta nel differenziale intellettivo tra domesticatore e domesticato. Nei processi di domesticazione animale la specie umana ha buon gioco, disponendo di capacità intellettive largamente superiori alle specie ridotte in cattività, nel realizzare recinti e gabbie dalle quali gli animali non sono in grado di scappare.

Nel processo di auto-domesticazione le intelligenze in campo sono identiche, e la partita si gioca interamente su un piano culturale. I recinti in questione diventano quindi ‘recinti culturali’, schemi di pensiero collettivamente condivisi che ottengono di racchiudere gli individui all’interno di ‘gabbie mentali’, nelle quali risultano intrappolati e costretti a limitarsi al ventaglio di comportamenti socialmente accettati.

Ciò rappresenta un’ulteriore fonte di sofferenza psichica, che trova sfoghi attraverso modalità e rituali definiti dalla cultura stessa.

A parte questa differenza, ci troviamo di fronte ad una modalità classica di equilibrio predatore/preda, del tutto analoga a quelle descritte dal modello evolutivo darwiniano. O, per altri versi, a quell’ Homo homini lupus ben sintetizzato dall’autore latino Plauto.

Numerosità e benessere della popolazione dei ‘predatori’ discende dalla disponibilità di ‘prede’. Quando tuttavia si verifica un’interruzione della catena trofica (carestia) questa si ripercuote verso l’alto mettendo in discussione le modalità redistributive stabilite dalla cultura contingente, portando ad un riassestamento.

Un esempio fra tanti è quello della caduta dell’Impero Romano, dove la costosa macchina amministrativa e le imponenti opere infrastrutturali da essa richieste non sono state in grado di sopravvivere ad un sopravvenuto collasso dei flussi di ricchezza (cibo, metalli preziosi e schiavi) dovuto all’eccessiva espansione delle terre conquistate.

Le organizzazioni sociali che ne sono emerse, nel Medioevo, si sono quindi riarrangiate sulla base di una disponibilità inferiore di risorse, che ha condotto ad una drastica riduzione dei ruoli sociali ‘improduttivi’. (…)

Come ‘emerge’ una cultura? Partendo dall’evidenza che il cervello umano è capace di auto-ingannarsi, diventa possibile strutturare, fissare e rendere replicabili le modalità di reazione, in gruppi ed intere collettività, mediante l’elaborazione e la diffusione di specifici costrutti culturali.

Tali costrutti possono essere descritti come strutture ideologiche auto-coerenti in cui, a partire da una serie di assunti, alcuni dei quali arbitrari, si derivano le conseguenti modalità comportamentali da mettere in atto. (...)

Ogni società umana ha pertanto dovuto elaborare un proprio specifico modus-operandi legato alla sopravvivenza, ed ha prodotto una propria, unica, cultura sviluppando un sistema di idee capace di combinare elementi eterogenei in un costrutto efficace, composto, ove possibile, dalle evidenze oggettive note, e riempendo le inevitabili lacune con assunti indimostrabili. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

giovedì 14 ottobre 2021

Tra saggezza e superstizione

La cultura della Grecia classica ha sempre vissuto in precario equilibrio tra la saggezza dei suoi sapienti e le tenebre della superstizione.

Perchè il pensiero razionale dei filosofi, essendo ancora pre-scientifico, poteva spiegare molte cose ma non tutte. E quindi restava uno spazio amplissimo per la religione e la supertizione.

Il testo che segue, elaborato dalla prof.ssa Laura Gagliardo, è stato tratto dal web.

LUMEN



<< Popolo di sapienti eppure superstizioso. Da sempre la civiltà greca è stata considerata l’emblema della cultura e dello sviluppo sotto molti punti di vista; basti pensare all’origine della filosofia, che indusse svariate popolazioni ad avvicinarsi alla cultura ellenica, oppure alla grandezza politica rappresentata dalla pòlis.

Tuttavia, culturalmente e politicamente parlando, troviamo in Grecia una grande importanza riservata alla religione, in parte ritenuta anche superstizione piuttosto che vera e propria credenza. Infatti la religione in Grecia era considerata completamento alla 'mancanza' dell’uomo, la quale lo rendeva misero e infelice.

Essa era complessa ma non unitaria, non si basava su scritti rivelati né su un sacerdozio professionale. Si compiva soprattutto come azioni: per antonomasia l’azione sacra era il sacrificio animale con l’uccisione della vittima e il conseguente pasto cerimoniale.

Anche in politica, nelle scelte importanti ci si rivolgeva all’altro elemento religioso rappresentato dall’oracolo, i più importanti dei quali erano quelli di Apollo a Delfi e di Trifonio, Anfiarao o di Apollo Spondio. Proprio grazie alla notevole cultura di questi uomini si sviluppò una forma di contrasto tra la mente umana e il pensiero divino.

