venerdì 28 febbraio 2020

Un falso d'autore

Si dice che la quota di arte falsa esposta nei musei del mondo sia incredibilmente alta, di gran lunga superiore ai casi manifesti.
Spesso lo si scopre per caso, in seguito a restauri o grazie ad un’indagine condotta da un curatore. Altre volte per via giudiziaria, in quanto i musei sono stati ingannati volutamente da qualcuno.
Ma nella maggioranza dei casi è possibile che nessuno si accorga mai di nulla.
Ovviamente, e per fortuna, a volte accade il contrario ed alcuni dipinti considerati di autori minori, vengono riconosciuti come grandi opere. Ma ci sono anche dei casi limite, in cui la realtà supera la fantasia, come nella complicata vicenda di De Chirico “falsario di se stesso”. 
Il testo è tratto dal sito del Corriere della Sera. Buona lettura.
LUMEN


<< La vicenda [del quadro ‘Piazza d’Italia’ di Giorgio de Chirico] è assai nota nell’ambiente dell’arte.

All’epoca ebbe una risonanza internazionale, vuoi per la notorietà delle persone coinvolte, vuoi perché su di essa pesava l’ipotesi di un complotto. Il principale attore le dedicò ampio spazio nelle sue memorie, uno spazio pari a quello che riservò agli anni cruciali della sua vita, gli anni compresi tra il 1911 e il 1915, quelli che Giorgio De Chirico (giacché di lui parliamo) trascorse per lo più a Parigi, dipingendo opere destinate ad avere un’incidenza fondamentale sugli sviluppi dell’arte contemporanea.

Il fatto in questione risale però all’immediato secondo dopoguerra. Era un pomeriggio d’aprile del 1947 quando una signora si presentò nello studio dell’artista per mostrargli una Piazza d’Italia, ossia un tipico esempio della pittura metafisica che egli era andato elaborando proprio nel suo periodo parigino. La firma datata sulla tela diceva infatti: «1913».

Appena vide il quadro, De Chirico comprese però che si trattava di un falso e, d’imperio, lo sequestrò: «Il meno che potevo fare era di fermarlo onde non circolasse più. Non l’avessi mai detto: quella signora cominciò a strillare e a dire che quello che volevo fare era una cosa gravissima, che il quadro era stato affidato a lei, che lei ne era responsabile, che il quadro aveva un valore enorme, ecc. ecc.».

Per chi compra arte o se ne fa garante, per chi colleziona o si dichiara esperto, quel che De Chirico liquida con un «ecc. ecc.» è l’insidia peggiore. E non sono tanto i danni materiali, ai quali in fondo si può trovare rimedio, quanto quelli morali, il vero problema. Lo smacco, l’umiliazione, la perdita di credibilità.

Diceva Friedrich Winkler, storico dell’arte, che per affinare la propria capacità di distinguere ciò che è autentico, il migliore esercizio è riconoscere ciò che è falso. Ed è così. Disquisendo attorno alle opere autentiche si corrono rischi scarsissimi. Sull’effettiva bellezza di un’opera autentica si può bisticciare all’infinito, come pure sul suo significato, su quel che l’artista ha inteso comunicare. Ma quando ci si imbatte in un falso, le opinioni contano poco o nulla. Un’opera o è buona o non lo è. Non riconoscere un falso significa annientare d’un colpo la propria reputazione di intenditore, di ‘connoisseur’ a vario titolo.

Ferite che lasciano cicatrici. Il grande pubblico ancora sghignazza se ripensa alla sicumera con cui certi critici insigni scorsero la mano di Modigliani in tre false sculture riemerse dalle acque di un canale livornese. Meno noto, ma ancor più sconcertante, è l’infortunio capitato al Victoria Museum di Melbourne; soltanto nel 2007 si è scoperto che un Van Gogh orgogliosamente esposto nelle sue sale per ben 67 anni era un falso.

In realtà, si dovrebbe essere più comprensivi. Riconoscere un’opera d’arte contraffatta è a sua volta un’arte. Un’arte difficile per di più. Persino più difficile dell’arte della falsificazione stessa, che pure richiede abilità non indifferenti.

