venerdì 27 novembre 2020

Amare tutti ? No, grazie !

Uno dei saggi socio-politici più importanti di Sigmund Feud è sicuramente “Il disagio della civiltà”, in cui il padre della psicanalisi mette in luce la tensione fondamentale tra la civiltà e l'individuo.

Il contrasto principale, secondo Freud, nasce dalla ricerca, da parte dell'individuo, della libertà istintiva, mentre la civiltà tende a richiedere l'esatto contrario, ovvero una limitazione della libertà istintuale degli individui che la compongono.

E' evidente infatti che molti degli istinti primitivi (e per nulla sopiti) degli esseri umani - quali: l'aggressività, il desiderio sessuale ecc. - possono diventare pesantemente dannosi per gli equilibri di una comunità umana. Perciò la società crea leggi che vietano severamente i comportamenti più antisociali e prevede delle punizioni anche molto gravi per chi viola tali norme.

Questo processo, sostiene Freud, è una caratteristica intrinseca e necessaria della civiltà, che inevitabilmente però genera sentimenti di insoddisfazione perpetua nei suoi cittadini, in quanto la repressione degli istinti provoca inevitabilmene della frustrazione.

Da questo saggio è tratto il beve post di oggi, nel quale Freud affronta ed analizza il ben noto (e teoricamente rivoluzionario) comandamento cristiano che ci invita ad “amare” il nostro prossimo senza riserve. Le sue conclusioni sono chiarissime e non lasciano spazio ad alcuna ambiguità.

LUMEN


<< Una delle cosiddette pretenzioni ideali della società civilizzata [è] quella che dice: “amerai il prossimo tuo come te stesso”.

E’ una pretesa nota in tutto il mondo, certamente più antica del cristianesimo, che la ostenta come la sua più grandiosa dichiarazione, ma certamente non antichissima; sono esistite perfino epoche storiche in cui era ancora estranea al genere umano.

Proponiamoci di adottare verso di essa un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di sorpresa e disappunto. Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può derivare? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo capaci?

Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho il diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (trascuro i vantaggi che egli mi può arrecare e anche il suo eventuale significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi due tipi non hanno nulla a che vedere col precetto di amare il prossimo).

Costui merita il mio amore se mi assomiglia in certi aspetti importanti, talché in lui io possa amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, poiché il dolore del mio amico, se gli accadesse qualcosa, sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere.

Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, amarlo mi sarà difficile. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei cari un segno di predilezione; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere un estraneo sullo stesso piano.

Ma se debbo amarlo di quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un abitante di questa terra, al pari di un insetto, di un verme, di una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tutto quello che secondo il giudizio della ragione sono autorizzato a serbare per me stesso.

A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale.

Se osservo le cose più da vicino, le difficoltà aumentano. Non solo questo estraneo generalmente non è degno d’amore, ma onestamente devo confessare che avrebbe piuttosto diritto alla mia ostilità e persino al mio odio.

Sembra non avere il minimo amore per me, non mi mostra la minima considerazione. Se gli fa comodo, non esita a danneggiarmi, senza nemmeno domandarsi se il vantaggio che ricava sia proporzionato alla gravità del danno che mi procura.

Anzi, non c'è nemmeno bisogno che ne tragga un vantaggio; pur di soddisfare in tal modo una sua voglia qualunque, non ci pensa due volte a schernirmi, offendermi, calunniarmi, ad ostentare il potere che ha su di me, e quanto più lui si sente sicuro, quanto più io sono privo di difesa, tanto più sicuramente posso aspettarmi da lui un tale comportamento contro di me.

Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo mostrasse rispetto e indulgenza, io a buon conto, a parte qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nella stessa maniera. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te”, non avrei niente in contrario.

C’è un secondo comandamento che mi sembra ancora più incomprensibile e che solleva in me un’opposizione ancora più violenta. E’: “ama i tuoi nemici”. Riflettendoci, ho torto a considerarlo una pretesa ancora più assurda. In fondo è la medesima cosa. (...)

Mi par di sentire ora una voce che mi ammonisce gravemente: proprio perché il prossimo non è amabile ed è anzi tuo nemico, lo devi amare come te stesso. Ma allora io capisco che questo è un caso simile a quello del credo quia absurdum.

