venerdì 28 settembre 2018

Da Profeta a Dio

Torno ad ospitare il grande biblista americano Bart Ehrman perché, in materia di religione, ha sempre cose molto interessanti da raccontare.
Il post di oggi è dedicato ad uno dei suoi ultimi libri - “E Gesù diventò Dio” - in cui traccia il lungo percorso teologico subito dal personaggio di Gesù Cristo, che da semplice profeta, e quindi uomo, ha finito per diventare una delle tre persone della SS Trinità, e quindi un dio.
La recensione, scritta da Michele Martelli, è tratta da Micromega. 
LUMEN


<< Ancora oggi, la pietra angolare delle tre «religioni del libro» restano i testi sacri: se essa cede, viene giù tutto l’edificio. Perciò clero e teologi hanno da sempre difeso a denti stretti la «verità storica» dei loro testi. Ma è tale verità difendibile alla luce delle più recenti e agguerrite ricerche storiografiche? Una risposta chiara e semplice a questa domanda, (…) riguardo al cristianesimo, è offerta da un recente libro dello storico neo-testamentario statunitense Bart D. Ehrman, “E Gesù diventò Dio” (…): una ricerca impostata in modo scientifico e laico, estraneo all’apriorismo apologetico di tante storie sacrali e provvidenzialistiche del cristianesimo.

Subito una premessa. Ehrman non appartiene alla schiera degli studiosi «mitisti», per i quali Gesù non è mai esistito, e la sua figura sarebbe un’invenzione, un «mito», una leggenda. La tesi di Ehrman (…) è che Gesù sia davvero esistito, ma che la sua biografia sia storicamente riducibile a quella di un predicatore ebreo apocalittico della Galileia, che annunziava l’imminente fine del mondo e l’inizio del Regno di Dio sulla terra, di cui egli stesso sarebbe stato il Re. Perciò, processato per crimine di ribellione contro lo Stato romano, fu condannato e crocifisso.

Tale peraltro egli appare nei tre vangeli sinottici (Marco, Matteo, Luca), scritti circa 40 anni dopo la sua morte, dove non afferma mai di essere Dio. A conferma che questa era ancora l’opinione diffusa tra i suoi primi seguaci e le prime comunità cristiane. Ma allora come e quando Gesù diventò Dio? Si è trattato di un lungo e tortuoso processo storico, durato circa tre secoli, e conclusosi col Concilio di Nicea, nel 325 e.v., che Erhrman nella sua ricerca scandisce in tre tappe o fasi, spesso tra loro intersecate.

A)-«L’esaltazione di Cristo in cielo», il suo elevamento al rango divino, accanto a Dio Padre.
Qui va detto che la credenza in «uomini divini», – ossia di dèi che diventano uomini, o di uomini che diventano dèi, o di semidèi nati da un dio e da un mortale,– è diffusissima sia nella mitologia e cultura greco-romana antica (vedi le continue incarnazioni di Zeus e altri dèi, le figure semidivine di Achille, Enea, Ercole, ecc., o la divinizzazione di grandi re e condottieri, come Romolo, Alessandro Magno, – a suo tempo venerato come «Figlio di Zeus», – o degli imperatori romani da Cesare e Augusto Ottaviano in poi venerati come «Figli di Dio» o «Dio» stesso), sia nella stessa Bibbia ebraica e negli apocrifi (vedi le frequenti apparizioni terrene di Dio e dei suoi angeli, la vicenda dei «figli di Dio» che s’accoppiano con donne mortali per generare Giganti semidivini, nonché le figure divine o semidivine di Enoch, Mosè, Davide, Elia, ecc.).

Ecco perché, nel clima culturale giudaico e greco-romano, dove non c’era, come oggi, discontinuità tra mondo umano e mondo divino, «Gesù risorto» poté essere dai suoi seguaci facilmente esaltato e venerato come «Figlio di Dio», o «Figlio dell’Uomo» (forse non tutti sanno che nella Bibbia questa figura designa il Messia, l’inviato divino che assume sembianze umane per annunziare e instaurare il Regno di Dio in terra), o infine come «l’Angelo del Signore» (è la cristologia che, secondo Ehrman, prevale nelle Lettere paoline). Resta fermo che nei Vangeli sinottici Gesù non dice mai di essere Dio, ma solo appunto, genericamente, Messia, cioè inviato di Dio. L’equiparazione Dio/Cristo appare solo nel quarto Vangelo, attribuito a Giovanni, e scritto presumibilmente alla fine del primo secolo, quindi molto dopo la morte di Gesù.

