venerdì 24 maggio 2019

La Sinistra e il Nazionalismo – 1

Un pezzo magistrale di Carlo Formenti (tratto dal suo libro “Il socialismo è morto, viva il socialismo” e pubblicato dal sito ‘Sollevazione’) sulle differenze esistenti tra il nazionalismo classico “di destra” e quello, forse meno noto, “di sinistra”.
Da buon marxista, Formenti è eccezionale nella sua analisi storico-politica (che – in quanto elitista – condivido) ed inevitabilmente ingenuo nella parte propositiva. Ma non si può avere tutto.
Il post, molto lungo, è stato diviso in 4 parti per comodità di lettura. 
LUMEN


<< 1 - Il ‘populismo’ non è un’ideologia: in primo luogo perché non esistono testi “fondativi” (paragonabili a quelli di Marx per la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al discorso populista, poi perché quest’ultimo non è associato a contenuti programmatici univoci.

Di più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento (entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron, Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia, Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi, orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs Ciudadanos in Spagna).

Esistono tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo. Mi riferisco, in particolare, all’uso di un linguaggio semplificato e diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice parlare alla “pancia” delle persone) e teso a istituire opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado di creare un inedito senso comune (…).

2 - Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazi-fascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.). Si tratta al contrario d’una costruzione politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di potere consolidato. Il “momento populista” sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberal-democratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte.

L’accumularsi di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per l’emergenza di un popolo, che altro non è se non l’insieme dei soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti dell’oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere economico, politico e mediatico.

In altre parole, si potrebbe dire che è solo attraverso la relazione con un sistema di potere vissuto come nemico che si costituisce l’identità di un popolo. L’unità politica del popolo, in quanto insieme eterogeneo di settori che vivono una contraddizione antagonistica con il potere, non è a sua volta un dato: è essa stessa il prodotto di un progetto di costruzione politica.

Il “colore” di tale progetto dipende da quale delle domande insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e di sinistra.

3 - Le sinistre tradizionali (social-democratiche e radicali) negano a priori che possano esistere populismi di sinistra, al punto che fanno un uso spregiativo dell’aggettivo populista come sinonimo di reazionario (o addirittura fascista). C’è chi ha giustamente commentato che populista è l’aggettivo cui la sinistra ricorre per designare il popolo quando quest’ultimo smette di accordarle fiducia.

Dopodiché esistono molti criteri per distinguere fra populismi di destra e sinistra: i primi rappresentano il popolo come insieme della “gente comune”, i secondi come insieme degli strati inferiori della popolazione; i primi si propongono di “sanare” l’ordine politico strappandone il controllo alla “casta”, senza metterne in discussione le strutture sociali e istituzionali, i secondi rivendicano obiettivi anticapitalisti più o meno espliciti e radicali e si propongono di democratizzare lo Stato.

Non si può tuttavia negare che esistano zone grigie in cui le visioni si sovrappongono: dall’opposizione fra localismo e cosmopolitismo a quella fra valori comunitari e individualismo borghese, all’atteggiamento critico nei confronti dell’esaltazione del nuovo e della modernità.

4 - Anche se e quando riconoscono l’esistenza di populismi di sinistra, le sinistre tradizionali ne contestano la rappresentazione del popolo come totalità che prescinde dalle divisioni di classe (…). Qui entra in gioco un nodo cruciale, che occorre sciogliere se si vuole cogliere l’essenza del fenomeno populista come forma della lotta di classe nell’era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Le ambiguità ideologiche del populismo sono inevitabili nella misura in cui esprimono ampie alleanze fra classi sociali, a loro volta incerte sulla propria identità, nonché prive di autonomia politica e autocoscienza.

La grande narrazione marxista si è sempre fondata sulla ricerca di un soggetto rivoluzionario privilegiato. Tale ricerca suona anacronistica in un’epoca in cui ristrutturazione capitalistica, de-localizzazioni produttive, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, annientamento delle rappresentanze tradizionali degli interessi proletari hanno causato una stratificazione delle classi subalterne, fino a ridurle ad amorfo insieme di individui. In tale contesto la classica contraddizione fra capitale e lavoro sembra lasciare il campo alla contraddizione ‘capitale contro tutti’.