Ora, è molto probabile che il prossimo, se è invitato ad amarmi come se stesso, risponderà esattamente come me e mi respingerà con le stesse ragioni. Spero non con lo stesso diritto oggettivo, ma lo stesso penserà anche lui. >>

SIGMUND FREUD

venerdì 20 novembre 2020

Sesso e volentieri

Secondo i biologi gli elementi fondamentali che caratterizzano gli Esseri Viventi sono 6, e precisamente:
Omeostasi: la regolazione dell'ambiente interno per mantenerlo costante - Metabolismo: la conversione di materiali chimici in energia per l'organismo - Crescita: l'aumento delle dimensioni utile per migliorare la sopravvivenza - Interazione: la risposta appropriata agli stimoli dell'ambiente - Riproduzone: la produzione di nuovi esseri simili a sé stesso - Adattamento: la capacità di evolversi lungo le generazioni.
La Riproduzione, a sua volta – come noto - può essere 'asessuata', quando un organismo genera copie identiche di se stesso, oppure 'sessuata', quando la generazione di un nuovo individuo deriva dalla fusione di due nuclei cellulari diversi, provenienti, di norma, da due individui diversi.
Alla riproduzione sessuata ed ai suoi vantaggi evolutivi è dedicato il post di oggi, scritto da Andrea Sacchi per 'Scienza in Rete'.
LUMEN


<< Oltre alla ben più famosa selezione naturale, nei suoi scritti Charles Darwin descrive anche un altro fenomeno selettivo quasi opposto, ossia la selezione sessuale.

Questo contrasto apparente deriva dal fatto che la riproduzione sessuale e i caratteri sessuali secondari (non legati direttamente agli organi genitali), sono spesso costosi a livello biologico. Basti pensare alla coda del pavone o ai canti ininterrotti delle cicale, il cui unico scopo è soltanto attirare una femmina per potersi accoppiare. Eppure, nonostante ciò, la riproduzione sessuale è un meccanismo saldamente fissato nel corso dell’evoluzione.

Il sesso (e di conseguenza la riproduzione sessuale) si è evoluto tra 2,5 e 3,5 miliardi di anni fa, e da allora il meccanismo è rimasto ampiamente conservato. Questo comporta però evidenti svantaggi: innanzitutto la necessità di un partner con il quale accoppiarsi, oltre ad una complessità anatomica e strutturale maggiore (ossia organi appositi).

Riprodursi senza sesso? Si può fare!

Gli organismi più semplici, come per esempio i batteri, non hanno sesso e si riproducono asessualmente, generando copie identiche di se stessi. Esistono anche organismi pluricellulari (formati cioè da più cellule) che si riproducono senza sesso: le spugne di mare (comprendenti l’intero phylum Porifera), come molti tra gli organismi marini più semplici, ne sono un esempio.

La riproduzione di questi esseri avviene per partenogenesi: ogni spugna genera cioè una spugna figlia identica alla spugna madre. Questi organismi sono di un unico sesso, e generalmente indicati come di sesso femminile (avendo la capacità di dare la vita a un organismo figlio, seppur identico alla madre).

Non esistono maschi e nessuna spugna necessita di un maschio per riprodursi. Se fossero in grado, non genererebbero neppure figli di sesso maschile perché, energeticamente parlando, sarebbe uno spreco.

Riprodursi con il sesso? Forse è meglio…

A eccezione di questi organismi più semplici, il resto del regno animale è però caratterizzato da una riproduzione sessuata, ossia con due differenti generi (maschile e femminile). I due individui forniscono ciascuno, attraverso i gameti (cellula uovo e spermatozoi), la metà del materiale genetico necessario per la creazione di un nuovo individuo.

Nel caso di Homo sapiens, lo spermatozoo contiene 23 cromosomi e gli altri 23 l’uovo. Con l’unione di queste due cellule si viene così a creare una cellula diploide, ossia con tutti e 46 i cromosomi necessari alla vita, che in seguito a numerose trasformazioni darà poi origine a un embrione.

Il processo di ricombinazione del materiale genetico ha però anch’esso un costo energetico, che si somma ai costi energetici dell’accoppiamento, del corteggiamento, della ricerca del partner e così via. Potremmo definire tutta questa spesa in termini biologici un “bio-costo”, necessario però alla riproduzione.

Il sesso è quindi costoso ma diffusissimo nel regno animale e deve allora conferire qualche vantaggioselettivo alle specie che lo praticano.

Tutti i biologi concordano sul fatto che il punto chiave della riproduzione sessuata è che questa sia in grado di introdurre variabilità genetica, ossia (grazie al ri-arrangiamento del materiale genetico dei genitori, contenuto nei cromosomi) si generino individui con un nuovo codice genetico, potenzialmente in grado di adattarsi meglio alle modifiche dell’ambiente esterno.