Non per nulla Eric Hebborn, leggendario contraffattore inglese scomparso nel 1996, ricorda che in passato «non soltanto gli artisti si formavano eseguendo copie e imitazioni, ma anche gli studiosi e tutti coloro che volevano diventare esperti». Tirando per i capelli il principio di Aristotele per cui l’arte è in primo luogo imitazione, il famigerato Hebborn cercò di nobilitare il proprio mestiere sostenendo che la sola differenza tra artisti e falsari è che i primi imitano la natura, mentre i secondi imitano l’arte.

Il caso De Chirico è tuttavia più ingarbugliato. L’eccetera eccetera ebbe un lungo strascico fatto di carte bollate, tribunali e verdetti contrastanti. L’artista sbandierò ai quattro venti la sentenza della Cassazione per avvalorare il teorema che l’ossessionava da tempo: erano i surrealisti a invadere il mercato di sue tele apocrife e ciò allo scopo di screditarlo. In prima istanza, però, i giudici si erano espressi diversamente, stabilendo che il pittore aveva mentito. Ma, se così stavano davvero le cose, perché mai l’artista avrebbe negato l’autenticità del dipinto? E soprattutto: perché mai gli premeva tanto toglierlo dalla circolazione?

Domande cui danno risposta definitiva Paolo Baldacci e Gerd Roos, profondi conoscitori del maestro, che hanno ricostruito la vicenda in Piazza d’Italia. Con un piglio da ‘legal thriller’, il loro libro [“Giorgio de Chirico, Piazza d'Italia”] risolve un mistero dell’arte moderna e fa luce sul lato oscuro di un genio. Racconta la storia di un uomo dal carattere fragile e irriflessivo che per turlupinare galleristi e collezionisti divenne il principale falsario di se stesso. Ai «veri» falsi che già inquinavano il mercato, si aggiunsero quindi i falsi veri realizzati da de Chirico stesso.

Da un certo momento in poi, il pittore cominciò infatti a realizzare copie del periodo metafisico delle Piazze d’Italia. Copie spesso mal dipinte che retrodatava per venderle a un prezzo più alto, perché il periodo metafisico era quello che tutti volevano. Lo fece sia per lucro, ovvio, sia per vendicarsi del mondo, della modernità che detestava. Così facendo si screditò, ma dimostrò al contempo che il falso può avere un suo doppio, qualcosa di autentico che, alla maniera di un lapsus, lo rende più rivelatore del vero. >>

TOMMASO PINCIO

venerdì 21 febbraio 2020

Controllare la popolazione

Ho parlato spesso, in questo blog, di argomenti demografici, ma il tema della riduzione della popolazione mondiale ha caratteristiche che rasentano il paradosso.
Infatti, da un lato rappresenterebbe il sistema più sicuro e meno costoso per risolvere il problema, ormai drammatico, del degrado ambientale; dall’altro si tratta di un obbiettivo praticamente impossibile da raggiungere, per i ben noti condizionamenti genetici e culturali.
Quindi per il momento, in attesa che accada un miracolo, possiamo solo discuterci sopra e quelle che seguono sono proprio le riflessioni sul tema del sempre ottimo Marco Pierfranceschi (tratte dal suo blog “Mammifero Bipede”).
LUMEN


<< Gli esempi di popolazioni umane che abbiano praticato un controllo demografico non mancano, in particolare tra le popolazioni adattate a vivere in piccole isole con risorse limitate. I metodi adottati per tale gestione, tuttavia, rientrano nel novero di quelli che la nostra cultura etichetterebbe come disumani e lesivi delle libertà individuali.

Generalizzando si può affermare che l’unica forzante in grado di condurre a politiche di contenimento e stabilizzazione delle popolazioni sia la limitatezza delle risorse disponibili. Limitatezza che funziona anche in assenza di tali politiche, provvedendo da sé a ridurre la percentuale di popolazione in eccesso attraverso la morte per fame. Le popolazioni delle aree isolate vissute nei secoli scorsi conoscevano bene questo tipo di problema.