B)-«La fede nella Resurrezione di Gesù».
Se la sua tomba è vuota, – si ipotizza, – Gesù è fisicamente risorto, e se è risorto, non essendo più tra noi (a differenza di Lazzaro, che, pur resuscitato dalla morte, rimase mortale), allora è asceso al cielo, riassumendo la sua originaria natura divina. A parte le contraddizioni e l’inverificabilità delle narrazioni evangeliche, presumibilmente ingigantite e distorte, – osserva l’autore, – col passaparola, per via della tradizione orale, l’ipotesi più verosimile, a suo parere, è che il corpo di Gesù, come era consuetudine dei dominatori romani, sia stato gettato in una fossa comune. Peraltro, decomposto e divenuto irriconoscibile, non avrebbe potuto nemmeno essere trafugato dai suoi discepoli, già scappati nella lontana Galilea per sfuggire all’arresto. Ne consegue che tutti i racconti devoti sull’ascensione di Cristo (= Unto, inviato del Signore, sinonimo greco dell’ebraico «Messia») e le sue riapparizioni ai discepoli appartengono all’ambito del fideismo, del magico e miracoloso che esula dalla ricerca storica e scientifica. Qui l’agnosticismo dell’autore domina sovrano.

C)-«La fede nell’Incarnazione», a completamento della Resurrezione.
Se Gesù è risorto dalla morte, e ora siede accanto a Dio, era dunque Dio fatto uomo, Dio incarnato. Ma Gesù aveva una natura solo umana, o solo divina, o umana e divina insieme? Dio è uno o trino? Come può Dio essere Padre e Figlio di se stesso? Cristo è Dio subordinato e posteriore al Dio Padre o è a lui coeterno e consustanziale, e in che senso? Domande insolubili dalla ragione umana se non irrazionali, e perciò spesso coperte col velo pietoso del «mistero», ma su cui si invischia il dibattito teologico nel secondo e terzo secolo, tra ortodossi ed eretici, in un processo a zig zag, in cui l’ortodosso di oggi diventa l’eretico di domani e viceversa. E che si conclude, seppur provvisoriamente, col Concilio di Nicea, convocato e presieduto, dopo la sua improvvisa conversione, dall’imperatore Costantino. Il quale, individuando nel cristianesimo oramai la sola efficace forza unificante dell’impero già in disgregazione, aveva in precedenza emanato a Milano il famoso Editto pro-cristiani del 313.

Con Costantino, il suo Editto e il Concilio di Nicea, il conflitto durato tre secoli tra cristianesimo e paganesimo si risolve a favore del primo, ma non era solo di natura religiosa, (in fondo, ambedue le religioni prevedevano un mondo divino a forma di piramide, con una miriade di essere divini, semidivini e angelici al servizio di un solo Dio, variamente interpretato, ma comunque posto al vertice della piramide) bensì soprattutto un conflitto politico, essendo il cristianesimo l’unica religione a rifiutare il rango divino e l’obbedienza assoluta all’imperatore romano. Da ciò le persecuzioni. Senza la conversione di Costantino, il suo Editto pro-cristiani, e il Concilio niceno, vicende che segnano l’iniziale elevazione del cristianesimo a unica religione di Stato, i cristiani sarebbero probabilmente rimasti una piccola e ininfluente setta religiosa minoritaria dell’impero.

Con Costantino, lo scontro secolare, come scrive Ehrman, tra «le due uniche figure» del mondo imperiale romano chiamate col nome di «Figlio di Dio», o, in diverso modo, Dio stesso, cioè «Gesù e l’imperatore», si volse a favore del primo: «da divinità rivale di Gesù l’imperatore si trasformò in suo servitore», e la minoranza cristiana, «perseguitata perché si rifiutava di onorare l’imperatore divino» divenne «maggioranza persecutrice, con l’imperatore nel ruolo di servo del vero Dio».

Insomma, a me sembra che, dal punto di vista di una storia scientifica, laica e desacralizzata, più che il «come» (le questioni di fede e le controversie teologiche) a noi interessi il «quando» Gesù, un umile e oscuro predicatore apocalittico giudeo, diventò veramente Dio, o «Figlio di Dio» e «Dio incarnato». E la storia dimostra che, paradossalmente, lo diventò davvero (nella coscienza e nell’opinione pubblica collettiva, si intende) quando lo decise l’imperatore. Per volontà di Costantino. Che per ragioni politiche, per rinsaldare l’unità dell’impero e il suo stesso potere assoluto, si convertì, emanò l’Editto di Milano e volle il Concilio di Nicea e l’unità dei cristiani intorno al Credo niceno, iniziando di fatto a imporre il cristianesimo come religione di Stato. Fu la sua statalizzazione imperiale la vera svolta del cristianesimo, che ne segnò in modo indelebile tutta la storia successiva. >>

MICHELE MARTELLI

sabato 22 settembre 2018

Le due Germanie

Quando, circa 30 anni fa, i tedeschi occidentali corsero in aiuto dei cugini orientali, che, dopo la caduta del muro di Berlino, si erano appena liberati dal soffocante controllo sovietico, erano tutti contenti: gli occidentali perché finalmente avrebbero riabbracciato i loro “fratelli” più sfortunati, e gli orientali perché finalmente sarebbe arrivato il benessere.
Ma le cose non andarono proprio così, come racconta il bellissimo libro di Vladimiro Giacché intitolato (non casualmente) “Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”.
Quella che segue è l’interessante recensione di Luca Cangianti, tratta dal sito Carmilla. 
LUMEN


