venerdì 29 novembre 2019

Dal libro di Giobbe

Un vecchio proverbio ammonisce di scherzare coi fanti, ma lasciare stare i santi, ovvero le cose di religione; noi atei, però, non abbiamo di queste preoccupazioni.
Ecco pertanto due brevi stralci dal libro umoristico “Dicette Giobbe” di Giobbe Covatta, per sorridere un po' con alcuni episodi della Bibbia.
LUMEN


LA GENESI

<< Si era nella notte dei tempi, e Dio era ancora immensamente piccolo.
Quella sera i suoi genitori, il Signore e la Signora Padreterno, erano stati invitati a una festa in maschera da Manitù. Per animare un poco la serata si erano vestiti da cow boy, perché a quelle feste ci si annoiava molto: ogni due valzer c'era una danza della pioggia!

Il piccolo Dio doveva restare solo a casa.
« Ho paura » aveva detto.
« Alla tua età?! » aveva risposto il papà. « Hai quasi un miliardo di anni... Sei un uomo ormai! ».
« Cos'è un uomo? » aveva chiesto Dio.
« Boh? » avevano risposto i genitori, ed erano usciti.

Ora il piccolo Dio era nel suo lettino con gli occhi sbarrati. Nel buio, perché la luce non c'era, e col triangolo sul comodino, non perché aveva forato ma perché a dormire col triangolo in testa si bucava tutto il cuscino.
Dopo tre millenni che tentava di dormire, si alzò per andare in cucina. Ma la cucina non c'era. Il frigo non c'era, la televisione non c'era, il Lego non c'era... Non c'era nulla, ma proprio nulla di nulla: e infatti era il nulla assoluto.

Allora il piccolo Dio prese le formine e andò in giardino a creare. Tutti in famiglia erano molto creativi: papà Padreterno lavorava in pubblicità e aveva creato le gomme che non si attaccano ai denti.

Ed ecco che il piccolo Dio creò la luce. La fece dodici ore sì e dodici ore no, perché il papà gli aveva detto: « Poi la bolletta la pago io! ».
E dopo la luce creò acqua, gas e telefono.
Poi creò delle palle e le appese immobili nel cielo.
Poi le fece girare, e subito fu un gran giramento di palle.

Poi passò agli animali.
Col pongo fece il maiale, e non gli avanzò nulla: non dovette buttare neanche un pezzettino di pongo.
E allora disse:
« Col maiale non si butta nulla ».
Poi Dio creò il cane e la sua famiglia: iene, coyoti, lupi. E subito il più fetente di questi, lo sciacallo, andò dal maiale e disse: « Sei un porco ».
« Eh già, » rispose il maiale « ha parlato l'ermellino! ».
E Dio li guardò soddisfatto e disse:
« Ora ho creato cani e porci ».

Ma era solo agli inizi.
Allora Dio creò un animale che stava sempre zitto, e disse:
« Questo è muto come un pesce » e lo chiamò pesce.
Poi scivolò e ci cadde sopra, e fece la sogliola.
Poi Dio creò il Panda, ma solo per la città: per i viaggi lunghi creò la Thema diesel.
Poi creò lo spaturno, ma vide che era inutile, e lo disintegrò. Però ci rimase male ad aver creato un animale inutile, e di pessimo umore se ne andò in un angolino.
E tutti gli dissero: « E dài, non fare l'orso... ».
E lui per ripicca fece proprio l'orso.

Poi creò la cicala e la formica. La formica lavorava come un asino, e la cicala cantava come un grillo. E la formica si incazzò come una pecora (a quel tempo le
pecore erano molto incazzose) e disse: « Ma come, quella canta sempre e io lavoro sempre... Io faccio un macello! ».

Poi creò il coccodrillo, e subito dopo la maglietta. Così mise il coccodrillo sulla maglietta, e fu un grande successo.
Poi Dio mise un coccodrillo da una parte e una iena dall'altra: e uno piangeva, piangeva, piangeva, e piangeva lacrime di coccodrillo; e l'altra rideva, rideva, rideva e rideva come una iena.
Allora Dio ci mise di mezzo il gufo, che stava serio serio.

Poi Dio fece la piovra, che subito gli chiese l'appalto per il dromedario, perché con quelli con la gobba la piovra ci andava d'accordo fin da allora.
Poi Dio fece il toro, ma si sbagliò e gli fece le corna, e disse: « Porca vacca », e marchiò così la povera vacca per sempre.
Poi Dio fece il cervo, ma si sbagliò ancora e gli fece le corna, e disse: « Porca vacca », e alla vacca gli cominciarono a girare i rognoni, e disse: « Va be', ma perché sempre io? ».

Dopo sei giorni passati a fare animali, Dio si stancò e andò altrove, a creare un universo di trenini elettrici. Creò vagoni, rotaie, locomotive, e anche i ferrovieri, che divennero padroni di quell'universo e adoravano come profeta il direttore generale delle ferrovie dello Stato.

E Dio creò la settimana corta, perché questa volta ci aveva messo solo quattro giorni per fare tutto, e disse:
« Sto migliorando... ».

Quando tornarono i genitori, dopo un milione di anni, papà Padreterno disse:
« Guarda che finimondo! Ma benedetto Dio! »
E Dio rispose: « Oui, c'est moi! ».
« Tu guardi troppa pubblicità » disse suo papà. E la mamma disse: « Andiamo a dormire, domani ci penso io a rimettere tutto a posto ».
E noi siamo ancora qua ad aspettare che suoni la sveglia. >>


ADAMO ED EVA

<< Riassunto della puntata precedente: In sei giorni il Signore aveva creato tutte le cose: il sole, la luna, quello scemo di Maradona, i puffi, la forfora, e tutti gli animali del creato, tranne Andreotti, che era già suo segretario da tempo immemorabile.