Quello che sta accadendo adesso, tuttavia, è qualcosa di mai visto prima nella storia dell’umanità, quantomeno su scala così vasta. La movimentazione globale di merci e derrate alimentari ha raggiunto volumi tali da slegare completamente le popolazioni residenti sui territori dalla necessità di una produzione alimentare di prossimità. Non c’è più correlazione, su scala globale, tra i luoghi dove il cibo viene prodotto e quelli dove viene consumato.

Ciò ha condotto da un lato alla crescita esponenziale delle megalopoli ed all’inurbazione di gran parte della popolazione mondiale, dall’altro all’aggressione sconsiderata agli habitat naturali fin qui preservati. Quest’ultima, aiutata dalla distanza, fisica ed emotiva, tra esecutori (i grandi latifondisti agricoli) e mandanti (i consumatori). (…)

Nella preistoria, esseri umani ed animali d’allevamento occupavano una dimensione molto piccola nel complesso delle forme viventi. Nel 1900 eravamo già i quattro quinti del totale, a spese dell’80% della fauna selvatica annientata nel frattempo. (…) Nel 2015, [la situazione] è impressionante, perché il totale della biomassa, costante nei millenni precedenti, appare moltiplicato per sei volte. Come può essere successo?

Semplicemente l’effetto dell’impennata esponenziale generata dalla disponibilità e messa a regime di energia fossile derivante dal petrolio. Fino al 1900 (circa) l’umanità aveva avuto a disposizione la sola energia radiante proveniente dal sole, ed aveva dovuto fare i conti con quel limite. Con lo sfruttamento delle risorse petrolifere quel limite è saltato, e si è potuto produrre quantità via via crescenti di cibo per alimentare una popolazione anch’essa in crescita.

Tuttavia sappiamo bene che le risorse di petrolio non sono inesauribili (e nonostante ciò continuiamo a sprecarle per attività sostanzialmente inutili, come lo spostare tonnellate di ferro e gomma, le automobili, solo per muoverci individualmente da un posto all’altro). Cosa accadrà quando questa risorsa comincerà a declinare? (…) È altamente improbabile che un’economia basata unicamente su fonti rinnovabili possa continuare a garantire l’attuale livello di tecnologia e complessità.

Pertanto, (…) è verosimile che il meccanismo che ha prodotto l’inurbazione di milioni (se non miliardi) di individui finisca con l’incepparsi, ed il processo cominci ad invertirsi. Possiamo facilmente immaginare un flusso massiccio di abitanti, che abbandoneranno città divenute invivibili perché inadeguate a funzionare senza una massiccia dissipazione energetica, riversarsi nelle campagne alla ricerca di cibo, o per provare a produrselo da sé. Possiamo anche immaginare l’escalation di conflitti che questo comporterà, nel momento in cui tutti comprenderanno che cibo per tutti non ce n’è.

Un’altra possibilità, già oggetto di studio, in grado di produrre un contenimento e finanche una riduzione della popolazione, è offerta dal calo diffuso della fertilità registrato nei paesi tecnologicamente avanzati. Esso appare determinato in parte dagli stili di vita (l’età a cui si decide di avere un figlio si sposta sempre più avanti), in parte dal vivere in ambienti insalubri ed inquinati, in parte all’assunzione massiccia di cibi chimicamente alterati da aromi artificiali, coloranti e conservanti, sui cui effetti di accumulo nei tessuti organici non esistono studi su larga scala.

Questo calo della fertilità, almeno nell’immediato, non sta interessando i paesi del ‘sud del mondo’, che stanno anzi andando incontro ad un boom demografico senza precedenti, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Il risultato sono flussi migratori incessanti che, a partire dai paesi poveri, vanno a colmare i ‘vuoti’ prodotti dalla denatalità nelle nazioni più ricche.

Un recente esperimento di controllo demografico su larga scala è rappresentato dalla ‘politica del figlio unico’, in vigore nella Repubblica Popolare Cinese dalla fine degli anni ‘70 ai primi anni 2000, ed attualmente sostituita dalla possibilità di averne due per far fronte all’esponenziale crescita economica del paese.