In effetti, è questa la filosofia che ispira la categoria post-operaista di “moltitudine”, fondata sulla tesi che il capitalismo contemporaneo mette al lavoro la vita stessa. Ma tale visione ha il difetto di riproporre la logica della definizione di un Soggetto salvifico della rivoluzione: la si potrebbe descrivere come il tentativo di estendere l’identità operaia all’umanità intera. La logica gramsciana della costruzione di un blocco sociale articolato su differenti classi, gruppi e identità collettive appare assai più realistica.

Nella versione del populismo di sinistra tale logica assume una coloritura “plebea”, nella misura in cui l’analisi della composizione di classe viene di fatto ricondotta alla distinzione fra tre grandi “stati” postmoderni: oligarchi, classe media e un gigantesco terzo Stato composto da tutti i perdenti della globalizzazione. Di conseguenza, l’obiettivo diventa costruire il blocco sociale fra terzo Stato e classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, piccoli-medi imprenditori). Per concludere: costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più.

5 - Un altro aspetto del populismo che irrita le sinistre è l’impossibilità di fare a meno della figura di un leader carismatico. Queste forze presentano un contraddittorio miscuglio di democraticismo (contingentamento dei tempi di intervento nelle assemblee, reversibilità delle cariche, vincolo di mandato per gli eletti a cariche istituzionali, esaltazione della Rete come canale di partecipazione democratica ecc.) e centralizzazione del ruolo di direzione politica che, quasi sempre, si concentra nelle mani di un leader e del “cerchio magico” dei suoi più stretti collaboratori e consiglieri.

Premesso che l’esaltazione del leader è un elemento ricorrente anche nella storia del movimento operaio, alcuni suggeriscono che sia possibile distinguere fra populismo di destra e di sinistra proprio a partire dalla rappresentazione del leader, il quale è, per il primo, un uomo dotato di virtù eccezionali che si eleva al di sopra della massa, per il secondo un uomo dotato di qualità non comuni ma non diverso dall’uomo comune, un ‘primus inter pares’.

Non credo però che il vero problema sia questo. Il punto è che tanto l’esaltazione del leader quanto quella della democrazia diretta e partecipativa rispecchiano la natura di forze politiche che sono partiti-movimenti scarsamente istituzionalizzati. È possibile che questa struttura rifletta una fase sperimentale e transitoria nel percorso di ricerca di soluzioni organizzative e istituzionali alla crisi della democrazia rappresentativa.

Che le istituzioni liberali si siano trasformate in regimi post-democratici, svuotando di senso qualsiasi reale possibilità dei cittadini di condizionare le scelte del potere, è un dato di fatto. Tale evoluzione può essere descritta come una sorta di divorzio fra tradizione liberale e tradizione democratica (a sua volta riflesso del divorzio fra democrazia e mercato). L’articolazione fra la prima (fondata sul governo delle leggi, sulla libertà individuale e sui diritti umani) e la seconda (fondata sulla sovranità popolare e sui principi di uguaglianza e di parità fra governanti e governati) si sta rivelando come il prodotto contingente di una fase storica in via di esaurimento.

Se le cose stanno così, è evidente che il populismo, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, rappresenta l’unico concreto tentativo di reintrodurre l’elemento democratico negli attuali sistemi rappresentativi. >>

CARLO FORMENTI

(continua)

venerdì 17 maggio 2019

Punti di vista – 7

POST DEMOCRAZIA
Credo che la forma d’oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l’hanno preceduta nel mondo.
Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri.
Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria.
Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite.
Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi.
ALEXIS DE TOCQUEVILLE


AMBIENTE ED ELITES
Quelli che detengono le leve del potere, non si rendono del tutto conto di cosa succede [a livello ambientale] e preferiscono disinteressarsene, mentre chi subisce le conseguenze del disastro ambientale non ha voce in capitolo.
Le potenti elites manageriali e anche politiche, da parte loro, hanno competenze di tipo economico o politico, molto più che scientifico, per cui sono naturalmente portate a trascurare o sottovalutare le preoccupazioni degli scienziati, provenienti da una cultura estranea alla loro.
GAIA BARACETTI