<< La Repubblica democratica tedesca (RDT), [ovvero] la Germania Est, era un paese del blocco real-socialista. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso la sua economia era decotta e presto sarebbe fallita sotto il peso dei debiti. La Repubblica federale tedesca (RFT), [ovvero] la Germania Ovest, tese generosamente la mano ai connazionali d’oltre muro con il “Trattato d’unione monetaria” che entrò in vigore il 1° luglio del 1990, permettendo ai cittadini tedesco-orientali di avere libero accesso alle merci occidentali. Dopo l’unione politica entrata in vigore il 3 ottobre dello stesso anno, il governo della Germania unificata avviò una politica di investimenti per ricostruire e integrare la disastrata economia dell’est.

È questa in sintesi la narrazione corrente e ufficiale dell’unificazione tedesca che Vladimiro Giacché mette radicalmente in discussione in “Anschluss” basandosi su una vasta documentazione per la maggior parte inaccessibile a chi non conosca il tedesco. Nonostante si tratti di un lavoro di storia economica, il focus del libro è immediatamente rivolto al presente politico. Secondo Giacché, infatti, rileggendo le vicende che portarono alla fine della RDT si può capire molto di quello che sta avvenendo oggi nell’eurozona. Basta mettere al posto della Germania Est i cosiddetti Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) (…).

Il dispositivo sperimentato nei confronti della RDT sta oggi lavorando nei paesi periferici dell’Unione europea mediante la spirale del debito, degli inutili e dannosi tentativi di porvi argine, delle privatizzazioni, delle politiche recessive dell’austerità, della distruzione dello stato sociale e del tessuto produttivo. Grazie al vincolo monetario è stato messo all’opera un meccanismo di esproprio che nella RDT ha svolto le funzioni sia di accumulazione originaria che di creazione di una zona interna di sottosviluppo funzionalizzata alle esigenze di valorizzazione del capitale. Qualcosa di simile avvenne con il Mezzogiorno d’Italia e ora rischia di accadere nuovamente con l’attuale processo di unificazione europea.

Ma veniamo ai fatti. Con l’unione monetaria del 1990 i marchi orientali furono cambiati con un rapporto 1 a 1 con quelli occidentali, mentre il loro rapporto reale era di 4,44 a 1. Ne conseguì un brutale e repentino apprezzamento della valuta usata all’est di quasi il 450%. Ciò fece lievitare surrettiziamente i debiti delle aziende nei confronti dello stato. In verità non si trattava di debiti veri e propri come nella contabilità di un’azienda privata, ma di somme che lo stato socialista riallocava dopo averle ricevute dalle aziende stesse. In quanto proprietario dell’intero patrimonio industriale, nella RDT lo stato incamerava i profitti per poi “prestarne” una parte alle stesse aziende che li avevano generati.

In soli due anni, inoltre, l’export orientale crollò del 56%, senza che fossero più possibili forme di svalutazione competitiva. Le imprese della Rdt persero immediatamente i mercati dell’Europa dell’est verso i quali si dirigevano gran parte delle loro esportazioni, che prima dell’unione monetaria ammontavano al 50% della produzione nazionale. La caduta del PIL non ebbe pari tra gli altri paesi europei del Comecon, con la particolarità che la RDT era l’economia più sviluppata del gruppo.

La disoccupazione, precedentemente assente e vietata per dettato costituzionale, raggiunse nel settembre del 1990 un milione e 800 mila di unità, rimanendo anche nei decenni a seguire tra le più alte dell’intera Unione europea. Il risultato è che ancora oggi il 44% della popolazione tedesco-orientale vive di sussidi, con un PIL pro capite inferiore del 27% rispetto a quella dell’ovest. Intere zone industriali sono state riassorbite dalla natura, molti centri urbani si sono spopolati e il tasso di natalità, prima superiore a quello della Rft, è caduto sotto la soglia della pura riproduzione.

Secondo le argomentazioni contenute in Anschluss, insomma, il disastro economico e sociale dell’est tedesco non fu tanto il punto di partenza del processo di unificazione monetaria, quanto il suo risultato. Alla vigilia di tale passaggio la RDT era sicuramente un’economia affetta da bassa produttività (45-55% di quella della RFT), invecchiamento dei macchinari e insufficienti investimenti infrastrutturali, tutti mali presenti anche nelle altre economie real-socialiste, in particolar modo a partire dagli anni settanta. Nel dopoguerra, inoltre, la RDT aveva dovuto farsi carico della gran parte del peso dei risarcimenti di guerra senza poter beneficiare del piano Marshall. Ciò nonostante era riuscita a svilupparsi industrialmente in molti settori e alla vigilia dell’unificazione non era certo prossima alla bancarotta.