Il sesso risulta così vantaggioso a breve termine per il singolo individuo, perché tra la prole che è in grado di generare (con i suoi stessi geni) è altamente probabile trovarne qualcuno adatto a sopravvivere e a riprodursi a sua volta. Resta però in dubbio il vantaggio effettivo nelle specie che, come l’uomo, hanno elevatissimi costi energetici per la riproduzione, e bassissima fecondità.

Un’ulteriore ipotesi che viene avanzata, riguarda la riparazione dei geni stessi: il danno presente su un cromosoma può essere riparato scambiando la parte danneggiata con il cromosoma omologo (ossia quello corrispondente ma derivato dal gamete del partner, cellula uovo o spermatozoo).

La variazione genetica, secondo questa ipotesi, sarebbe quindi il prodotto dei processi sessuali e non il vantaggio chiave in termini evolutivi, in quanto la riproduzione sessuale stessa si sarebbe evoluta come semplice conseguenza della ricombinazione (effettuata come sistema riparatorio per i geni).

Tutte queste ipotesi hanno però lo svantaggio di poter essere controllate solo in un lungo lasso di tempo: il loro effetto può essere osservato solo in moltissime generazioni successive e l’unico vantaggio a breve termine sembrerebbe essere la lotta contro gli altri organismi competitori (in particolare i parassiti).

In realtà non è ancora stata avanzata un’ipotesi totalmente soddisfacente a riguardo, anche se le caratteristiche principali, qui succintamente riassunte, sono già state ampiamente delineate. Ciò di cui siamo certi è che il sesso porta questi e molti altri vantaggi, motivo per il quale negli ultimi miliardi di anni di evoluzione la tendenza sembra non essersi mai interrotta.

In organismi complessi come Homo sapiens, dove le sovrastrutture culturali e le organizzazioni sociali hanno un ruolo estremamente rilevante nella vita di tutti i giorni, il sesso ha ovviamente assunto valori ben più profondi e radicati. Comprendere però i meccanismi che stanno alla base di tutto ciò, non toglie fascino al sesso, ma aggiunge semmai ancora più suggestione a un fenomeno così ricco e complesso. >>

ANDREA SACCHI

venerdì 13 novembre 2020

I giganti della fede – la Monaca di Monza

Molte sono le strade che portano ai voti religiosi, cioè alla scelta di dedicare la propria vita alla Chiesa, e nessuna può dirsi più sicura di altre, dal momento che il “principale” non esiste e quindi non può inviare la sua chiamata a nessuno.

Vi è una strada, però, che può senza discussioni considerarsi la peggiore, ed è quella di chi è costretto alla vita religiosa dalle pressioni della famiglia, contro la propria volontà.

Il simbolo di questi poveretti può ben essere individuato nella figura della Monaca di Monza, il personaggio immortale creato da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Ed è proprio alla sua triste storia che è dedicato il post di oggi.

LUMEN


<< Era essa l’ultima figliuola del principe ***, un gran gentiluomo milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della città. Ma il concetto indefinito ch’egli aveva del suo titolo gli faceva parere le sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne il decoro; e tutte le sue cure erano rivolte a conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui.

Quanti figliuoli egli s’avesse non appare chiaramente dalla storia; si rileva soltanto ch’egli aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè dei figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nello stesso modo.

La nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi s’ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza.

Quando ella comparve, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa di alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si posero fra le mani; poi immagini vestite da monaca, accompagnando il dono coll’ammonizione di tenerne ben conto, come di cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: “bello eh?”

Quando il principe o la principessa o il principino, che solo dei maschi veniva allevato in casa, volevano lodare l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovassero modo d’esprimer bene la loro idea, se non colle parole: “che madre badessa!” Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Ella era un’idea sottintesa e toccata incidentemente in ogni discorso, che risguardasse i suoi destini futuri.

Se qualche volta la Gertrudina si lasciava andare a qualche atto un po’ tracotante e imperioso, al che la sua indole la portava assai facilmente, “tu sei una ragazzina”, le si diceva: “questi modi non ti si confanno: quando sarai la madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.”