EQUA RETRIBUZIONE
Quando nella Costituzione Italiana leggiamo che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” abbiamo, in sequenza, una tautologia e un assurdo. 
È una tautologia che si paghi di più un lavoro più lungo e di maggiore qualità, ma è assurdo – per giunta contraddicendo la prima metà della frase – che questa retribuzione debba essere commisurata non al lavoro, ma alle esigenze della famiglia del lavoratore. 
Perché se due famiglie hanno uguali esigenze, ma in una il capofamiglia è un neurochirurgo e nell’altra è un usciere comunale, la Costituzione dovrebbe spiegarci se dobbiamo pagarli nello stesso modo (perché le esigenze delle due famiglie sono uguali) oppure se dobbiamo pagare di più il neurochirurgo (perché il suo lavoro è di qualità superiore).
In un Paese libero (anche da invadenti ideologie) la retribuzione del lavoro dipende dalla domanda e dall’offerta, e non dalle esigenze del lavoratore. 
È soltanto se si parte da un punto di vista morale o ideologico, sul lavoro, che si può ipotizzare di pagare tutti nello stesso modo, o secondo le esigenze delle loro famiglie. 
E infatti l’Unione Sovietica e la Cina di Mao non sono andate molto lontano da questa mentalità. Solo che il risultato non è stato certo la prosperità.
GIANNI PARDO


TRATTATI EUROPEI
Chi pensa che i Trattati europei possano essere riformati si illude. 
La regola dell’unanimità lo rende praticamente impossibile, cosa di cui si sono già avute numerose prove. 
I Trattati, dunque, quelli sono e quelli resteranno, e sognare “un’altra Europa” è del tutto irrealistico. (...)
Consci di questo fatto, i governi e le tecnocrazie europee procedono evitando in tutti i modi possibili di consultare i cittadini, perché sanno che nemmeno con le loro massicce dosi di propaganda riuscirebbero ad ottenere maggioranze che approvino i loro disegni.
CARLO CLERICETTI


DISUGUAGLIANZA
Le masse saranno sempre al di sotto della media.
La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà, e la democrazia arriverà all'assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci.
Sarà la punizione del suo principio astratto dell'uguaglianza, che dispensa l'ignorante di istruirsi, l'imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi.
Il diritto pubblico fondato sulla uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze.
Perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell'appiattimento.
L'adorazione delle apparenze si paga.
HENRI-FREDERIC AMIEL

(Nota di Lumen - Le ruvide parole di Amiel riflettono quello che le elités pensavano, nell’ottocento, del popolo comune. Sono parole che oggi non siamo più abituati a leggere e che ci sembrano quasi inconcepibili. Ma non credo che le elités siano cambiate di molto, per cui, forse, è solo una questione di forma. Nel senso che, un tempo, certe cose le potevano dire senza problemi, mentre oggi le possono solo pensare.)

venerdì 10 maggio 2019

Come si gestisce l’immigrazione

Dopo aver parlato (criticamente) di demografia teorica, come nell’ultimo post, vorrei parlare oggi di demografia pratica, cioè applicata alla vita reale, con le considerazioni, brevi ma assolutamente ineccepibili, di Gianni Pardo sul problema dell’immigrazione e sul modo corretto di affrontarlo.
Questa volta non ci sarà bisogno di nessun poscritto, perché le tesi del professore mi sembrano tutte condivisibili e piene di buon senso (merce rara di questi tempi). 
Buona lettura. LUMEN


<< Sull’immigrazione, i cittadini [italiani] si dividono in favorevoli e contrari, ma pochi sono quelli che si chiedono: “Quale immigrazione?”

Negli Stati Uniti del 1776 gli americani si sono accorti di essere pochi e in possesso di un territorio sconfinato. E in quel momento il numero di abitanti era importante, perché la massima attività del tempo, l’agricoltura, non richiedeva ardue conoscenze tecniche, ma soprattutto uomini disposti a faticare nei campi. Per questo l’America fu pronta ad accettare chiunque, perché chiunque, volontariamente o forzato – ecco l’origine della schiavitù – era in grado di concorrere alla prosperità nazionale. I giovani Stati Uniti furono molto generosi nel concedere la cittadinanza: bastava (e basta ancora oggi) essere nati nel nuovo Paese.

Ora prendiamo un caso opposto: la Svizzera. Questo Paese è talmente piccolo che negli Stati Uniti entrerebbe più di 238 volte. Per giunta, una grande parte della Confederazione è costituita da montagne, inutilizzabili per l’agricoltura. E tuttavia – ecco il punto interessante – questo piccolo Paese, privo di risorse naturali, è molto ricco e i suoi abitanti hanno uno dei più alti livelli di vita del mondo. Ciò perché quasi tutti gli svizzeri, invece di operare nell’agricoltura, svolgono lavori legati alle attività industriali (che richiedono specializzazione e alta tecnologia); alle attività finanziarie (in generale precluse ai semi-analfabeti), e al turismo.