Il valore dei suoi asset industriali era stimato infatti in 600 miliardi di marchi dal presidente della Treuhandanstalt, l’agenzia fiduciaria che fu preposta alla privatizzazione del patrimonio pubblico della RDT. Tale operazione si risolse con un colossale esproprio senza indennizzo ai danni dei cittadini tedesco-orientali e con una distruzione di ricchezza di dimensioni belliche. Gli acquirenti delle imprese della RDT furono per l’87% a tedeschi dell’ovest, per i 7% stranieri e solo per il 6% a cittadini dell’est.

La maggior parte delle aziende furono chiuse, smembrate, trasformate in succursali distributive di imprese dell’ovest o in aziende di subfornitura gerarchicamente subordinate. Il tutto avvenne senza che fossero organizzate aste, ma con trattative private, mentre agli esecutori di tali privatizzazioni fu concessa una garanzia di copertura legale e finanziaria sul loro operato. Gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta chiusasi al riguardo nel 1994 sono stati secretati per l’80%. (…)

Questi fatti ci riportano al titolo del libro. Anschluss significa annessione, ma in storia contemporanea con questo termine tedesco si indica la specifica inclusione violenta dell’Austria all’interno della Germania hitleriana avvenuta nel 1938. Ebbene l’unificazione del 1990 non è avvenuta mediante un esercito d’invasione, ma con il consenso indiretto degli elettori tedesco-orientali che, forse pensando di trasformarsi d’incanto in benestanti bavaresi, diedero la maggioranza ai partiti favorevoli a questa opzione. Tuttavia i nazisti apportarono al diritto austriaco solo alcune modifiche, anche se estremamente drammatiche (si pensi alle leggi razziali). Di contro alla RDT sono state estese, praticamente in toto, le leggi della Germania Ovest. Come in un processo di colonizzazione.

Ai margini di questa narrazione mi pongo un interrogativo: come è stato possibile che i cittadini dell’ex RDT che nel 1992 sentivano di aver subito una sorte di tipo coloniale fossero gli stessi che solo due anni prima votavano per i partiti favorevoli all’annessione? Come è stato possibile che la stragrande maggioranza dei tedeschi dell’est acconsentisse alla propria spoliazione?

Una risposta debole è che se le necessarie riforme economiche fossero state effettuate in tempo utile e fossero state introdotte iniezioni di democrazia, il bambino socialista non sarebbe stato gettato con l’acqua sporca burocratica mediante la grande truffa dell’unificazione. Eppure l’implosione dei paesi dell’est europeo è stata di una dimensione e di una profondità tali da non render più credibile e desiderabile un modo di produzione socialista accerchiato dal mare capitalistico. In condizioni simili, le pressioni esterne sono tali da poter essere sopportate, transitoriamente, qualora si riesca a ingenerare un processo espansivo – come quello cui puntavano i rivoluzionari russi nel 1917, senza che furono in grado di conseguirlo, o come quello che oggi, in una situazione molto diversa, sembrano portare avanti alcuni governi progressisti latinoamericani.

Di contro laddove si è pensato di stabilizzare il socialismo in un’area con tassi di produttività inferiori rispetto a quelli vigenti nei paesi capitalisti avanzati si è aperta la via a forme di degenerazione che hanno portato a regimi autoritari e a nuove stratificazioni sociali basate sul monopolio del potere politico. Ciò si è prodotto perché la resistenza al perdurante capitalismo egemone al livello planetario ha sottoposto le società postrivoluzionarie a pressioni tali che per esser arginate hanno portato a esercizi di forza e di disciplina defatiganti, mutageni e autodistruttivi.

La storia della RDT in fondo testimonia proprio questo. Lo scambio neo-corporativo tra il monopolio politico detenuto dall’élite dei funzionari e la garanzia dei diritti sociali assicurata ai cittadini, una volta finito il periodo di emergenza postbellica, ha contribuito al peggioramento dei tassi di produttività e di innovazione tecnologica, con particolare riferimento alla rivoluzione informatica avviata negli anni settanta. In queste condizioni il pervasivo controllo poliziesco della Stasi nulla ha potuto di fronte allo scintillio delle merci esibite nei grandi magazzini della KaDeWe di Berlino ovest.

In conclusione, l’utilità del libro di Vladimiro Giacché è doppia. Da una parte ci svela con grande chiarezza le modalità dell’esproprio e della “mezzogiornificazione” in corso in Europa attraverso l’esempio storico della RDT. Dall’altra aggiunge elementi oggettivi di riflessione per chi si proponga come obiettivo il superamento del capitalismo, dopo la disfatta del socialismo reale. >>