E allora il Signore disse:
« Orsù, prendiamo del fango. Orsù, impastiamolo. Poi ci sputò sopra, e nacque Adamo.
E Adamo, asciugandosi il viso, disse: « Cominciamo bene! ».

Ma i suoi guai non erano finiti lì, perché il Signore, non ancora soddisfatto, gli fece l'anestesia totale e creò la donna.
E Adamo disse:
« Signore, manca un pezzettino... ».
Ma il Signore rispose:
« No, questa è la donna ».
E Adamo ancora disse:
« Signore, mancano almeno tre etti... Si vede a occhio nudo! ».
Ma il Signore non volle sentire ragioni, e li mise entrambi in un posto così bello che si chiamava come un cinema a luci rosse: Eden.

E allora il Signore disse:
« Qui potete mangiare di tutto: carne, pesce, pane e Nutella, fritto misto, pizza margherita, ma non le mele, le mele no, LE MELE NO! ».
E Adamo rispose: « Non ti incazzare... Ci stanno gli aranci che mi piacciono pure di più... Mangeremo gli aranci! ».

Ed ecco che Adamo si diede a dare i nomi agli animali.
E diceva: « Tu ti chiamerai levriero, tu ti chiamerai porco... »
E il maiale diceva: « Ma come?! Quello levriero e io porco? E dove sta la giustizia divina? »
« E che cosa dovrei dire io, allora? » si lamentava lo scarrafone.
In quella Eva si trovava vicino a un albero; a un tratto si girò e vide un serpente.
E disse: « Che schifo! »
« Sei bella tu! » rispose il serpente, che era permaloso.

Ed ecco che prese a parlare ad Eva con voce suadente: « Le mele fanno bene, contengono le vitamine, una mela al giorno leva il medico di torno, meglio farsi le mele che farsi le pere... Se mangerete di questo frutto diventerete intelligenti ».
Ed Eva disse: « Ma noi siamo già intelligenti! ».
E il serpente guardò Adamo e disse: « Chillo è n'ora che va parlanno co' nu porco... Ti pare intelligente? »
« E vero » rispose Eva, e sputò in faccia ad Adamo.
« Che brutta giornata » disse Adamo. « Sono stato appena creato e già mi hanno sputato in faccia due volte ».

Ed Eva gli offrì una mela, ma Adamo rispose: « La mela no, costa un'ira di Dio! ».
Ma Eva minacciò di portarlo in un ristorante cinese, e Adamo accettò la mela. E mangiarono il frutto proibito.
Ed ecco arrivò il Signore e disse: « Vi caccio, quant'è vero Dio! ».
Ed Eva suggerì piano ad Adamo: « Diciamogli che siamo atei! ».
Ma Adamo scosse la testa: « Non posso, lo conosco personalmente », e si coprì il viso per evitare che qualcuno gli sputasse in faccia.

E il Signore disse:
« Donna, tu partorirai con gran dolore. Uomo, tu lavorerai con gran sudore, ammesso che troverai lavoro. E la Terra produrrà spine e sofferenze ».
E Adamo disse: « Ma santo Dio, tutto questo per una mela? Domani te ne porto un chilo... »
« Non è per la mela, » disse il Signore « è una questione di principio: oggi la mela, domani la collezione di francobolli, che figura ci faccio di fronte alla gente? »
« Ma se non c'è nessuno! » disse Adamo, ma il Signore fece finta di non sentire e sventolando il cartellino rosso se ne andò dicendo:
« A me! », che in antica lingua divina vuol dire « Addio », ma nessuno lo capì.

E Adamo ed Eva abbandonarono il Paradiso terrestre, e affittarono una caverna: due stanze, servizi e cucina abitabile, contratto uso foresteria. >>

GIOBBE COVATTA

venerdì 22 novembre 2019

Morte bella parea

Il dialogo virtuale di oggi ha come vittima il professor Paolo Flores d’Arcais, noto filosofo e direttore della rivista culturale “MicroMega”, ed ha come oggetto il tema, sempre importante e delicato, del “fine vita”, a cui il professore ha dedicato un breve ma intenso pamphlet dal titolo “Questione di vita e di morte”.
L'intervista è tratta – con minime variazioni - dal sito Bonculture e le domande sono di Felice Sblendorio (con cui mi scuso per il piccolo furto innocente).
LUMEN


LUMEN – Professore, buongiorno.
FLORES – Buongiorno a voi.

LUMEN - Come è giusto trattare il nostro fine vita? Può ognuno di noi decidere il proprio corso, oppure la nostra libertà di decisione deve essere condizionata da un estraneo, da una asettica maggioranza o da un altro potere con un preciso orientamento spirituale e ideologico?
FLORES – Sono domande molto importanti, direi fondamentali. E proprio a queste domande ho cercato di rispondere nel mio ultimo libro, "Questione di vita e di morte".