Per conseguenza, l’immigrato che non ha una specializzazione o anche – semplicemente – che non parla tedesco, francese o italiano, ha ben poche probabilità di integrarsi nella vita sociale. Accolti i pochi che servono per i lavori più umili e faticosi, gli svizzeri chiudono le porte a tutti gli altri. E, quanto alla cittadinanza, bisogna sudarsela fino all’inverosimile.

E qui si cominciano ad avere le idee più chiare sull’immigrazione. Non è che gli americani del ‘700 fossero accoglienti e gli svizzeri di oggi razzisti ed egoisti. È soltanto che gli americani avevano bisogno di contadini (anche neri, prelevati con la forza) mentre gli svizzeri non ne hanno nessun bisogno e per loro riceverli sarebbe un peso. Ecco dunque la prima domanda che ogni Paese deve porsi: quegli immigrati ci servono? Se sì, attiriamoli, se no, respingiamoli. La questione non è etica, è fattuale.

Immediatamente dopo la questione economica, si pone la questione nazionale, cioè quella della possibile integrazione “culturale”. Israele è nato come “home” ebraico, piccolissimo rifugio per gli ebrei perseguitati. E dunque, anche se fosse grande come la Grecia, non potrebbe aprire le porte a tutti indiscriminatamente. La sua tolleranza potrebbe arrivare ad accettare atei ed agnostici, ma non potrebbe mai arrivare ad accogliere i musulmani cui è stato insegnato (nei decenni recenti, prima non era così) ad odiare e perfino ad uccidere gli ebrei.

Nello stesso modo, un Paese prevalentemente musulmano farebbe male a favorire un’immigrazione massiccia di cristiani. Basti osservare i problemi che l’Egitto ha di già con i copti (anche se non certo per colpa loro). Per non parlare delle lacrime che ha dovuto versare l’Europa a causa degli integralisti islamici. Se è possibile, bisogna impedire l’immigrazione di etnie che fatalmente finiranno col costituire gruppi allogeni, come per esempio dei neri in un Paese di bianchi o dei bianchi in un Paese di neri, perché il colore della pelle determinerà sempre una distinzione. I “razzisti” saranno pure degli stupidi, ma ce ne sono molti dovunque.

A questo punto si può esaminare la situazione. L’Italia ha un eccesso di offerta di lavoro? Non si direbbe. E allora non abbiamo bisogno di nuovi disoccupati. L’Italia è un Paese bianco? E allora evitiamo di importare dei neri: saranno persone degnissime (e infatti i francesi li preferiscono ai maghrebini) ma hanno una pelle di colore diverso. L’Italia è un Paese cristiano o irreligioso? E allora evitiamo di importare persone le cui convinzioni religiose sono programmaticamente poco rispettose dello Stato laico, come impone l’Islàm. Tutti questi sono dati di fatto.

Ovviamente, se si fa dell’immigrazione soltanto una questione morale, ciò che è stato appena detto è un insieme di eresie inumane, razziste e fasciste, come è sempre di moda dire. >>

GIANNI PARDO

venerdì 3 maggio 2019

I limiti della demografia

Torno a parlare di demografia con un pezzo di Giulio Meotti (tratto dal sito OPACT), con il quale mi trovo in parziale disaccordo, per i motivi che troverete esposti nel breve poscritto. La lettura comunque è molto interessante. 
LUMEN


<< “Negli Stati Uniti costa 12 mila dollari avere un bambino, in Finlandia 60”, ha twittato qualche giorno fa Bernie Sanders, la vecchia nuova speranza della sinistra americana, nel perorare la causa del socialismo negli Stati Uniti. Quando una donna in Finlandia aspetta un figlio la Kela, l’ente pubblico di previdenza sociale, le invia a casa una grande scatola con vestitini, calze, lenzuola, il set per l’igiene del bambino, un materasso e un libro. Si chiama äitiyspakkaus (“corredo da neonato” in finlandese).