Se da un lato un simile notevole risultato si è dimostrato possibile, dall’altro non possiamo non rilevare che solo un governo autoritario è stato in grado di imporre un provvedimento tanto impopolare ad una popolazione numerosissima e riluttante. È molto dubbio, tuttavia, che un intervento di tale portata possa essere condotto con successo all’interno di un regime democratico, come quello vigente nel nostro paese (ed in molti altri).

La pressione antropica causata sugli ecosistemi globali dalla sovrappopolazione è un problema ancora più drammatico del surriscaldamento globale, eppure, probabilmente per un tabù culturale, nessuno ne vuole parlare. Nella prospettiva più ottimistica, finiremo col cancellare dal pianeta la maggior parte delle specie viventi, dando luogo alla famosa sesta estinzione di massa. (…)

Nella prospettiva più pessimista, ci renderemo conto troppo tardi di aver generato un tale squilibrio nella catena alimentare globale da diventare del tutto incapaci di produrre ulteriore cibo (p.e. avendo causato inavvertitamente l’estinzione di massa di specie di insetti, o lombrichi, fondamentali per la sopravvivenza delle piante di cui ci nutriamo), e finiremo con l’estinguerci lasciando il pianeta in eredità a qualche forma di invertebrati, come i ragni, o a microrganismi ancora più piccoli. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 14 febbraio 2020

Punti di vista - 16

CULTURA UNICA
Quello che appare evidente agli occhi del viaggiatore è l'oscena identità ripetitiva di quello che una volta sarebbe apparso come la varietà delle culture, dei costumi, delle città e dei paesaggi del mondo.
Un unico grande proliferare di caseggiati e di infrastrutture, tutte assolutamente simili, un crescere di grattacieli assolutamente indistinguibili e simili nei vari luoghi e megalopoli, strade, aeroporti, apparati di illuminazione, centri commerciali, tunnel, ferrovie, ponti, tralicci.
Un identico movimento e attività di milioni di umani che brulicano affannosamente in un fare che non conclude nulla, ma è perennemente fine a se stesso, sradicati e lontani dalle vecchie appartenenze, senza più una cultura se non quella del valore della moneta e della merce.
Tutti si adoperano per un interesse che gira intorno al proprio presente, al proprio utile, al proprio sussistere. La vita diviene ovunque uguale, uniforme nei tempi e nei modi di fruizione. (…)
Questo dramma, anziché denunciato viene quasi osannato dai media controllati dall'apparato produttivo e finanziario: con la definizione di multiculturalismo si cerca di far passare la scomparsa di ogni cultura, definendola paradossalmente come integrazione tra culture diverse.
AGOBIT


STATI UNITI D’EUROPA
Noi non crediamo affatto alla realizzabilità degli Stati Uniti d'Europa.
Ma qualora questa distopia si realizzasse essa sarebbe un incubo, la democrazia ne risulterebbe azzerata, mentre il dominio ordo-liberale avrebbe così la sua definitiva consacrazione. (…)
Ed aumentare il bilancio federale della UE va esattamente in quella direzione: meno risorse per gli Stati nazionali (dove la democrazia conta ancora qualcosa, ed è comunque un terreno di lotta), più risorse ad una tecnocrazia a-democratica priva di ogni controllo.
LEONARDO MAZZEI


CONDOTTIERI
Quando si dice che il tale condottiero vinse la tale battaglia, si dà l’impressione che non avrebbe potuto che vincerla e che l’abbia vinta soltanto per proprio merito.
In realtà, la maggior parte delle battaglie vinte si sarebbero potute perdere, e la vittoria è certo dipesa dai meriti di chi ha guidato l’esercito, ma anche dalla fortuna, dal caso e dagli errori degli avversari.
La conclusione è che, se possiamo dire che Cesare è stato uno straordinario genio militare, è per ragioni statistiche, per la quantità di battaglie vinte.
E tuttavia, guardando a quelle vicende con la lente d’ingrandimento, si vede che perfino Cesare è stato spesso ad un pelo dal perdere la battaglia ed anche la vita.
Tanto che, se per sfortuna gli fosse andata male una delle prime battaglie, di lui non avremmo nemmeno sentito parlare.
GIANNI PARDO