Qualche altra volta il principe, riprendendola di certe maniere troppo libere e famigliari, alle quali pure ella trascorreva assai volentieri, “ehi! ehi!” le diceva: “non son vezzi da una tua pari: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti si conviene, impara fin d’ora a star più in contegno: ricordati che tu devi essere in ogni cosa la prima del monastero: perchè il sangue si porta perchè il sangue si porta tutto dove si va.”

Tutte le parole di questo genere inducevano nel cervello della fanciullina l’idea implicita ch’ella aveva ad esser monaca: ma quelle che venivano dalla bocca del padre, facevano più effetto di tutte le altre insieme. Le maniere del principe erano abitualmente quelle d’un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspirava una immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale.

A sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo di leggieri asserire che egli fosse il feudatario di quel paese.

Comunque sia, egli vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che ivi meglio che altrove la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora.

Nè s’ingannava: la badessa d’allora, e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come suol dirsi, la mestola in mano, trovandosi avvolte in certe gare con un altro monastero, e con qualche famiglia del paese, furono molto liete d’acquistare un tanto appoggio; ricevettero con grande riconoscenza l’onore che veniva loro compartito, e corrisposero pienamente alle intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni del resto assai consonanti al loro interesse.

Gertrude appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto alla mensa, nel dormitorio; la sua condotta proposta alle altre per esemplare; dolci e carezze senza fine, e condito con quella famigliarità un po’ riverente, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che veggiono trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità.

Non che tutte le monache fossero congiurate a trarre la poverina nel laccio: molte ve ne aveva di semplici ed aliene da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sagrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non si accorgevano bene di tutti quei maneggi, parte non discernevano quanto vi fosse di reo, parte si astenevano dal farvi sopra esame, parte tacevano per non fare scandali inutili.

Qualcuna anche, ricordandosi d’essere stata con simili arti condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compatimento della povera innocentina, e lo sfogava col farle carezze tenere e malinconiche sotto le quali ella era ben lunge dal sospettare che ci fosse mistero: e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero.

Ma tra le sue compagne di educazione ve n’erano alcune che sapevano d’essere destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto.

Alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevano elle le immagini varie e luccicanti di sposo, di conviti, di veglie, di ville, di tornei, di corteggi, di abiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, collocato davanti ad un’arnia.

I parenti e le educatrici avevano coltivata e cresciuta in lei la vanità naturale, per farle parer buono il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più affini ad essa, si gettò ben tosto in quelle con un ardore ben più vivo e più spontaneo.

Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva ella che, al far dei conti, nessuno le poteva porre il velo in capo senza il suo assenso, che anche ella poteva torre uno sposo, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che lo avesse voluto; che lo vorrebbe, che lo voleva: e lo voleva in fatti.

L’ idea della necessità del suo consenso, idea che fino allora era stata come inavvertita e rannicchiata in un angolo della sua mente, vi si svolse allora e si manifestò con tutta la sua importanza. Ella la chiamava ad ogni tratto in soccorso, per godersi più tranquillamente le immagini d’un avvenire gradito.

Dietro questa idea però ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e a questa idea l’animo della figliuola era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole.

Si paragonava allora con le compagne, che erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che da principio aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava; talvolta l’odio si esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta la conformità delle inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere una apparente e transitoria intrinsichezza.

Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale, e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire alle altre quella sua superiorità; talvolta non potendo più tollerare la solitudine dei suoi timori e dei suoi desiderii, andava raumiliata in cerca di quelle, quasi ad implorare benevolenza, consigli, coraggio.

Tra queste deplorabili guerricciuole con sè e con altrui, aveva ella varcata la puerizia, e s’inoltrava in quella età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte le idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge ad un corso impreveduto.

Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e di affettuoso che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle sue fantasie.

Si era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che ella poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; quivi dava comandi, e riceveva omaggi d’ogni genere.

Di tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l’aveva ricevuta, non proscriveva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre.

Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la renitenza alle insinuazioni dei suoi maggiori nella scelta dello stato, fossero una colpa, e prometteva in cuor suo di espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.

Era legge che una giovane non potesse venire accettata monaca se prima non era stata esaminata da un ecclesiastico chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro a ciò deputato, affinchè constasse ch’ella vi si conduceva di sua libera elezione: e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che ella avesse con una supplica in iscritto esposto a quel vicario il suo desiderio.

Quelle monache che avevano pigliato il tristo incarico di far che Gertrude si obbligasse per sempre colla minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero uno dei momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e soscrivere una tale supplica. E a fine di indurla più facilmente a ciò, non mancarono di dirle e di ripeterle ciò che era vero, che quella finalmente era una mera formalità, la quale non poteva avere efficacia se non da altri atti posteriori che dipenderebbero dalla sua volontà.