La Finlandia è il paese più felice secondo l’Onu, il paese con la minor corruzione, il paese più stabile, il paese più sicuro, il paese meglio governato, il secondo paese più progressista, il terzo paese più socialmente giusto, il paese col sistema giudiziario più indipendente, il paese con le banche più solide, il paese i cui cittadini godono dei più alti livelli di libertà personale, il terzo paese per parità di genere, il paese i cui figli si sentono più sicuri, il secondo paese dove i ragazzi leggono di più , il paese più alfabetizzato, il paese col più basso tasso di mortalità materna. Ha ragione Sanders: come non ammirare e invidiare un paese dove si nasce gratis e che Us News ha incoronato “il miglior paese al mondo dove allevare dei figli”? (…)

Prototipo della società moderna, illuminata, senza corrosive identità culturali, il modello finlandese è considerato cosi perfetto da essere irraggiungibile per gli altri. Il problema è che in Finlandia non si nasce più. I bambini sono diventati merce rarissima. E la denatalità ha messo in crisi quel paradiso di sviluppo ed equal opportunities. (…) Il segreto, ha detto il romanziere Sirpa Kähkönen, è nella parola talkoo, che significa “lavorare insieme, collettivamente, per un bene specifico, in maniera uguale”. Se c’è un modello di società creata dagli intellettuali quella è la Finlandia. (…) Dall’indipendenza, quasi il 30 per cento dei capi di stato e degli uomini di governo finlandesi, tra cui la metà dei primi ministri, sono stati professori universitari.

Ma la patria del progresso sembra non avere futuro, a causa di una drammatica crisi demografica. (…) La Finlandia ha una delle popolazioni che invecchia più rapidamente al mondo. Tra i paesi ricchi e industrializzati, solo il Giappone e la Corea del Sud hanno avuto negli ultimi anni un aumento maggiore di vecchi rispetto alla Finlandia. (…) Le prime avvisaglie finlandesi si ebbero due anni fa, quando secondo i dati dell’Ufficio statistico federale il piccolo paese nordico vide il suo tasso di mortalità eclissare il tasso di natalità per la prima volta dal 1940. Quell’anno, 52.645 bambini vennero alla luce e 53.629 persone passarono a miglior vita. Fu uno choc, in un paese sostanzialmente al riparo dai grandi flussi migratori che, ad esempio in Italia, da vent’anni mascherano il collasso demografico in corso.

Mentre le persone con più di 85 anni rappresentavano solo l’1,5 per cento della popolazione finlandese nel 2000, oggi sono il 2,7 per cento e nel 2070 si prevede che saranno il 9 per cento. La Finlandia ha discusso su cosa fare riguardo ai suoi problemi demografici da vent’anni, spingendo per le riforme del sistema sanitario, dell’assistenza sociale e delle pensioni. “La Finlandia è un paese razionale, è qualcosa che abbiamo preso molto seriamente, come non avviene nella maggior parte dei paesi”, ha detto al Financial Times Ilkka Kaukoranta, capo economista della confederazione sindacale finlandese.

Ma il tasso di natalità in Finlandia continua a scendere e ha raggiunto il livello più basso in 148 anni. L’economista di Aktia Bank, Heidi Schauman, ha descritto le statistiche come “spaventose”, affermando che la tendenza è una condanna a morte per un paese con un welfare state generoso. La Finlandia ha avvertito all’inizio di quest’anno che il numero delle nascite potrebbe non superare la soglia dei 50 mila per la prima volta da quando il paese ha sperimentato le famose carestie tra il 1866 e il 1868. Fu l’ultima grande carestia per cause naturali che abbia colpito l’Europa. Il quindici per cento dell’intera popolazione finlandese morì e nelle aree più duramente colpite si arrivò a punte del venti per cento.

Ma a quel tempo la Finlandia aveva due milioni di abitanti, contro i cinque milioni e mezzo di oggi. Il governo finlandese – coalizione a tre partiti – è crollato lo scorso mese per la sua incapacità di approvare riforme del settore sanitario e delle amministrazioni locali prima delle elezioni del 14 aprile. Per l’Europa, la Finlandia è un avvertimento sui problemi politici intrattabili che ci attendono tutti. La popolazione finlandese sta invecchiando più velocemente di qualsiasi altro paese europeo, anche se Germania e Italia avranno picchi più alti di persone anziane (…).