LUMEN - Il Cardinale Bassetti nello scorso settembre ha affermato che “Va negato un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente”. Tutto il contrario di quello che voi affermate in questo libro: è così?
FLORES - A tutti coloro che sostengono la posizione del Cardinal Bassetti sottopongo una domanda molto secca: sul vostro fine vita preferireste decidere voi oppure delegare una scelta così personale a qualcun altro? Io ho posto questa domanda in occasione di dibattiti e mai nessuno dice: “Preferisco che decida lei, che decida un estraneo che non so chi sia, che ha valori completamente diversi dai miei”. Tutti pretendono che sul loro fine vita decidano loro stessi.

LUMEN – Mi pare giusto.
FLORES - Ora, per quale motivo, visto che tutti pretendono una propria autonomia di scelta, ci sono alcuni che oltre a decidere sul proprio pretendono di decidere pure sul mio, sul suo, sul fine vita degli altri? È una pretesa assurda che non sta né in cielo, né in terra. Il diritto all’eutanasia è un diritto della sfera privata di ognuno di noi, che non dovrebbe neanche essere posto ai voti di una maggioranza, perché anche una minoranza risicatissima, che nell’ideale simbolico è il singolo cittadino, avrebbe diritto a decidere quello che vuole. Questo diritto è uno di quelli che non possono essere messi in discussione.

LUMEN - Credo che le due prospettive siano inconciliabili: Bassetti parla di dovere, voi parlate di diritto alla vita. Se non siamo in grado di rifiutare questo dono, scegliendo autonomamente il suo corso, cosa diventa la vita?
FLORES – Appunto. Che senso ha dire che la vita è un dovere, visto che poi il Cardinale parla di dono? Posto che l’espressione “vita come dono” è sempre utilizzata in forma retorica, perché ovviamente si intende dono di Dio e questo limita il concetto ai soli credenti: un dono è tale se io lo posso rifiutare, se io non lo posso rifiutare non è un dono ma una condanna. Si parla di dono da condividere con gli altri: questo, però, non è un dono. Io un dono posso rifiutarlo, tenerlo tutto per me, regalarlo. Un dono è questo, altrimenti si parla di dono ma s’intende altro: il dovere secondo la morale di Santa Romana Chiesa. Cambia tutto.

LUMEN – Voi pertanto destrutturate questa linea di pensiero, della vita come bene indisponibile. Perché non possiamo legittimare questa prospettiva come principio di natura ?
FLORES - Perché l’esistenza dell’uomo è quanto di più innaturale ci sia: dal primo momento in cui l’essere umano ha cominciato a utilizzare delle erbe facendo infusi per curare delle ferite, la sua vita non è stata più una vita determinata dalla natura, ma dall’intervento dell’uomo sulla natura. Dire che la morte deve avvenire in modo naturale non significa assolutamente nulla, perché noi interveniamo sempre contro la natura, contro il suo andamento spontaneo fin dall’inizio della nascita: se non intervenissimo in molti parti morirebbe sia la mamma che il bambino.

LUMEN – Verissimo.
FLORES - Chi parla di lasciar fare alla natura dovrebbe riflettere sulla radice della parola antibiotico: anti-bios, contro la vita, quella dei batteri, agenti che ci fanno del male e che noi distruggiamo. Quella della natura è una tesi assurda. Ne parlavano già gli stoici, Montaigne, Hume e proprio uno di loro diceva: spostiamo il corso dei fiumi per irrigare e questo non è contro la volontà della natura? Tutta la vita umana è contro natura.

LUMEN - La Chiesa parla di una cultura della morte, teorizzata anche da Benedetto XVI, mentre voi parlate dell’opposizione a questo diritto, che è la condanna alla vita. La vostra, però, non è un’apologia al suicidio: quando secondo voi è moralmente giusto lasciarsi andare?
FLORES - Il mio libro è un’apologia della libertà e della bellezza della vita, solo che la bellezza della vita implica il fatto che chi la vive la senta come qualcosa di bello: nel momento in cui si dovesse sentire questa vita come una tortura, con che diritto condanniamo una persona alla tortura?

LUMEN – E la tortura, giustamente, è proibita.
FLORES – Appunto. Io non mi metterei mai a decidere quando sia giusto prendere una decisione del genere, perché è una scelta particolare, circostanziata. La legge oggi stabilisce che si possano rifiutare delle cure mediche anche se queste cure portano alla morte, e lo fa perché riconosce un diritto di libertà: nessuno può obbligare queste cure e nessuno può decidere quando è giusto o sbagliato lasciarsi andare.

LUMEN - Su questo tema la politica ha latitato e continua a latitare. I diritti civili non sono politicamente urgenti?
FLORES - Non saprei, ma spero che non sia così. Su questi temi, secondo me, la decisione dovrebbe essere unanime perché viviamo in una società democratica dove la vita di ognuno è uguale quanto quella dell’altro in ordine di libertà e dignità personale. Il fatto che una parte clericale del Paese pretenda di imporre la sua idea sul fine vita anche per gli altri è una prevaricazione inaccettabile che dura da più di ottant’anni, da quando il fascismo decise di inserire quei principi nei codici.

LUMEN - È una decisione che può prendere una maggioranza politica?
FLORES - Questo è un dilemma. Io credo che un tema del genere debba unire tutti. Quando si dice che in parlamento molti sono contrari al diritto all’eutanasia dovremmo riprendere sempre quel vecchio interrogativo: e se decidesse per te il tuo nemico, ad esempio ? Se si decide a maggioranza, oggi chi soffre bestialmente potrebbe non porre fine alla sua tortura, ma domani un’altra maggioranza potrebbe dire che in caso di quelle sofferenze è obbligatorio porre fine. La maggioranza ha questa particolarità: può oscillare in un senso oppure nell’altro. È ovvio che sarebbe mostruoso imporre il fine vita a chi vuole continuare la sofferenza, come sarebbe ugualmente mostruoso decidere per chi non vuole soffrire più. Ecco perché è importante concorrere per la libertà.