Da ciò nasce la figura del mito, dove talvolta uomini disubbidiscono alla legge divina e privilegiano al contrario la loro ambizione.


Il mito: tra la divinità e l’uomo

Prima della nascita della filosofia in Grecia, come in ogni altra cultura, si utilizza la figura del mito. Il mito nasce come tentativo di dare una spiegazione a tutti quei fenomeni ai quali la mentalità ancora primitiva non riusciva a giungere senza l’aiuto di una giustificazione soprannaturale.

L’impianto di miti, di tradizioni, di leggende che ci sono stati trasmessi nel diretto testo greco originario o nelle rielaborazioni latine medievali entrano in un caos di revisioni che discendono dall’interesse dei vari orizzonti culturali.

Per riferirsi soltanto a pregnanti esempi, questi temi mitologici divengono proprietà delle narrazioni medievali relative a Troia, nell’ingannevole rilettura latina di Omero, o al sogno delle metafore rinascimentali ed umanistiche che circolano intorno agli antichi dei, o alle immagini del mondo antico che si creò, per acquietarsi nella falsa coscienza della storia, l’epoca neoclassica, o al carosello delle rievocazioni simboliche della psicoanalisi e della psicologia analitica.

Esistono, nell’itinerario descrittivo greco, i miti teogonici, che appartengono alla fondamentale esigenza dell’uomo a chiedersi l’origine del mondo divino e della propria convinzione: ed i greci questi miti li ritmarono su una cultura mitologica che nell’Egeo si diffonde dal mondo microasiatico.

Siamo inesorabilmente distanti da questa civiltà che proiettò i propri terrori e le proprie speranze nella creazione fantastica di una mitologia ora intesa a lenire l’umano soffrire, ora irruente nelle sue immagini orrifiche e devastanti.


Gli uomini e contro gli dei

Cratos, servo di Zeus, afferma chiaramente che l'esistenza degli dèi suppone l'assenza di libertà per gli uomini, in quanto la libertà è strettamente connessa al potere e solo chi ne dispone al massimo livello è davvero libero, quindi solo Zeus lo è. Tutti gli altri sono liberi in quanto si riconoscono in questa situazione e la accettano come un destino o una necessità che li sovrasta.

Il dono che Prometeo fece agli uomini fu quello che avrebbe permesso loro di rendersi autonomi dalla dipendenza economica e insieme da quella religiosa, che le è strettamente correlata: il dono del fuoco, cioè il dono del lavoro, poiché il fuoco è fonte di trasformazione della materia prima (del ferro in particolare, fonte di supremazia militare).

D'altra parte sono proprio le caratteristiche degli dèi dell'Olimpo, assai diverse da quelle delle divinità precedenti, che rendono quasi dovuto il sentimento di emancipazione degli uomini. Gli dèi sono tanto più autoritari quanto più gli uomini vorrebbero porsi in maniera autonoma. Prometeo non fece altro che tirare delle conseguenze logiche.

Gli uomini, per potersi difendere da queste divinità bellicose hanno bisogno di maggiori poteri. "Zeus domina con nuovi poteri, oltre ogni legge", canta il coro delle Oceanine. Cioè il suo dominio somiglia molto da vicino a quello di una monarchia assoluta, che non deve rendere conto ai suoi pari né ad alcuna legge scritta; solo al fato deve sottomettersi, ma il fato è imperscrutabile, inaccessibile, totalmente indipendente dalla volontà di chicchessia.

In una situazione così "bloccata" agli uomini privi di potere non resta che credere nel fato o nel destino, nella speranza che le sue ragioni siano migliori di quelle dei potenti, uomini o dèi che siano, proiezioni consapevoli, quest'ultimi, della volontà umana di dominio. >>

LAURA GAGLIARDO

giovedì 7 ottobre 2021

Il consumatore globale – 2

Gli effetti negativi della produzione di massa sulla nostra vita civile, in un testo di Agobit , tratto dal suo blog 'Un pianeta non basta'. (seconda ed ultima parte).

LUMEN


<< Il concetto di produzione perde il rapporto prevalente con quello di necessità. Il prodotto spesso è in se inutile o ha una utilità marginale. Il suo valore non è la sua effettiva utilità a coprire una esigenza. Il valore del prodotto è nel prodotto stesso. Nasce la società dell'opulenza in cui il lusso è uno status sociale.

Dice Galbraith: "Nessuno puo' sostenere seriamente che l'acciaio che serve ad allungare di quattro o cinque piedi le carrozzerie delle nostre automobili a scopo esclusivamente estetico o per sfoggio di potenza, sia veramente necessario. Per molte donne e anche per qualche uomo, il vestiario ha cessato di avere una funzione protettiva, ed e' diventato, come il piumaggio di certi uccelli, un mezzo che serve solo ad attrarre persone dell'altro sesso".