LUCA CANGIANTI

sabato 15 settembre 2018

Alla ricerca della Felicità

Tra i termini che hanno fatto versare nei secoli i classici ‘fiumi di inchiostro’ per la loro analisi e comprensione, c’è sicuramente “Felicità”, uno status di cui tutti abbiamo fatto esperienza diretta e di cui tutti abbiamo tentato una definizione profonda, in genere senza riuscirci.
L’enciclopedia Treccani la definisce così: “Stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato“, ma si avverte subito una sorta di inadeguatezza di fronte alla descrizione formale di questo fenomeno così speciale.
Tra le tante riflessioni sull’argomento, il cui elenco è quasi sterminato, quella che mi ha colpito di più è stata quella che Massimo Gramellini ha esposto recentemente sul Corriere della Sera (nella sua rubrica quotidiana “Il caffè”) e che, guarda il caso, viene direttamente dal mondo della scienza, anziché da quello della filosofia (che sia una coincidenza ?). Buona lettura. 
LUMEN


<< C’è stato un tempo infelice in cui anch’io collezionavo definizioni sulla felicità. Da Epicuro a Seneca — gli «influencer» del mondo classico — fino a Oscar Wilde, nessun fabbricante di sentenze memorabili veniva risparmiato. Foglietti e foglietti gravidi di citazioni. Ne avevo le tasche talmente piene che a un certo punto ho cominciato a svuotarle. «La felicità è accontentarsi di quello che si ha» lo gettai nella pattumiera durante una giornata di particolare ingratitudine in cui mi sembrava di non avere più nulla.

Invece «la felicità non è il traguardo, ma la strada per raggiungerlo» lo accartocciai sul cruscotto dell’auto durante un ingorgo al casello di Imperia. A furia di alleggerirmi, di foglietti in tasca me ne sono rimasti soltanto due. Li hanno scritti James Hillman, psicanalista junghiano, e Albano Carrisi, cantante pugliese.

Per Hillman la felicità consiste nell’appagare il proprio «demone», cioè il proprio carattere, l’imprinting, il talento unico e irripetibile che viene consegnato a ciascuno di noi al momento della nascita. Purtroppo — lo spiega uno dei miti più intriganti di Platone — un attimo prima di incarnarsi, l’anima beve l’acqua del fiume della Dimenticanza e piomba nel mondo materiale senza ricordarsi che cosa ci è venuta a fare: scrivere poesie, amare i cani, giocare in Borsa o cucinare spaghetti al pomodoro? Se nel corso del tempo riuscirà a scoprirlo e a seguirne il richiamo, si sentirà felice, altrimenti condurrà una vita inutile. Non per niente in greco antico Felicità si dice Eudaimonia: fare stare bene il proprio demone.

La definizione di felicità di Al Bano è racchiusa nella canzone omonima e risulta meno centrata sull’individuo rispetto a quella di Hillman. Per lui e Romina Power la felicità «è tenersi per mano» (è anche «un bicchiere di vino con un panino», però non ci allarghiamo). Tenersi per mano. Vegani e carnivori, sovranisti e globalisti, bianchi e neri, o al verde.

Chiunque abbia mani da tenere, o da cui fare tenere la propria, è considerato una persona felice. Mentre chi ne è sprovvisto brancola nella tristezza. Vi sembra un’affermazione banale e buonista? Lo pensavo anch’io. Fino a quando non mi sono imbattuto nel discorso sulla felicità di Robert Waldinger. Lo trovate su Internet, con i sottotitoli o anche senza, per chi non sa l’italiano.

Il professor Waldinger lavora a Harvard ed è il quarto direttore di una ricerca unica al mondo, non fosse altro perché dura ininterrottamente dal 1938. Ottant’anni fa, il primo predecessore di Waldinger scelse 724 ragazzini di ogni ceto e classe sociale. E cominciò a tenerli d’occhio anno dopo anno, sottoponendoli a interviste, questionari, esami clinici e sedute psicologiche per scoprire che cosa li rendeva più o meno felici. 724 persone — ricche e povere, famose e anonime, cadute nella polvere o salite fino alle stelle — sono state analizzate per tutta la durata della loro vita.

Altre celebri ricerche sulla felicità hanno chiesto agli anziani di ripercorrere il proprio passato, ma la memoria è selettiva e nostalgica, tende a imbellettare i ricordi e a rimuovere i traumi. Invece seguire un’esistenza in tempo reale garantisce risultati molto più oggettivi.

Ebbene, quale verità si è dipanata sotto gli occhi dei ricercatori di Harvard? Che a rendere felici gli esseri umani non sono né la ricchezza né la fama, i feticci della modernità. È la qualità delle loro relazioni. Soltanto quella. La solitudine e le frequentazioni sbagliate atrofizzano il cuore, peggiorano la salute e fanno arrugginire precocemente il cervello.

Chi a cinquant’anni si comportava da orso o da animale in gabbia, e magari era un manager di successo in perfetta forma fisica, è invecchiato male oppure è morto. Mentre chi già allora coltivava buone relazioni con la famiglia, gli amici e la propria comunità è diventato un vegliardo felice, vispo e in salute, anche se aveva il colesterolo alto.

