Molte
sono le strade che portano ai voti religiosi, cioè alla scelta di
dedicare la propria vita alla Chiesa, e nessuna può dirsi più
sicura di altre, dal momento che il “principale” non esiste e
quindi non può inviare la sua chiamata a nessuno.
Vi
è una strada, però, che può senza discussioni considerarsi la
peggiore, ed è quella di chi è costretto alla vita religiosa dalle
pressioni della famiglia, contro la propria volontà.
Il
simbolo di questi poveretti può ben essere individuato nella figura
della Monaca di Monza, il personaggio immortale creato da Alessandro
Manzoni nei Promessi Sposi. Ed è proprio alla sua triste storia che
è dedicato il post di oggi.
LUMEN
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Era
essa l’ultima figliuola del principe ***, un gran gentiluomo
milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della città.
Ma il concetto indefinito ch’egli aveva del suo titolo gli faceva
parere le sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne
il decoro; e tutte le sue cure erano rivolte a conservarle, almeno
quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui.
Quanti
figliuoli egli s’avesse non appare chiaramente dalla storia; si
rileva soltanto ch’egli aveva destinati al chiostro tutti i cadetti
dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al
primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè
dei figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nello stesso modo.
La
nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la
sua condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da
decidersi s’ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la
quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza.
Quando
ella comparve, il principe suo padre, volendo darle un nome che
risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato
portato da una santa di alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole
vestite da monaca furono i primi balocchi che le si posero fra le
mani; poi immagini vestite da monaca, accompagnando il dono
coll’ammonizione di tenerne ben conto, come di cosa preziosa, e con
quell’interrogare affermativo: “bello eh?”
Quando
il principe o la principessa o il principino, che solo dei maschi
veniva allevato in casa, volevano lodare l’aspetto prosperoso della
fanciullina, pareva che non trovassero modo d’esprimer bene la loro
idea, se non colle parole: “che madre badessa!” Nessuno però le
disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Ella era un’idea
sottintesa e toccata incidentemente in ogni discorso, che
risguardasse i suoi destini futuri.
Se
qualche volta la Gertrudina si lasciava andare a qualche atto un po’
tracotante e imperioso, al che la sua indole la portava assai
facilmente, “tu sei una ragazzina”, le si diceva: “questi modi
non ti si confanno: quando sarai la madre badessa, allora comanderai
a bacchetta, farai alto e basso.”
Qualche
altra volta il principe, riprendendola di certe maniere troppo libere
e famigliari, alle quali pure ella trascorreva assai volentieri,
“ehi! ehi!” le diceva: “non son vezzi da una tua pari: se vuoi
che un giorno ti si porti il rispetto che ti si conviene, impara fin
d’ora a star più in contegno: ricordati che tu devi essere in ogni
cosa la prima del monastero: perchè il sangue si porta perchè il
sangue si porta tutto dove si va.”
Tutte
le parole di questo genere inducevano nel cervello della fanciullina
l’idea implicita ch’ella aveva ad esser monaca: ma quelle che
venivano dalla bocca del padre, facevano più effetto di tutte le
altre insieme. Le maniere del principe erano abitualmente quelle d’un
padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi
figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspirava una immobilità
di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il
sentimento di una necessità fatale.
A
sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per
istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo
veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon
conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il
primo in Monza: e accozzando questa qualsisia testimonianza con
alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente
qua e là, noi potremmo di leggieri asserire che egli fosse il
feudatario di quel paese.
Comunque
sia, egli vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che ivi
meglio che altrove la sua figlia sarebbe trattata con quelle
distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a
scegliere quel monastero per sua perpetua dimora.
Nè
s’ingannava: la badessa d’allora, e alcune altre monache
faccendiere, che avevano, come suol dirsi, la mestola in mano,
trovandosi avvolte in certe gare con un altro monastero, e con
qualche famiglia del paese, furono molto liete d’acquistare un
tanto appoggio; ricevettero con grande riconoscenza l’onore che
veniva loro compartito, e corrisposero pienamente alle intenzioni che
il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della
figliuola: intenzioni del resto assai consonanti al loro interesse.
Gertrude
appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la
signorina; posto distinto alla mensa, nel dormitorio; la sua condotta
proposta alle altre per esemplare; dolci e carezze senza fine, e
condito con quella famigliarità un po’ riverente, che tanto adesca
i fanciulli, quando la trovano in coloro che veggiono trattare gli
altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità.
Non
che tutte le monache fossero congiurate a trarre la poverina nel
laccio: molte ve ne aveva di semplici ed aliene da ogni intrigo, alle
quali il pensiero di sagrificare una figlia a mire interessate
avrebbe fatto ribrezzo; ma queste tutte attente alle loro occupazioni
particolari, parte non si accorgevano bene di tutti quei maneggi,
parte non discernevano quanto vi fosse di reo, parte si astenevano
dal farvi sopra esame, parte tacevano per non fare scandali inutili.
Qualcuna
anche, ricordandosi d’essere stata con simili arti condotta a
quello di cui s’era pentita poi, sentiva compatimento della povera
innocentina, e lo sfogava col farle carezze tenere e malinconiche
sotto le quali ella era ben lunge dal sospettare che ci fosse
mistero: e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino
alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero.
Ma
tra le sue compagne di educazione ve n’erano alcune che sapevano
d’essere destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee
della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini
futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni conto
esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e
con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto.
Alle
immagini maestose, ma circoscritte e fredde che può somministrare il
primato in un monastero, contrapponevano elle le immagini varie e
luccicanti di sposo, di conviti, di veglie, di ville, di tornei, di
corteggi, di abiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel
cervello di Gertrude quel movimento, quel bollore che produrrebbe un
gran paniere di fiori appena colti, collocato davanti ad un’arnia.