Se non in Finlandia, paradiso del welfare, dell’assistenza alla maternità, della parità di genere assoluta, i bambini dove dovrebbero nascere? Il caso finlandese inoltre sconfessa valanghe di saggi e articolesse su come, per risollevare una natalità in caduta libera, serve più welfare. Helsinki si vantava da anni di avere le più generose offerte europee in termini di asili nido e assegni di congedo parentale. La lezione dalla Finlandia potrebbe essere che il tentativo di rendere sostenibili costi sanitari e di assistenza agli anziani comporta scelte politiche che pochi governi sono disposti a fare, sollevando interrogativi sulla crescita economica a lungo termine e sulla salute delle finanze pubbliche per governi sempre più a corto respiro in Europa.

Mentre in Italia il reddito di cittadinanza (…) doveva ancora passare al vaglio del Parlamento, la Finlandia lo archiviava, dopo essere stata la prima ad adottarlo due anni fa. Scarsi i risultati di incentivo economico, troppo forte il peso su un già massiccio welfare state. Neppure rompere l’omertà attorno alla decimazione demografica all’orizzonte – che regna ad esempio in Italia – ha aiutato in Finlandia. “In termini europei ci siamo preparati presto”, afferma Marja Vaarama, professoressa di Servizi sociali presso l’Università della Finlandia orientale.

I finlandesi, con il loro rigorismo e razionalismo protestanti, hanno guardato in faccia la gorgone demografica. Come un funzionario dell’Eurozona ha osservato conversando con il Financial Times, “se voglio deprimermi penso a quello di cui non stiamo parlando affatto: il ticchettio della bomba a orologeria demografica”.

Gli over 65enni in Finlandia hanno superato gli under 14 e nel 2070 si prevede che saranno circa un terzo della popolazione. La Finlandia è la società più omogenea d’Europa. Per questo la denatalità minaccia il futuro. Proprio come in un altro paese omogeneo, il Giappone. (…) Secondo l’Istituto nazionale per la popolazione e la sicurezza sociale del Giappone, entro il 2040, la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un calo drammatico da un terzo alla metà della loro popolazione. (…) La popolazione complessiva del Giappone di 126 milioni è prevista che scenda ad 80 milioni nei prossimi tre decenni. Quando la popolazione cade a 80 milioni, circa 35 milioni di persone avranno più di 65 anni. >>

GIULIO MEOTTI


POSCRITTO
Povera demografia, quante imprecisioni, quanti errori di prospettiva si commettono in tuo nome !
Intendiamoci: l’articolo è interessante, chiaro e documentato, e non si può certo dire che l’autore abbia torto.
Ma le sue argomentazioni, purtroppo, sono fortemente parziali, e raccontano solo un aspetto della questione.
In particolare, l’autore dimentica che il problema della popolazione ha subito negli ultimi decenni un significativo salto di qualità, passando da una logica ‘locale’, cioè interna ad ogni singola nazione, ad una logica ‘globale’, che – tramite i flussi migratori di massa - coinvolge ormai tutto il mondo.
Di questo non c’è traccia nell’articolo ed è un vero peccato.
Certo, se ci si concentra ad esaminare il problema demografico secondo una logica nazionale, non c’è dubbio che lo status migliore è quello di un modesto, ma costante, aumento della popolazione, perché l’economia e la società funzionano meglio con una tendenza simile.
Questo aumento graduale, infatti, rappresenta un ottimo equilibrio contro gli eccessi opposti, ovvero da un lato la tragedia dello ‘youth bulge’, che destabilizza la società con una percentuale eccessiva di giovani irrequieti, e dall’altro la grigia involuzione di un invecchiamento eccessivo, non compensato dalle nuove nascite.
Ma anche così la situazione non sarebbe comunque stabile, perché, dopo un certo periodo di crescita, modesta ma costante, il territorio diventerebbe ugualmente sovraffollato, con tutte le conseguenze del caso.
Senonché adesso, come abbiamo detto, il problema è diventato globale e non può più essere affrontato a livello di singole nazioni, ma solo dal pianeta intero.
Ed allora le prospettive sono ancora più fosche, perché la Terra avrebbe bisogno di una robusta decrescita della popolazione complessiva, mentre noi stiamo seguendo la strada sbagliata, secondo la logica (implicita) dell’articolo di cui sopra.
Una logica che, invece, dovrebbe essere rovesciata e dimostrare che l’attuale tendenza demografica della Finlandia e del Giappone, lungi dal sollevare le solite lamentazioni, andrebbe semmai portata come esempio.
Ma, in tal caso, troppe cose andrebbero ripensate, ed è evidente che non siamo pronti a pagare il prezzo immediato della decrescita in cambio di un futuro più sostenibile.
LUMEN