LUMEN - I cardinali e la chiesa, comunque, restano sempre sullo sfondo. Anche nel vostro libro c'è una dura la critica contro le gerarchie ecclesiastiche italiane. Però non crede che, lasciando un momento da parte le varie ingerenze, si riveli più colpevole di queste mancanze la struttura democratica? La Chiesa tutela un patrimonio di valori non negoziabili, quelli che sostengono e nutrono un percorso di fede.
FLORES - Nel mio libro analizzo tutte le obiezioni al diritto di eutanasia svolte dalle tre figure più importanti della bioetica: il Cardinale Sgreccia, il Cardinale Tettamanzi e Monsignor Paglia. Sarei ben felice di sentire le teorie contrarie in un confronto pubblico da parte degli esponenti della Chiesa. Trovo curioso che la Chiesa non abbia il coraggio di dire quello che è abbastanza ovvio: noi chiediamo ai cattolici di rifiutare l’eutanasia perché per noi la vita è un dono di Dio e solo lui può decidere sul nostro corso. Quindi si stabilisce con forza il motivo di fede. È strano che rinuncino all’argomento di fede, che dovrebbe essere l’elemento fondamentale per un cattolico.

LUMEN – E perchè lo fanno ?
FLORES - Forse ci rinunciano perché sanno che se utilizzassero l’argomento di fede, che è l’unico valido per l’eutanasia, dovrebbero poi accettare che in uno Stato laico e pluralista questo valga solo per loro, ma non possa essere esteso come obbligo a tutti tramite il braccio secolare della legge. È così che la Chiesa ha smesso di confrontarsi, perché se la fede è il solo argomento convincente utile a negare il diritto di ciascuno a porre fine alle proprie sofferenze, non si può di certo pretendere che un motivo religioso diventi argomento per fare una legge. Questa sarebbe una pretesa analoga a quella della sharia.

LUMEN – Una prospettiva da brividi. Grazie professore e auguri per il vostro libro.
FLORES – Grazie e voi.

venerdì 15 novembre 2019

Punti di vista – 13

RESISTENZA
Un Paese come l’Italia è disposto a credere le cose più assurde, purché sufficientemente ripetute.
Ad esempio la leggenda dell’efficacia bellica della nostra “Resistenza”, cosa di cui non si trova traccia in nessun libro straniero di buon livello.
E del resto gli Alleati, imponendoci la resa “senza condizioni”, non ne hanno tenuto nessun conto, in sede di Trattato di Pace. Proprio perché non avevamo nulla con cui negoziare.
E come avrebbe potuto essere diversamente? La guerra moderna si combatte coi mezzi corazzati e i partigiani non avevano un solo carro armato.
Malgrado ciò, milioni di ingenui sono disposti a credere che la Resistenza abbia “liberato l’Italia dal nazifascismo”.
Aggiungendo che la Resistenza ci ha dato “i valori democratici”, come se l’Italia non li avesse avuti prima del fascismo e come se li avessero inventati i comunisti e non gli inglesi.
GIANNI PARDO


NUOVA GLOBALIZZAZIONE
La globalizzazione è in crisi, ma l'allarme climatico potrebbe essere il trucco per rilanciarla.
Cosa c’è di meglio, infatti, di una narrazione che vede l’umanità sotto la Spada di Damocle del disastro climatico, per imporre ancor più una globalizzazione basata sulla necessità di un comando politico planetario?
Le multinazionali, le grande banche d'affari, i principali centri del potere finanziario, remano tutti in questa direzione.
Così pure le attuali èlite politiche, che eviterebbero in questo modo la gran seccatura delle elezioni nazionali.
PROGRAMMA 101


SINTESI
Una delle cose che manca all’Italia è la sintesi.
La sintesi significa non brevità fine a se stessa, ma capacità di dire quello che si deve dire con il numero minore possibile di parole, così da non far perdere tempo all’interlocutore.
La sintesi è una virtù anglosassone e faremmo bene a importare quella, anziché infiniti anglicismi di cui non ci facciamo niente.
Articoli, documenti ufficiali, esternazioni politiche peccano sempre in questo: usare tante parole per dire poco. Ripetizioni, liste, abuso di aggettivi e avverbi, termini vuoti.
GAIA BARACETTI


DESTINO COLLETTIVO
Secondo Tolstoj l’umanità è incapace, collettivamente, di decidere del proprio destino.
Può solo proiettarsi in avanti, preda dei propri istinti primordiali ed inconsci, resi eccezionalmente distruttivi dalla conoscenza scientifica accumulata nei secoli.
Dove questo ci porterà, se all’ostinato prevalere dell’egoismo individuale e collettivo o ad un ripensamento etico, non è dato sapere, ma preoccuparsi è lecito.
MARCO PIERFRANCESCHI