Con tutto ciò la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla scritta. Si pentiva poi di quei pentimenti, passando così i giorni e i mesi in una incessante vicenda di voleri e di disvoleri.

Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel suo fatto, ora per timore di esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di manifestare un marrone. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo e di accattar consiglio e coraggio. V’era un’altra legge, che a quell’esame della vocazione una giovane non fosse ricevuta se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione.

L’anno dall’invio della supplica era già quasi trascorso, e Gertrude era stata avvertita che fra poco ella verrebbe tolta dal monastero e condotta nella casa paterna per istarvi quel mese, e fare tutti i passi necessari al compimento dell’opera ch’ella aveva di fatto incominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma tali non erano più i conti della giovane: invece di fare gli altri passi, ella pensava al modo di tirare indietro il primo.

In tali strette si risolvè d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca e pronta sempre a dar consigli vigorosi. Questa suggerì a Gertrude d’informare per lettera il padre, come ella aveva mutato pensiero; giacchè non le bastava l’animo di cantargli a suo tempo sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo son rari assai, la consigliera fece pagar questo a Gertrude con tante beffe sulla sua dappocaggine.

La lettera fu concertata fra tre o quattro confidenti, scritta di soppiatto, e fatta ricapitare per via di artifizii molto studiati. Gertrude stava con grande ansietà aspettando una risposta che non venne mai.

Se non che alcuni giorni dopo, la badessa, tiratala in disparte, con un contegno di reticenza, di disgusto e di compassione, le toccò un motto oscuro d’una gran collera del principe, e d’una scappata ch’ella doveva aver fatta, lasciandole però intendere che portandosi bene ella poteva sperare che tutto si dimenticherebbe. La giovinetta intese e non osò chiedere più in là. >>

ALESSANDRO MANZONI

venerdì 6 novembre 2020

Economia irrazionale

La teoria economica classica presuppone che i suoi protagonisti appartengano alla categoria del c.d. “Homo oeconomicus”, cioè un uomo le cui principali caratteristiche sono la razionalità (intesa soprattutto come precisione nel calcolo) e la cura esclusiva dei propri interessi individuali, soprattutto in campo economico.

L’homo oeconomicus cerca sempre di ottenere il massimo benessere (vantaggio) per sé stesso, a partire dalle informazioni a sua disposizione, siano esse naturali o istituzionali, e dalla sua personale capacità di raggiungere certi obiettivi.

L’homo oeconomicus, quindi, è visto per definizione come "razionale" nel senso che persegue un certo numero di obiettivi (materiali) cercando di realizzarli nella maniera più ampia possibile e con i costi minori.

Questo è quello che ci racconta la teoria. La realtà dell'economia, però, ci mostra un “homo” ben diverso, molto più impulsivo, istintivo ed irrazionale, tanto da far nascere una nuova disciplina chiamata per l'appunto 'Economia Comportamentale'.

A questi studi è dedicato il post di oggi, scritto da Dario Ronzoni per il sito Linkiesta.

LUMEN


<< Un esempio per cominciare: se, andando a comprare un’agenda che costa 12 euro, il cartolaio confessasse che nel negozio accanto lo stesso modello è venduto a 3 euro, in pochi resisterebbero alla tentazione di girare i tacchi e cambiare negozio (non senza aver ringraziato il generoso cartolaio). Lo stesso, però, è difficile che avvenga se, al momento dell’acquisto di un iPhone da 923 euro, la cassiera vi segnalasse che, nel solito negozio vicino, lo stesso modello costa 914 euro.

Che differenza fa, ci si chiede. Eppure è la stessa cifra, gli stessi nove euro. Nel primo caso si decide di cambiare negozio e nel secondo no, e la ragione è molto semplice: è il principio di relatività, che non ha nulla a che fare con Einstein ma molto con la percezione del denaro e del suo valore. È relativa, appunto, e non assoluta.

Per questo la semplice cifra di nove euro non è percepita allo stesso modo in contesti diversi, ed è sempre per questo motivo che, mentre si compra un’automobile da 30mila euro, l’aggiunta di un accessorio che costa “solo mille euro” appare una sciocchezza. Eppure, in altri contesti, mille euro “pesano” di più.