Il calore umano sarebbe dunque l’elisir di lunga e felice vita che l’uomo cerca da millenni senza sapere di averlo sotto il naso. Ovviamente non basta circondarsi di legami: si può essere soli anche in una folla o in un matrimonio sbagliato. Perché quei legami si scaldino e diventino affetti occorre investirci lo stesso tempo e le stesse energie che normalmente vengono dedicate a procacciarsi fama e ricchezza (quasi sempre senza riuscirci, oltretutto). >>

MASSIMO GRAMELLINI

sabato 8 settembre 2018

Il genio di Darwin - 8

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Ottava parte. Lumen)


<< Quando si scende al livello dei geni e delle molecole il panorama cambia radicalmente e molti termini introdotti per l'analisi al livello degli organismi perdono parte del loro significato. Dobbiamo sbarazzarci quindi del tutto di questi termini? Direi di no. Sono ancora utili al livello descrittivo e illustrativo, allo stesso modo in cui si può parlare di febbre, anche se oramai si conoscono i meccanismi che la generano, o di prurito, anche se si sa con precisione che cosa c'è dietro.

Non c'è dubbio per esempio che nel quadro generale di una diversificazione degli organismi viventi si possono riconoscere innumerevoli esempi di strutture più o meno ben adattate ad alcuni aspetti dell'ambiente e dello stile di vita tipici delle singole specie. In questo contesto il concetto di adattamento è uno di quelli più usati e più presenti nella mente di chi parla, con professionalità o meno, di evoluzione.

Più o meno inconsciamente, molti sono portati a concepire le varie specie come statuine di plastilina che possono assumere varie forme e acquisire varie caratteristiche sotto la spinta della selezione naturale, che le modella sulle caratteristiche del loro ambiente.

Non si tratta di un'immagine del tutto campata in aria, a patto però che si consideri che l'evoluzione naturale plasma, col tempo, solo ciò che è di fatto plasmabile; cioè ciò che non è vietato dalle leggi della fisica e della chimica e, soprattutto, ciò che è compatibile con l'esistenza di un genoma che deve permanere non molto diverso da se stesso ed essere trasmesso da una generazione all'altra.

L'esistenza di un genoma attribuisce al blocco di plastilina un'anima di metallo all'interno. Queste limitazioni ineludibili – di natura fisica, chimica o biologica – che condizionano il processo evolutivo vero e proprio, effetto della variazione e della conseguente selezione, vengono dette vincoli evolutivi.

Per esempio, il fatto che le balene e i delfini non abbiano sviluppato strutture di tipo branchiale, certamente più adatte dei loro polmoni alla vita acquatica, deve essere considerato come effetto di qualche tipo di vincolo essenzialmente biologico, dovuto alla struttura del genoma o alle leggi dello sviluppo.

Va detto inoltre che il concetto di adattamento e la schiera di termini che lo accompagna trovano la loro più legittima utilizzazione quando si segue l'evoluzione di una specie o di un genere lungo una particolare linea evolutiva. In quel caso, poiché si sa già come va a finire la storia, almeno fino a un certo punto, i concetti di valore adattivo e selettivo coincidono e l'evoluzione acquista una sua plausibilità e un grado di persuasione psicologica di cui è difficile ignorare l'influenza.

Prendiamo la storia del cavallo. Negli ultimi cinquantacinque milioni di anni si è passati da un piccolo Mammifero che possedeva quattro zampe a cinque dita, terminanti con altrettanti piccoli zoccoli, e che si cibava di foglie a un animale un po' più grande che si cibava d'erba e infine al possente animale che conosciamo oggi, che si ciba sempre di erba ma possiede zampe dotate di un solo dito a forma di zoccolo.

Il cavallo che ci è familiare appartiene al genere Equus, che comprende al momento sei o sette specie più o meno rappresentate. Grazie ai resti fossili, la storia degli antenati del cavallo si può appunto delineare almeno a partire da circa cinquantacinque milioni di anni fa. A quell'epoca, dieci milioni di anni dopo l'estinzione in massa dei dinosauri e l'inizio del faticoso cammino dei Mammiferi, si fa risalire l'esistenza di un animale delle dimensioni di un grosso gatto chiamato oggi Hyracotherium, un tempo Eohippus.

Questo ungulato primitivo viveva in un ambiente caldo e umido. Con le sue svelte zampe (quelle davanti con quattro dita, e tre per quelle posteriori) si muoveva agevolmente sui terreni melmosi e si cibava delle foglie tenere dei rami bassi degli arbusti di latifoglie. Da questo proto-cavallo deriva direttamente il Mesohippus che popolò l'America Settentrionale venti milioni di anni dopo. Era leggermente più alto del suo antenato, le sue zampe possedevano tre dita (quella centrale più sviluppata delle altre due), aveva un muso più allungato e un cranio leggermente più voluminoso.

Quando il clima da caldo e umido divenne sempre più freddo e più arido, le foreste di latifoglie cedettero il posto a grandi estensioni di steppe erbose. Si osservò allora una radiazione di vari generi, alcuni dei quali continuarono a mantenere il loro stile di vita cercando sempre nuovi ambienti finché non si estinsero. Esaminando i resti fossili di questi generi estinti appartenenti a linee evolutive collaterali possiamo trovare le tracce degli esperimenti naturali più diversi che includono sia forme giganti (Megahippus) che forme nane (Archaeohippus).