PRODUZIONE INDUSTRIALE
La produzione industriale ha sovvertito il precedente paradigma basato sul lavoro manuale, dove le uniche possibilità di arricchimento rapido potevano essere lo sfruttamento della schiavitù o i bottini di guerra, aprendo la strada al mondo moderno in cui la ricchezza può essere prodotta in copiose quantità partendo dalla disponibilità di manodopera, dalle materie prime e dall’energia.
Ricchezza che richiede comunque di essere in parte redistribuita per motivare la manodopera asservita alle macchine utensili.
MARCO PIERFRANCESCHI


LA BELLA ETA’
A cinquant’anni non si è le stesse persone che si è a quindici!
Ed è giusto e bello che sia così! Se no che viviamo a fare? Come i pesci rossi?
Perché tutti dicono: ho quarant’anni, ma me ne sento venti?
No, cavolo. Io a quarant’anni voglio essere sana e in forze, ma voglio sentirmene quaranta, perché, se ci arrivo, la vita mi avrà insegnato qualcosa, sarò più prudente su alcune cose e più esperta su altre, o no?
O sarò l’oca che ero a diciotto?
GAIA BARACETTI

venerdì 7 febbraio 2020

In ricchezza e in povertà

L’esistenza della povertà ha sempre accompagnato tutte le società umane, almeno sin da quando le civiltà hanno incominciato a lasciare traccia della propria storia.
Un fatto certo non casuale, che dovrebbe essere sufficiente da solo (anche senza scomodare gli studi antropologici e demografici) per concludere che la povertà è ineliminabile. Persino Gesù, in un ben noto (e giustamente controverso) passo del Vangelo si lascia scappare la famosa affermazione: “ i poveri infatti li avete sempre con voi” (Matteo - 14,7).
Eppure pochi argomenti sono stati dibattuti e sviscerati, nel corso dei secoli, come questo. Quelli che seguono sono due contributi sull’argomento, molto diversi tra loro, sia come prospettiva che come impostazione di fondo, ma entrambi molto interessanti, scritti rispettivamente da Gianni Pardo (per il suo Blog) e da Sergio Belardinelli (per Il Foglio).
LUMEN


CRISTIANESIMO E SOCIALISMO

<< Intorno alla metà del XX Secolo, gli italiani sono arrivati alla democrazia moderna con un doppio bagaglio culturale: il Cristianesimo e il Socialismo. Due ideologie sostanzialmente gemelle. Il Socialismo (poi divenuto anche comunismo) è stato la faccia laica del Cristianesimo e politicamente ne ha sposato la maggior parte delle idee.

Per esempio, come la Chiesa, si è dichiarato paladino degli umili e degli ultimi, a prescindere dal fatto che essi avessero ragione o torto. Il Cristianesimo comanda di dare ai poveri in base all’amore fraterno, il Socialismo dichiara che i poveri hanno diritto ad essere aiutati dallo Stato, cioè dai contribuenti, senza fornire per questo giustificazioni migliori dell’amore fraterno. Il meccanismo è diverso, ma molla e risultati sono gli stessi.

Altro elemento in comune, l’assenza della meritocrazia nel panorama mentale. Per la Chiesa il povero non va aiutato perché “lo merita”, ma “perché soffre”. Il Socialismo, facendo finta di essere scientifico, per la miseria del povero inventa alla Rousseau una colpa della società e trasforma la carità che intende dargli in risarcimento. Non gli chiede che cosa ha fatto per guadagnare di più, gli chiede soltanto se è povero. E in questo raggiunge il Cristianesimo. E fa tutto ciò senza chiedersi se lo Stato se lo possa permettere economicamente. È così che si sono moltiplicate le spese morali e caritatevoli. (…)

In linea col Vangelo, reputa che i ricchi siano tali perché hanno rubato qualcosa ai poveri. Inoltre il popolo – sempre in linea col Vangelo – disprezza l’economia. Non soltanto è notevolmente ignorante, in materia, ma ne contesta i risultati. Lo Stato deve finanziare i disoccupati, quale che sia il loro numero. Deve indennizzare i terremotati, e magari ricostruirgli la casa, come se il terremoto fosse colpa sua. Deve “Mettere in sicurezza il territorio”, come se fosse in grado di spianare le montagne. E ovviamente deve tenere in vita tutte le grandi imprese decotte (…) che divorano miliardi e miliardi senza mai riuscire a guarire. >>