È solo uno dei casi raccolti da Luciano Canova, docente (tra le varie cose) di Economia Comportamentale (...) e raccontati nel suo libro “Scelgo dunque sono”, edito da Egea. Si tratta di un manuale divulgativo, o meglio “una guida galattica per gli irrazionali in economia”. Perché nonostante le convinzioni degli economisti classici, l’homo oeconomicus non è oeconomicus per la semplice ragione che dovrebbe essere razionale ma, purtroppo, non lo è.

Il libro dimostra che in ogni scelta economica l’uomo è guidato (se non proprio dominato) da una serie di convinzioni, automatismi, vere e proprie fallacie che gli impediscono di fare la scelta più corretta (almeno dal punto di vista economico).

Ad esempio, a nessuno piace pagare. È un fenomeno noto e studiato, che si chiama pain of paying: l’atto stesso di sborsare del denaro è vissuto con difficoltà, provoca dolore. Pagare è quasi “una tassa morale sui consumi”. Per questo conta molto il tempo che viene richiesto e le sue modalità: il dolore si ridurrà quando il tempo impiegato è poco e il contatto con il denaro meno forte.

Si capisce allora che usare le carte di credito, che quasi annullano il pain of paying, condiziona gli acquisti. Lo stesso effetto vale per le fiches nei casinò (chi giocherebbe con la stessa spregiudicatezza se fossero soldi veri?) e, soprattutto, per i prodotti finanziari, che rendono immateriale il denaro, elevandolo quasi a concetto astratto (con tutti i rischi che ne conseguono).

Nonostante le convinzioni degli economisti classici, l’homo oeconomicus non è oeconomicus per la semplice ragione che dovrebbe essere razionale ma, purtroppo, non lo è. La scelta razionale in economia è condizionata dall’incapacità di mantenere, come si è visto sopra, una percezione assoluta del denaro. O dal fatto che si è influenzati dal dolore della perdita. O dal fatto che non si è in grado di mantenere una visione temporale di lungo periodo.

Altro esempio: preferite mezzo pacchetto di caramelle oggi o uno intero tra una settimana? In molti sceglieranno la prima opzione. Ma cosa accade se si offre mezzo pacchetto tra un anno e un pacchetto intero tra un anno e una settimana? Tutti sceglieranno la seconda. Eppure è lo stesso periodo di differenza.

Oppure ancora, dal fatto che un oggetto che ci appartiene tende a essere sopravvalutato (per non parlare di un oggetto costruito da noi – è l’effetto Ikea). O ancora, dalla motivazione nel compiere un progetto e dalla fatica che si mostra nel farlo (si tende a pagare con più soddisfazione, per lo stesso lavoro, coloro che mostrano di averci faticato di più).

L’irrazionalità, insomma, appartiene al dominio del quotidiano – anche se non ce ne si accorge. Non fare errori, cioè agire in modo razionale, diventa sempre più difficile (soprattutto in un mondo sempre più complicato) con il rischio di danneggiare le scelte economiche, sia personali cheaziendali.

Alcuni, come Google, tentano di resistere: per contrastare la tendenza dei “creativi” di Google Labs ad innamorarsi dei propri progetti (che può essere virtuosa se giusta, ma dannosa se significa insistere nel progetto/idea sbagliati), ha scelto di pagarli per ogni idea che mettono da parte. È un modo per compensare la difficoltà di abbandonare un progetto. Altri, invece, hanno adottato una politica di nudge (cioè di piccoli incoraggiamenti) per spingere le persone a comportarsi in un modo anziché in un altro. (...)

In ogni scelta economica l’uomo è guidato (se non proprio dominato) da una serie di convinzioni, automatismi, vere e proprie fallacie che gli impediscono di fare la scelta più corretta. Ma è solo l’inizio. Conoscere il comportamento delle persone e capire i motivi per cui, spesso, si fanno scelte non razionali è importante.

Da un lato, perché permette di evitare errori fatali, specie in campo finanziario – e capita già che gli investimenti operati da un software si rivelino del tutto diversi da quelli compiuti dagli esseri umani, dal momento che non si lasciano influenzare dalle perdite momentanee ma agiscono sul lungo periodo – dall’altro perché permette di pensare politiche nuove e più efficaci.

L’obiettivo, come ricorda di continuo Canova, è la felicità (qualsiasi cosa sia: l’agiatezza economica è solo un criterio). Raggiungerla appare un miraggio. Ma avvicinarsi, ecco, forse quello si può. Facendo, ogni tanto, qualche scelta strana e razionale. >>

DARIO RONZONI