Il genere destinato a perpetuarsi fino ad arrivare al cavallo dei giorni nostri è invece il Merychippus che quindici milioni di anni fa imparò a cibarsi di erba, grazie a una progressiva trasformazione della sua dentatura, e a correre sicuro sul terreno compatto delle praterie, grazie alle sue zampe che terminavano con uno zoccolo centrale, già preminente rispetto a quelli delle altre due dita. Nel periodo successivo seguirono molte altre radiazioni evolutive, tra le quali vale la pena di ricordare il genere Pliohippus, che visse meno di dieci milioni di anni fa e che mostra ormai quasi tutti i caratteri del cavallo moderno.

Percorrendo questa serie evolutiva dall'Hyracotherium all'Equus si possono osservare molte trasformazioni secolari come l'aumento delle dimensioni del cranio e di tutto il corpo e la progressiva trasformazione degli arti e della dentatura. Accanto a queste trasformazioni che col senno di poi ci sembrano condurre da qualche parte, si possono però osservare innumerevoli tentativi di percorrere altre vie.

Le specie di cui ci sono giunti i resti fossili, senza contare quelle delle quali non possediamo al momento alcuna documentazione concreta, testimoniano chiaramente di un continuo, quasi affannoso, tentativo di proporre nuove soluzioni evolutive. Solo pochissime di queste si sono rivelate valide, per pregi intrinseci o per puro caso, e hanno condotto al cavallo. Questo a sua volta non è l'unico mammifero di successo. È solo uno dei tanti che popolano il nostro pianeta.

La storia evolutiva del cavallo, una delle meglio costruite e probabilmente emblematica di molte altre, non è che una successione di eventi individuati dal naturalista e collocati da questi in un ordine temporale significativo. Come questa se ne potrebbero individuare miriadi di altre: la stragrande maggioranza di tali storie non avrebbe un lieto fine ma rappresenterebbe un ramo morto. L'unico dato certo è la continuità per discendenza diretta di un certo numero di individui e il fatto, innegabile, che ci sia qualcuno che li sta studiando.

Un'altra applicazione molto conveniente del concetto di adattamento si può riscontrare nell'analisi dell'evoluzione delle caratteristiche di un organo specifico lungo una particolare linea evolutiva. L'elefante, per esempio, non aveva probabilmente alcuna necessità di possedere una proboscide. Ma dal momento che gli è toccata, la selezione ha fatto in modo che questo organo fosse sempre più utile, anche se nessuno conosce ancora tutte le sue potenzialità.

Insomma, data una struttura o una funzione biologica, la selezione opera in modo da renderla sempre più adatta al suo ruolo. Ancora una volta possiamo dire che la selezione naturale rifinisce e perfeziona secondo criteri suoi propri ciò che il caso ha offerto e messo in campo. >>

EDOARDO BONCINELLI

(continua)

sabato 1 settembre 2018

Pensierini - XL

SOVRANISMO
I movimenti “sovranisti” che si stano affermando in questi anni nell’Europa occidentale, pur essendo per certi versi simili al nazionalismo storico, possiedono, a mio avviso, due caratteristiche particolari.
Anzitutto sono movimenti che vengono dal basso, cioè dai sentimenti effettivi della gente, e non dall’alto, in quanto si trovano ad essere osteggiati (soprattutto i Italia) dalla martellante propaganda congiunta di TUTTI i media principali (TV e grandi giornali).
Normalmente, la propaganda ufficiale risulta letale per i movimenti popolari contrari, ma in questo caso sembrano bastare le notizie del web per tenere vive le loro opinioni.
In secondo luogo (e per fortuna), l’attuale sovranismo è una forma di nazionalismo solo difensivo, per cui non vi sono rischi di militarismo aggressivo verso l'esterno, cioè dei singoli Stati fra loro.
Personalmente, ritengo che se l'Europa occidentale ha una possibilità di mantenere la propria cultura e la propria identità, può affidarsi solo a questi movimenti, ma le prospettive non sembrano molto incoraggianti.
LUMEN


PRIVACY
Qualcuno ha osservato che, nell’attuale regime di “privacy” onnipresente, persino il nome diviene segreto e sconveniente.
Nelle strutture pubbliche e private di servizi, infatti, si danno disposizioni per non chiamare più le persone con il loro nome, ma designarle con un numero o con un altro elemento anonimo (es. l'ora di accesso).
In questa scelta potrebbe anche esserci l’obbiettivo, neppure tanto recondito, di oggettivizzare le persone, togliendo loro il potere evocativo del proprio nome e quindi della propria storia e libertà individuale.
E’ probabile però che la motivazione principale risieda solo nei grandi numeri.
Se il gruppo umano in cui si vive ha una dimensione modesta (ed il pensiero corre subito al numero di Dumbar) l'utilizzo del nome è certamente il sistema ottimale per interagire con le altre persone.
Ma se le persone con cui si interagisce sono tantissime, l'utilizzo dei numeri diventa una scelta obbligata.
Purtroppo siamo diventati troppi e da questa premessa derivano quasi tutti i guai in cui ci troviamo.
LUMEN