Questi prodotti non sono necessari, ma rispondono ad una legge fondamentale: determinano dei bisogni indotti nella popolazione. Con l'aiuto della pubblicita e dei modelli diffusi dai media, si instilla nella popolazione la convinzione che il miglioramento della propria esistenza consista nell'aumento dei consumi e nella moltiplicazione del possesso di merci.

Tutto questo contribuisce alla crescita della produzione, la produzione di merci diviene inarrestabile fornendo il benessere generale, che consiste ormai su un solo parametro: il consumo.

Sono gli anni in cui nascono le grandi catene di supermercati e le multinazionali della produzione. "Tuttavia il problema della produzione continua ad essere al centro delle nostre preoccupazioni. Non si tende a considerare la produzione come una cosa naturale e scontata, come si fa per il sole e l'acqua: essa continua , invece, a costituire una misura dei pregi e del progresso della nostra civilta'".

Il filosofo Umberto Galimberti vede in questa prevalenza del paradigma della produzione uno degli aspetti che sono alla base del nichilismo della societa contemporanea.

La produzione in continua crescita presuppone che la merce prodotta sia presto buttata via, in un sistema unidirezionale che prevede l'annientamento della merce passando per il suo consumo. La nullificazione del prodotto e la sua trasformazione in rifiuto e' costitutivo della societa globale dei consumatori. Il riutilizzo del prodotto è una eresia per la società dell'abbondanza.

Lo stato perde i confini e alla vecchia sovranita' nazionale subentrano le nuove sovranita' sovranazionali, le grandi istituzioni finanziarie e le multinazionali della produzione. La produzione perde ogni rapporto con i luoghi, essa si sposta come una merce tra le altre: le grandi fabbriche serializzate divengono globali. Insieme alla produzione si spostano i consumi e i popoli.

Gli organismi che regolano i commerci globali acquisiscono rilevanza strategica. Si importa crescita demografica dove manca, ricorrendo ai paesi con alta natalita', affinche il ciclo di produzione e consumo non si stabilizzi ma cresca continuamente, come richiedono gli interessi finanziari globali. Tutte le idee convenzionali sullo Stato e sulla nazionalita' vengono spazzate via dall'idea del consumatore unico. Soros subentra a Marx, Adam Smith e Keynes.

La democrazia è nata con la ghigliottina. (...) Oggi quei diritti, distrutte tutte le visioni spirituali dell'uomo, sono i diritti della produzione e dei consumatori. I nuovi giacobini sono i padroni della rete. La nuova democrazia dei consumatori presuppone una nuova ghigliottina, dei nuovi giacobini. Chi si oppone alla crescita della produzione e dei consumatori va silenziato ed eliminato dalla rete, nel nome dei diritti umani assolutizzati.

La nuova umanita e' senza storia e globalizzata. Il mito unico è la merce. Il nuovo autoritarismo è soft ma pervasivo: negli Stati Uniti non e rappresentato tanto dalle grida di Trump e il suo decisionismo naif, (...) quanto dall'establishment mediatico del politically correct.

In Europa ad esempio questo sistema di pensiero unico e' alla base delle istituzioni europee e della scuola pubblica dei vari paesi, oltre che della informazione e delle istituzioni statali. Ben piu violento e il controllo generale dei media e dei social da parte del potere finanziario e produttivo internazionale. Una decisione a Bruxelles può decidere del futuro e del benessere di intere popolazioni in luoghi distanti.

Mentre negli stati nazionali i poteri di controllo delle idee erano rappresentati dal governo locale, nel globalismo i poteri sono piu distanti e mediati. Le grandi istituzioni economiche, le banche centrali, le agenzie di rating e le concentrazioni finaziarie determinano le idee consentite e quelle non consentite consentendo la circolazione delle prime e proibendo le seconde con la demonizzazione mediatica e della rete.

Chi e fuori del paradigma subisce la dannazione dei media. I grandi media (network dellinformazione, web-social, le conferenze internazionali, i premi ecc.) controllano la manifestazione delle idee con la giubilazione di quelle conformi e la damnatio memoriae di quelle non conformi. Andare contro il pensiero unico comporta l'esclusione da una serie di benefici e facilitazioni che nel mondo globalizzato sono irrinunciabili.

L'esprimere idee non adeguate al pensiero unico da parte di dirigenti e governi significa bloccare l'economia di un paese, l'esclusione effettiva dalle decisioni internazionali, la bannerizzazione dai media, la condanna etica dell'apparato che controlla la formazione delle opinioni e la vita sociale.

Poiche i vizi vanno sempre ammantati di virtu, al tempo della societa opulenta globalizzata le repressioni delle idee non uniformi vanno giustificate con la necessita di rispettare i diritti umani assolutizzati. Non i diritti del singolo individuo appartenente ad una storia ed a una terra di origine, ma i diritti di una persona neutra, globale, senza identita: in una parola i diritti del consumatore globale. >>

AGOBIT