I
parenti e le educatrici avevano coltivata e cresciuta in lei la
vanità naturale, per farle parer buono il chiostro; ma quando questa
passione fu stuzzicata da idee tanto più affini ad essa, si gettò
ben tosto in quelle con un ardore ben più vivo e più spontaneo.
Per
non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere
nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva ella che, al far
dei conti, nessuno le poteva porre il velo in capo senza il suo
assenso, che anche ella poteva torre uno sposo, abitare un palazzo,
godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che lo
avesse voluto; che lo vorrebbe, che lo voleva: e lo voleva in fatti.
L’
idea della necessità del suo consenso, idea che fino allora era
stata come inavvertita e rannicchiata in un angolo della sua mente,
vi si svolse allora e si manifestò con tutta la sua importanza. Ella
la chiamava ad ogni tratto in soccorso, per godersi più
tranquillamente le immagini d’un avvenire gradito.
Dietro
questa idea però ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che
quel consenso si trattava di negarlo al principe, il quale lo teneva
già, o mostrava di tenerlo per dato; e a questa idea l’animo della
figliuola era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue
parole.
Si
paragonava allora con le compagne, che erano ben altrimenti sicure, e
provava per esse dolorosamente l’invidia che da principio aveva
creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava; talvolta l’odio
si esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta
la conformità delle inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e
faceva nascere una apparente e transitoria intrinsichezza.
Talvolta,
volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale, e di presente, si
compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva
sentire alle altre quella sua superiorità; talvolta non potendo più
tollerare la solitudine dei suoi timori e dei suoi desiderii, andava
raumiliata in cerca di quelle, quasi ad implorare benevolenza,
consigli, coraggio.
Tra
queste deplorabili guerricciuole con sè e con altrui, aveva ella
varcata la puerizia, e s’inoltrava in quella età così critica,
nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa,
che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte le
idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge ad un corso
impreveduto.
Ciò
che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei
sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so
che di molle e di affettuoso che da prima v’era diffuso leggermente
e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle
sue fantasie.
Si
era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno
splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi
accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie
della puerizia, di quel poco che ella poteva vedere del mondo
esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si
tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome;
quivi dava comandi, e riceveva omaggi d’ogni genere.
Di
tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle
feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata
insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l’aveva ricevuta, non
proscriveva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un
mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua
essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre.
Negli
intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava
nella fantasia di Gertrude, l’infelice sopraffatta da terrori
confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che
la sua ripugnanza al chiostro, e la renitenza alle insinuazioni dei
suoi maggiori nella scelta dello stato, fossero una colpa, e
prometteva in cuor suo di espiarla, chiudendosi volontariamente nel
chiostro.
Era
legge che una giovane non potesse venire accettata monaca se prima
non era stata esaminata da un ecclesiastico chiamato il vicario delle
monache, o da qualche altro a ciò deputato, affinchè constasse
ch’ella vi si conduceva di sua libera elezione: e questo esame non
poteva aver luogo se non un anno dopo che ella avesse con una
supplica in iscritto esposto a quel vicario il suo desiderio.
Quelle
monache che avevano pigliato il tristo incarico di far che Gertrude
si obbligasse per sempre colla minor possibile cognizione di ciò che
faceva, colsero uno dei momenti che abbiam detto, per farle
trascrivere e soscrivere una tale supplica. E a fine di indurla più
facilmente a ciò, non mancarono di dirle e di ripeterle ciò che era
vero, che quella finalmente era una mera formalità, la quale non
poteva avere efficacia se non da altri atti posteriori che
dipenderebbero dalla sua volontà.
Con
tutto ciò la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che
Gertrude s’era già pentita d’averla scritta. Si pentiva poi di
quei pentimenti, passando così i giorni e i mesi in una incessante
vicenda di voleri e di disvoleri.
Tenne
lungo tempo nascosto alle compagne quel suo fatto, ora per timore di
esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna
di manifestare un marrone. Vinse finalmente il desiderio di sfogar
l’animo e di accattar consiglio e coraggio. V’era un’altra
legge, che a quell’esame della vocazione una giovane non fosse
ricevuta se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero
dove era stata in educazione.
L’anno
dall’invio della supplica era già quasi trascorso, e Gertrude era
stata avvertita che fra poco ella verrebbe tolta dal monastero e
condotta nella casa paterna per istarvi quel mese, e fare tutti i
passi necessari al compimento dell’opera ch’ella aveva di fatto
incominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto
ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma tali non erano più i
conti della giovane: invece di fare gli altri passi, ella pensava al
modo di tirare indietro il primo.
In
tali strette si risolvè d’aprirsi con una delle sue compagne, la
più franca e pronta sempre a dar consigli vigorosi. Questa suggerì
a Gertrude d’informare per lettera il padre, come ella aveva mutato
pensiero; giacchè non le bastava l’animo di cantargli a suo tempo
sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo
mondo son rari assai, la consigliera fece pagar questo a Gertrude con
tante beffe sulla sua dappocaggine.
La
lettera fu concertata fra tre o quattro confidenti, scritta di
soppiatto, e fatta ricapitare per via di artifizii molto studiati.
Gertrude stava con grande ansietà aspettando una risposta che non
venne mai.
Se
non che alcuni giorni dopo, la badessa, tiratala in disparte, con un
contegno di reticenza, di disgusto e di compassione, le toccò un
motto oscuro d’una gran collera del principe, e d’una scappata
ch’ella doveva aver fatta, lasciandole però intendere che
portandosi bene ella poteva sperare che tutto si dimenticherebbe. La
giovinetta intese e non osò chiedere più in là.
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ALESSANDRO
MANZONI