ELITES APOLIDI
Ma da chi sono costituite le famose elites (apolidi) che guidano il mondo ?
Lasciando perdere le risposte più ingenue, come i ‘massoni’ o gli ‘ebrei’ (figuriamoci), le elites che guidano il mondo globalizzato sono, molto semplicemente, i ricchissimi (industriali e/o finanzieri), ai quali i politici fanno da aiutanti e i grandi media da valletti.
Le elites sono sempre esistite e hanno sempre mandato avanti la baracca secondo i propri interessi, e quindi contro gli interessi della popolazione comune, che però in genere nemmeno se ne accorgeva.
Adesso però, con la democrazia diffusa, hanno bisogno di una parvenza di consenso e di legalità ed ecco la loro contiguità con i politici (che devono fare le leggi più adatte a loro) e con i grandi media, che devono convincere la gente che gli interessi delle elites coincidono con le loro (e ci riescono !).
Inoltre c'è l'altra grande novità, ovvero la globalizzazione, ed allora le elites da nazionali si sono trasformate in trans-nazionali (giuridicamente cittadine di uno stato, ma sostanzialmente apolidi) il che, per fortuna, consente due significativi vantaggi per noi gente comune.
Anzitutto ottengono il nostro consenso e la nostra acquiescenza con le buone, ovvero con la propaganda dei media, anziché con le cattive (le manganellate della polizia).
In secondo luogo, mentre prima le elites delle varie nazioni potevano avere interesse ad una guerra tra di loro, oggi questo interesse non c'è più ed ecco spiegato il lungo periodo di pace sostanziale.
Purtroppo tutto questo è rovinato dal sostanziale superamento dei confini, con quel che ne consegue in tema di immigrazione incontrollata.
LUMEN


I QUATTRO SISTEMI
Se un essere umano desidera un oggetto che gli serve, poniamo un paio di scarpe, ci sono – in linea di massima - 4 diversi sistemi per ottenerlo:
1 - Può farlo lui stesso, se ne è capace (è l’approccio dell’homo faber).
2 - Può ottenerlo da qualcuno in cambio di qualcos’altro, che può essere anche del denaro (è l’approccio del mercante).
3 - Può sottrarlo con la violenza a chi ce l’ha (è l’approccio del bandito).
4 - Può farselo dare da un altro in cambio di nulla (è l’approccio del profittatore).
Quest’ultimo sistema – se escludiamo l’ambito strettamente familiare - sembra il più ridicolo e, pertanto, il più marginale.
Ed invece ha dominato e continua a dominare tutte le società umane: basti pensare al successo delle religioni e delle ideologie, che si approfittano facilmente delle persone più sprovvedute.
Quindi, se posso dare un consiglio, state molto attenti al quarto sistema !
LUMEN


FRANCOBOLLI
Non ho dati statistici al riguardo, ma da un semplice sguardo sulla realtà di oggi, la filatelia – un tempo passione quasi imprescindibile di tantissimi ragazzi - mi sembra proprio sul viale del tramonto.
I ragazzi di oggi non collezionano più i francobolli, sia per motivi soggettivi (legati alle loro diverse passioni), che per motivi oggetti, (derivanti dall’evoluzione tecnologica della corrispondenza), e le persone adulte che la praticano ancora, probabilmente, lo fanno solo per nostalgia o per abitudine,
Quelli messi peggio, a mio avviso, sono i collezionisti investitori che hanno pagato somme altissime per le rarità più quotate.
Se crolla tutta la baracca della filatelia, crolla anche il valore attribuito a quei “pezzi rari” visto che, in fondo, non sono altro che rettangolini di carta privi di valore intrinseco.
Se io avessi dei francobolli di valore elevato (che purtroppo non ho mai avuto, neppure da ragazzo), credo che cercherei di venderli al più presto possibile.
LUMEN


GIUSTO E SBAGLIATO
Ho letto una interessante disquisizione lessicale da parte del noto matematico Piergiorgio Odifreddi, a proposito del termine "Giusto".
<< L’equivoco di fondo in cui cadono molte persone disinformate - dice Odifreddi - è di contrapporre “giusto” a “sbagliato”, come se fossero termini antitetici.   Giusto”, infatti, è l’opposto di “ingiusto”, mentre “sbagliato” è l’opposto di “corretto”. >>
Ed aggiunge: << In particolare, “corretto” e “sbagliato” sono categorie di cui si occupa il pensiero scientifico, e riguardano i fatti oggettivi, mentre “giusto” e “ingiusto” sono categorie di cui si occupa il pensiero umanistico, e riguardano i valori soggettivi. >>
Purtroppo, la precisione scientifica ed il inguaggio comune non vanno molto di pari passo.
LUMEN