WEB E CONFERME
Se la rete ha dato alle persone accesso a una quantità di informazioni che non è mai stata così ampia, allo stesso tempo ha creato il problema di come selezionare ciò che è rilevante per ognuno. (…)
Gli individui tendono naturalmente, proprio a causa della razionalità limitata da “pastori erranti”, a considerare le informazioni che confermano le proprie credenze e convinzioni precedenti, sminuendo ciò che è dissonante.
Si tratta, in buona sostanza, di una naturale omofilia: un meccanismo cognitivamente comodo (e molto praticato, più di quanto siamo disponibili ad accettare coscientemente), poco dispendioso in termini di energia mentale, ma fallace.
Infatti “chi cerca conferme le troverà sempre”, e conferme di questa fattura potranno essere consolanti ma non aiuteranno a scovare le verità nascoste nelle pieghe della complessità: le regole dei filosofi della scienza come Karl Popper consiglierebbero, piuttosto, di verificare un’ipotesi provando a confutarla. (…)
Come pronta riposta gli algoritmi delle piattaforme funzionano in modo che gli utenti siano esposti tendenzialmente alle notizie che gradiscono (le capacità tecnologiche e di calcolo permettono profilazioni degli utenti e dei loro componenti sempre più precise e accurate).
GABRIELE GIACOMINI

venerdì 8 novembre 2019

Dietro l'immigrazione (i buoni e i cattivi)

Al dramma dell'immigrazione incontrollata ho già dedicato numerosi post, ma l'argomento è talmente importante che, come si dice, repetita juvant (anche se forse serve a poco).
Eccovi pertanto le riflessioni sul tema di Gaia Baracetti, sempre combattiva e controcorrente, com'è nel suo stile.
LUMEN



<< [Esiste] un luogo comune per cui sarebbe una questione di “umanità” far sbarcare i profughi in Italia, e “disumano” non farlo. Questo viene dato così per scontato che non si dubita neanche di questa divisione tra buoni e cattivi relativa all’immigrazione, al punto che chiunque ponga delle domande che sembrerebbero ovvie è costretto a dubitare di se stesso e della propria “umanità”, per l’appunto. (…)

Facciamo finta che non esistano già prese di posizione intransigenti su questo tema e poniamo alcune domande innocenti.

Cosa c’è di “umanitario” nel continuare a incoraggiare un traffico di esseri umani sulla cui violenza siamo ampiamente stati istruiti? Cosa c’è di umanitario nel permettere a masse enormi di persone di stabilirsi in paesi sempre più in difficoltà ad accoglierli, dove facilmente non troveranno lavoro legale ed entreranno in circoli di illegalità, sfruttamento, e condizioni di vita “disumane”? Cosa c’è di umanitario nel mettere queste persone in concorrenza per la spesa pubblica, il lavoro e le risorse con la popolazione autoctona?


Cosa c’è di umano nel sostenere i traffici di chi li ha portati fino al rischio di morte per annegamento, e facendosi pure pagare, perché alla fine l’ingresso è in effetti garantito? Cosa c’è di umanitario nel mettersi nelle condizioni di cedere sempre a un ricatto senza fine, e più gente tiri fuori dall’acqua, più gente ci si butta? (No, non sto proponendo di lasciar annegare le persone).

Ogni tanto ci penso e mi arrabbio. Non ne posso più della sfilata di anime buone e pie che vogliono salvare e portare in Italia chiunque, e non si pongono il problema del dopo, parlano di accoglienza e integrazione ignorando l’evidenza che, dopo l’accoglienza e il permesso di restare, una buona parte di queste persone finirà a lavorare per qualche tipo di criminalità o a fare vita da schiavi nelle fabbriche o nei campi – e il fatto che, forse, per alcuni di loro questa vita sia preferibile al restare in patria non significa che sia una cosa buona creare situazioni del genere nel nostro paese, anche perché andrà a finire che dovremo adeguarci anche noi: “o così o non ti assumo.” È già così.

Io ogni tanto mi chiedo se quelli che parlano di umanità e accoglienza fanno finta di non sapere queste cose o non le sanno proprio perché non le vedono, perché non vanno nei quartieri popolari esasperati, nelle baraccopoli dell’agricoltura italiana, non vedono gli ex richiedenti asilo che dormono per terra all’addiaccio o chiedono l’elemosina, certe zone le evitano e men che meno prendono i mezzi pubblici, e quindi non sanno cosa sta succedendo.

I cittadini lo sanno – non so quante persone che conosco, al di sopra di ogni sospetto, hanno ammesso di pensare che la situazione abbia preso una brutta piega – ma hanno paura di quello che si direbbe di loro se si esponessero pubblicamente. Così come nell’humanitas latina la sicurezza di una forza schiacciante data dalla prevaricazione permette di moraleggiare sui dettagli, così anche qui dietro alle arie virtuose e persino alla buona fede di chi ci crede davvero ci sono progetti molto meno encomiabili.

Trasportare enormi masse di persone, in modo organizzato, tra continenti lontani non è una cosa che succede spontaneamente, nè che si verifica a ogni guerra o carestia: negli Stati Uniti come in Europa come ovunque, una cosa del genere dev’essere organizzata e qualcuno la deve anche pagare, perché viaggi e logistica costano. E con quali motivazioni, allora? Molte persone operano per genuino altruismo, ma la macchina è mossa a tutti i livelli, livelli che non si scomodano per beneficienza.

