Di questa opinione appare, per esempio, Luca Pardi, autore del testo che segue, tratto dal suo blog 'Commenti Personali' (prima parte).
LUMEN.
Ma, a parte l’inguaribile tendenza alla superficialità dei media, tendenza che in pochi giorni fa scomparire temi che dovrebbero restare nel dibattito pubblico a favore di notizie “vendibili”, non mi è sembrato di notare fra gli ambientalisti un cambio di marcia oltre le solite lamentele, speranze, “soluzioni”.
La crisi ambientale attuale è determinata, a mio parere, dal raggiungimento dei limiti fisici e cognitivi dell’espansione umana.
I limiti fisici si presentano come un progressivo aumento della viscosità nel flusso di risorse che dall’ecosfera vengono convogliate nell’antroposfera e come progressiva (ed evidente) saturazione degli ecosistemi terrestri e marini con i rifiuti delle nostre attività economiche e sociali. (...)
La negazione dell’evidenza del Cambiamento Climatico e di altre componenti della crisi ecologica (altri aspetti legati alla perturbazione del ciclo del carbonio e di altri cicli bio- geo- chimici, perdita di biodiversità, inquinamento da ogni sorta di materiale, liquido e gas di sintesi) che sembra essere diventato prerogativa delle destre conservatrici a livello globale, e specialmente nell’occidente, fa il pari con il benpensantismo progressista che vende meri tentativi di miglioramento ambientale della produzione e dei consumi, come passi decisivi per la sostenibilità e la cosiddetta economia circolare (ecco l’inganno). L’inganno è peggiore della menzogna.
Alcuni ambientalisti perdono una parte del loro tempo a confutare le posizioni dei negazionisti che vengono amplificate sui giornali di destra, ma il vero nemico della transizione verso la sostenibilità è il consenso generalizzato nei confronti dell’economia trainata dal consumo (si può chiamare semplicemente consumismo), l’illusione che sia possibile mantenere un livello di consumi crescente nel tempo, per noi e per le generazioni a venire, semplicemente facendo le stesse cose in modo più pulito ed efficiente grazie al progresso tecnologico.
La comunità scientifica (di cui, per inciso, faccio parte) ha le sue responsabilità, avendo definitivamente abbandonato ogni senso critico, per abbracciare entusiasticamente il ruolo di gregario del sistema di mercato e di sostenitrice della sua ideologia. Ideologia che si concretizza in una rappresentazione pubblicitaria degli spesso mediocri risultati della ricerca di base degli ultimi decenni, e dello sviluppo tecnologico indifferenziato.
Nessuno scienziato, udibile sui mezzi di comunicazione, ha il coraggio di dire, oggi, che è probabilmente molto più importante quello che già abbiamo scoperto su come funziona il mondo, di tutto quanto potremo ancora scoprire e, soprattutto, che lo sviluppo tecnologico non è la principale soluzione al problema ecologico della nostra specie.
Nessuno scienziato ha il coraggio di dirlo perché dirlo significherebbe ammettere l’ipertrofia del sistema della ricerca finalizzata nel suo complesso e attaccare uno dei pilastri sia del conservatorismo che del progressismo distruttivi dell’ambiente: l’ideologia del libero mercato sostenuto dallo sviluppo tecnologico. Il ricercatore oggi è chiamato essenzialmente a far entrare quello che ha imparato a fare nella narrativa corrente in modo da poter attirare fondi di ricerca.
Non è importante cercare qualcosa di veramente utile, è importante solo convincere qualcuno che quello che fai è utile allo scopo. Per cui si vedono soggetti di ricerca totalmente avulsi dalla realtà presentati come se fossero contributi significativi al grande fine della sostenibilità ambientale.
Secondo la classe dirigente delle istituzioni scientifiche si deve cercare di portare acqua (cioè fondi) al proprio mulino, facendo largo uso di retorica e di tecniche pubblicitarie. Chi non aderisce a questo modello è un apostata, uno che sputa nel piatto in cui mangia. Guai a mettere in discussione l’assunto secondo cui il progresso scientifico è inarrestabile.
La religione pubblica dell’economia della crescita richiede l’adesione al mito del progresso tecnico- scientifico senza fine. Questo costituisce un alibi per non fare nulla di politicamente concreto, né a livello locale né a livello globale.
A livello locale l’alibi all’inazione nell'occidente è sostenuto dall’affermazione apodittica secondo cui i paesi di antica industrializzazione hanno ridotto il proprio impatto ecologico grazie ad efficienza, digitalizzazione e terziarizzazione. Un falso. Il processo di disaccoppiamento è una delle componenti essenziali di questa mitologia che viene smentita nella realtà, ma le cui smentite vengono sistematicamente ignorate.
L’occidente ha semplicemente delocalizzato le produzioni più inquinanti, ma continua a consumare in modo non sostenibile tutte le principali risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili. Tutte le misure di intensità di impatto ambientale delle società occidentali indicano una situazione di non sostenibilità grave e conclamata.
LUCA PARDI
(continua)