GIANNI PARDO


DISEGUAGLIANZA ED INIQUITA’

<< L’ultimo rapporto della Banca Mondiale ci dice che “in generale la povertà può essere ridotta grazie a una maggiore crescita media, grazie a una diminuzione delle disuguaglianze oppure a una combinazione di entrambe. Raggiungere la stessa riduzione di povertà in tempi di crisi economica richiede quindi una maggiore equità nella distribuzione dei redditi”. Senza entrare nel merito di questa proposta, anzi, prendendola per buona, non sono tuttavia sicuro (…) che, da un punto di vista morale, la semplice disuguaglianza economica sia di per sé l’aspetto più rilevante.

A tal proposito, il 7 aprile 2017 la celebre rivista “Nature Human Behaviour” ha pubblicato un articolo molto interessante, dove si cerca di mostrare come “nonostante le apparenze contrarie, non ci sia nessuna evidenza che dica che le persone sono disturbate dalla disuguaglianza economica. Piuttosto esse sono disturbate da qualcosa che viene spesso confuso con la disuguaglianza, e cioè dall’iniquità economica”.

Basandosi su una mole incredibile di ricerche condotte su persone di ogni fascia di età, a cominciare da bambini di tre anni, gli autori concludono che gli uomini sono per una “distribuzione equa”, non per una “distribuzione uguale”; inoltre, quando equità e uguaglianza confliggono, essi preferiscono una “disuguaglianza equa” a una “uguaglianza iniqua” (…).

Il fatto che le ricerche empiriche ci dicano che la gente non ha un’avversione per la disuguaglianza in sé, bensì per l’iniquità, è un motivo incoraggiante, affinché, anche sul piano della riflessione morale, se ne tenga conto. Pur con tutto il disgusto che può essere provocato da certi consumi da parte dei ricchi, il problema morale dei poveri non è dato dal fatto che essi non hanno gli stessi gioielli o le stese automobili dei partecipanti alle feste del Grande Gatsby; questo semmai dovrebbe essere un problema morale per i ricchi stessi.

Il principale dovere morale che una comunità politica ha nei confronti dei poveri è quello di garantire a tutti le stesse opportunità di sviluppare alcune “capacità” che riteniamo indispensabili per una vita decente e senza le quali diventerebbero una parvenza gli stessi diritti politici e l’uguaglianza politica. Questa è l’uguaglianza di cui dovrebbe preoccuparsi la comunità, non l’uguaglianza economica. I poveri non hanno diritto agli stessi gioielli dei ricchi, ma hanno diritto di imparare a leggere e a scrivere, di avere una casa, di poter mandare i figli a scuola e via dicendo secondo i parametri di Eurostat.

La storia di questi ultimi due secoli ci insegna che il modo migliore di garantire questi sacrosanti diritti è quello di aumentare la ricchezza, l’ampiezza della torta, investendo risorse sull’innovazione e, soprattutto, sul “capitale umano”, la ricchezza più grande di tutte le nazioni, unitamente alle istituzioni dello stato di diritto liberale e democratico. Questo ovviamente non vuol dire che nel contrasto alla povertà ci si debba affidare esclusivamente alla logica del mercato. Tale contrasto rimane principalmente un dovere politico. Ma non credo che per assolvere tale dovere, la politica debba diventare un protagonista del mercato o sbaraccarlo, sostituendolo con un’economia pianificata.

La politica deve garantire le condizioni istituzionali per lo sviluppo della libera imprenditoria, a cominciare dalla tutela della proprietà privata; deve porre dei limiti a ciò che può essere fatto oggetto di libero scambio; deve, ecco il punto, destinare risorse al fine di garantire a tutti i cittadini le stesse opportunità di sviluppo delle proprie “capacità”.Spetta alla politica garantire la libera concorrenza; (...) spetta alla politica soddisfare quel bisogno di giustizia, da non confondere con l’uguaglianza economica, che pare essere molto diffusa tra i cittadini. >>

SERGIO BELARDINELLI