Io sono convinta che buona parte delle forze politiche sostenute dalle forze economiche e dalle elite intellettuali voglia semplicemente importare forza lavoro a basso costo, non voglia affrontare le difficoltà (sormontabili) legate all’invecchiamento della popolazione autoctona, alla crisi del sistema pensionistico e al rallentamento della crescita economica, e non abbia trovato niente di meglio che tamponare le falle con l’ingresso di persone qualsiasi purché giovani e disposte a farsi sfruttare. (…)

E non c’è un guadagno solo per i datori di lavoro europei: i paesi di transito hanno a disposizione un potere ricattatorio perenne, grazie al quale possono pretendere armi, denaro o mano libera nei conflitti locali, mentre i paesi di partenza si sgravano di un problema che non sono in grado di gestire, così come i paesi europei mandarono dichiaratamente tutti i loro indesiderati – poveri, delinquenti e dissidenti vari – fuori dai piedi nelle colonie, e pazienza se chi ci abitava già non era d’accordo.

E questa è una serie di motivi che spiegano quello che succede e continua a succedere e non ha nulla a che vedere con la compassione o la generosità (nell’impero romano, a proposito, la migrazione funzionava più o meno allo stesso modo, finché non è sfuggita di mano e sono cominciate le invasioni barbariche).

Al tempo stesso, essendo la nostra cultura e anche le nostre religioni basate sulla negazione dei limiti naturali e sull’indifferenza verso la distruzione ambientale, fatti salvi discorsi di circostanza, non riusciamo ad affrontare le ragioni nè delle nostre difficoltà nè delle loro, basate non solo e non tanto sullo sfruttamento occidentale dei popoli poveri (la realtà è enormemente più complessa), ma su pressioni demografiche insostenibili, conseguenti disoccupazione, conflitto, e distruzione delle risorse localmente disponibili.

L’empatia, quell’emozione così strettamente associata al nostro concetto di “umanità”, è molto facilmente manipolabile. Vedi il volto di un giovane africano e puoi pensare: poverino, è in viaggio da così tanto tempo!, oppure: cosa farà una volta arrivato? Vedi una giovane africana con un bambino in braccio e puoi pensare: sarà stata stuprata!, ma anche: perché fanno figli che non sono in grado di mantenere, e pretendono che li manteniamo noi?

Vedi un bambino separato dai genitori perché migranti illegali negli Stati Uniti e puoi provare pena e rabbia, ma verso chi? Verso chi attua una politica migratoria repressiva, o verso chi si imbarca con dei bambini in un viaggio che sa essere pericolosissimo verso un paese la cui politica ufficiale è che non può entrare? E perché non ti viene in mente di compatire l’americano disoccupato perché scalzato da un migrante, o l’animale che perde il suo habitat per far posto a nuove case?

L’empatia dipende, dipende da che foto ti mostrano, da che storia ti raccontano, e le storie che gli umani raccontano non sono necessariamente vere, nè sono necessariamente storie complete. Ci raccontano che non possiamo rimandare le persone in Libia perché vengono torturate, ma non ci permettono di chiedere cosa ci facessero lì o perché mai queste persone continuino ad andare in Libia, dato che sanno tutti che in Libia c’è la tortura. (…)

E ancora: dato che a certe storie corrisponde un premio e ad altre no, che si sa quali sono le storie giuste da raccontare e quali quelle sbagliate, e che l’essere umano (come altri animali) è capace di mentire, come facciamo a sapere se quello che ci viene detto è sempre vero?

L’empatia è un sentimento ingannevole, fondamentale ma fuorviante – proviamo pena per le vittime e per gli assassini, per chi racconta bene più per chi soffre davvero, per chi trova qualcuno che si faccia carico della sua storia più che per qualcuno la cui condizione di vittima non rientra nei canoni previsti al momento. Non possiamo provare pena per tutti simultaneamente, sarebbe devastante, e quindi proviamo pena di volta in volta per delle categorie, quasi come una moda, calata dall’alto. (...)

La compassione senza conoscenza e senza comprensione è un sentimento non solo incompleto, ma anche pericoloso. Le grandi persecuzioni della storia si basano tutte sull’accusa al perseguitato di aver fatto soffrire qualcuno – che si tratti di streghe, ebrei, nemici del popolo o selvaggi. >>

GAIA BARACETTI

venerdì 1 novembre 2019

I piaceri della carne

La 'querelle' tra carnivori, vegetariani e vegani è già oggi un tema di grande attualità, ma, visto il difficile equilibrio tra le risorse ambientali declinanti ed il continuo aumento della popolazione, potrebbe diventare sempre più importante.
Per questo ho letto con grande interesse l'articolo che segue, molto approfondito ed equilibrato, scritto da Bruno Sebastiani su questo argomento (dal blog di Ugo Bardi).
LUMEN


<< I vegetariani e i vegani sostengono che mangiare carne sia nocivo per gli animali uccisi, per la salute di chi li mangia e per l’ambiente. Nonostante la percentuale ridotta di chi aderisce a queste diete, meno del 10% della popolazione mondiale, le argomentazioni esposte contengono elementi che meritano la massima considerazione. Riassumiamoli partitamente e poi svolgiamo ulteriori considerazioni.

Nocività per gli animali uccisi

Chi è preda e soccombe non può che vivere con angoscia il proprio annientamento. Ma se questa è una legge universale, il dramma vissuto dal bestiame ai nostri giorni è di dimensioni ben più ampie sia quantitativamente che qualitativamente. Non riporterò in questa sede i dati numerici né riferirò delle terribili condizioni in cui vivono e muoiono gli animali negli allevamenti intensivi.

Si tratta infatti di situazioni ben note e documentate, sebbene la maggioranza delle persone preferisca ignorarle. In quel tipo di allevamenti viene praticato l’esercizio massimo di violenza nei confronti della natura. Là persino il venire al mondo è in funzione della successiva macellazione. E, tra la nascita e la morte, la vita trascorre in una serie inenarrabile di tormenti.

Nocività per chi mangia gli animali uccisi

Mentre il primo tipo di nocività è indubbio, relativamente al secondo tipo, la nocività della dieta carnivora per gli esseri umani, l’argomento è controverso. Analizzare la questione significherebbe addentrarsi in un ginepraio di dati e informazioni contrastanti dal quale sarebbe difficile uscire.

Mi limiterò pertanto ad assumere come elemento di sicura nocività (universalmente conclamata in campo medico) l’eccessivo consumo di carne da parte dell’uomo e ignorerò per il momento l’estremo opposto, ovvero se possa essere nociva anche una dieta completamente priva di carne e suoi derivati.

Nocività degli allevamenti di animali per l’ambiente

Per consentire la dieta carnivora di 7 miliardi di persone (il 90% della popolazione non vegetariana), occorre mantenere in vita e poi uccidere oltre 29 miliardi di animali (dati FAO del 2014). Questi numeri non consentono di riservare a tali animali gli spazi e il tipo di vita che madre natura aveva progettato per loro. Di qui l’esigenza di allestire gli allevamenti intensivi, resi ancor più infelici e brutali dall’avidità e dalla cattiveria umana.

La concentrazione di tanto materiale organico in spazi ristretti è fonte di grave inquinamento per il pianeta, così come l’altro elemento di elevata nocività è rappresentato dal mangime necessario per sfamare 29 miliardi di bocche: per produrlo ampie zone del pianeta vengono deforestate e sottoposte a monocolture intensive di soia e di altri legumi e cereali. Anche in questo caso ometto di citare i dati, facilmente reperibili in rete e su importanti testi qualificati.

Se questi sono i capi di accusa rivolti da vegetariani e vegani ai cosiddetti “onnivori”, quali altre argomentazioni possono essere svolte a completamento del tema?

Il ruolo svolto dall’alimentazione carnivora nell’evoluzione della nostra specie

Praticamente tutti gli antropologi concordano sul fatto che i nostri lontanissimi progenitori fossero erbivori. Tra sette e cinque milioni di anni fa avvenne la mutazione che dall’albero genealogico dei primati originò il nuovo ramo della nostra specie, i cui primi esponenti furono gli australopitecini, caratterizzati da un cervello di dimensioni maggiori di quello degli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi.

Secondo Richard Wrangham, antropologo britannico allievo di Jane Goodall e autore di “Catching Fire. How Cooking Made Us Human” (...) il «passaggio da una dieta a base di fogliame a una – qualitativamente superiore – a base di radici è una spiegazione plausibile del primo incremento delle dimensioni del cervello (da 350 a 450 cm3 circa) nel passaggio dalle scimmie antropomorfe della foresta agli australopitecini».

A questo primo incremento ne seguirono altri di entità ben maggiore in corrispondenza di importanti variazioni nella dieta degli ominidi, che iniziò a contemplare l’assunzione di proteine animali. Wrangham individua tre di tali variazioni.

La prima sarebbe avvenuta poco più di due milioni di anni fa, allorquando il nostro antenato Homo habilis iniziò ad affilare pietre e a mangiare carne. I ritrovamenti archeologici non lasciano dubbi al riguardo. Le difficoltà connesse a una dentizione e a un organismo inadatti al consumo di carne cruda furono superate in parte grazie all’uso di questi strumenti litici (che consentivano di tagliare e battere la carne) e in parte grazie a lente e graduali modifiche anatomiche.

Secondo “The Expensive-Tissue Hypothesis” (“L’Ipotesi del Tessuto Costoso”) di Leslie Aiello e di Peter Wheeler, il consumo di carne avrebbe fatto crescere le dimensioni del cervello e consentito la parallela diminuzione delle dimensioni dell’intestino. La capacità cranica di Homo habilis passò da 450 a 612 cm3.

La seconda variazione, ben più sostanziosa, avvenne 1,8 milione di anni fa con il passaggio da Homo habilis a Homo erectus e con un aumento delle dimensioni del cervello da 612 a 870 cm3 (primi esemplari di “erectus”) fino a 950 cm3 (tardi esemplari, un milione di anni fa).

Tale balzo avvenne contestualmente all’”addomesticamento” del fuoco e al suo uso per la cottura della carne e di altri cibi. «Per oltre 2,5 milioni di anni i nostri antenati hanno tagliato via la carne dalle ossa delle loro prede, e l’impatto fu rilevante. Una dieta che comprendeva carne cruda e vegetali diede inizio all’evoluzione di cervelli più grandi. Ma ci sarebbe voluta l’invenzione della cottura per trasformare gli habilines (Homo habilis) in Homo erectus e dare il via al viaggio che ha condotto … fino all’anatomia dei moderni esseri umani.» (Wrangham)

Una terza variazione « si verificò con la comparsa dell’Homo heidelbergensis (altrimenti conosciuto come Homo sapiens arcaico), a partire da ottocentomila anni fa. Anche questo aumento fu sostanziale e fece sì che il cervello raggiungesse i 1200 centimetri cubici circa.» (ibidem)

Quali le cause di questo nuovo balzo in avanti? «Una possibilità è l’introduzione di una tecnica di caccia più efficace; ciò rende credibile l’ipotesi che l’assunzione di carne, e di conseguenza l’utilizzo di grassi animali, sia aumentato in modo significativo e abbia giocato un ruolo nell’evoluzione da Homo erectus a Homo heidelbergensis. In alternativa, di sicuro la cottura continuò ad avere effetti sull’evoluzione del cervello anche molto tempo dopo che era stata inventata, perché con il trascorrere del tempo i metodi di cottura migliorarono.» (ibidem)

A quell’epoca eravamo cacciatori e raccoglitori, onnivori e cioè mangiatori di animali e di piante. Così siamo ancora oggi, a oltre due milioni di anni di distanza. Sono cambiate le fonti di approvvigionamento: la pastorizia e l’allevamento hanno sostituito la caccia, l’agricoltura ha sostituito la raccolta. Ciò che ci metteva a disposizione la natura oggi ce lo procuriamo artificialmente e con ordini di grandezze ben superiori a quelli di una volta.

In natura è normale cibarsi di carne

Avremmo potuto non imboccare la via dell’alimentazione carnivora e rimanere erbivori? È una domanda priva di risposta in quanto inverificabile. Ma nel ragionare di tale argomento teniamo comunque presenti due questioni.

Prima questione. Anche le piante sono dotate di vita, e noi come tutti gli altri onnivori ed erbivori ce ne cibiamo senza alcuno scrupolo.
Seconda questione. Molte specie animali sono carnivore. Ma anche le altre si nutrono di organismi viventi più o meno grandi. Il pesce grosso mangia quello piccolo e quest’ultimo si nutre di plancton, che è un misto di organismi animali e vegetali, le galline mangiano i vermi ecc. ecc.

Ma qual è il limite dimensionale al di sotto del quale è ammissibile per la morale “vegetariana” sopprimere una vita a fini alimentari e al di sopra del quale non lo è? Sembra di capire che una certa dose di antropocentrismo venga trasmessa, quasi come proprietà transitiva, agli animali di dimensioni come le nostre o poco maggiori o poco minori, talché uccidere un vitello o un pollo e mangiarlo è riprovevole, mentre uccidere un microorganismo o un insetto non lo è, o lo è molto meno.

La verità è che la vita è un processo trasformativo che fagocita di continuo organismi viventi per consentire ad altri organismi viventi di nascere, svilupparsi, crescere e morire in un ciclo senza fine. Persino il nostro corpo dopo la morte diverrebbe pasto per vermi, iene o avvoltoi se venisse abbandonato alla natura anziché essere tumulato in casse a tenuta stagna.

Non è quindi il mangiar carne lo scandalo, ma il modo in cui noi uomini ce la procuriamo, le indicibili sofferenze inflitte ai 29 miliardi di animali che alleviamo a scopo alimentare.

Che effetti può avere una dieta priva di carne sul lungo periodo?

Questa terza considerazione è certamente quella che più delle altre sarà oggetto di critiche da parte di vegetariani e vegani, i quali giurano e spergiurano che la salute umana non può che trarre benefici dall’eliminazione della carne.

Poiché mi rendo conto che la questione è complessa, assai difficile da dirimere e coinvolge troppe esperienze individuali, cercherò di affrontare l’argomento da un punto di vista evolutivo, astenendomi dal commentare le singole situazioni pro o contro l’uso della carne. (…)

Il passaggio dall’alimentazione erbivora a quella carnivora (o meglio onnivora) ha richiesto milioni di anni, nel corso dei quali il nostro fisico e la nostra anatomia si sono lentamente modificati adattandosi alle nuove sostanze nutritive. È ragionevole pensare che ora, nel corso di una sola generazione, si possa tornare ad essere erbivori? È legittimo credere che ciò possa avvenire senza conseguenze fisiche per chi si sottopone alla nuova dieta?

Ma ammettiamo che il nuovo regime sia sostenibile da chi lo adotta e che i singoli vegani – utilizzando particolari prodotti vegetali o alcuni integratori alimentari messi a disposizione dall’industria chimica – riescano a vivere felicemente la loro scelta. Che ne sarà delle future generazioni? Se il sistema venisse esteso a tutta la popolazione mondiale, come evolverebbe Homo sapiens da qui a centomila o un milione di anni?
Forse in quel futuro Homo sapiens non ci sarà più, ma questo è un altro discorso.

Proviamo invece a ragionare secondo il ben noto imperativo categorico kantiano che ci impone di comportarci come se ogni nostra scelta potesse essere replicata utilmente per il bene di tutti i nostri consimili. E teniamo presente che il nostro cervello ha raggiunto le sue attuali dimensioni anche in conseguenza del consumo di carne.

Se non la si mangiasse più, regredirebbe? E l’intestino tornerebbe a crescere per poter assimilare solo vegetali? Forse il pianeta gradirebbe un arretramento delle nostre capacità intellettuali, ma si tenga presente che voler modificare artificialmente l’evoluzione comporta il rischio di disastri ben più gravi delle disfunzioni che si intende correggere.

Conclusione

Siamo davanti a un vicolo cieco e la strada sin qui fatta non può essere percorsa a ritroso! (…) L’auspicio di vegetariani e vegani di non mangiar più carne risolverebbe parte dei problemi, ma va contro la natura dell’essere umano così come si è evoluta in milioni di anni, e perdippiù non è condiviso dal 90 % della popolazione.

Bisognerebbe imporlo con la forza, e c’è da temere che l’eco-catastrofe che si profila all’orizzonte comporti prima o poi la necessità di nuove forme dittatoriali: un esito ben triste per un’era nata col sogno del progresso e della libertà. >>

BRUNO SEBASTIANI