mercoledì 27 dicembre 2017

Omero e il manoscritto

Dal “Diario Minimo” di Umberto Eco, un piccolo pezzo di bravura del professore, che prova ad immaginare il grande Omero alle prese con le idiosincrasie dell’editoria moderna. Paradossale, ma irresistibile. Lumen


Dolenti declinare (rapporti di lettura all'editore).
Omero. Odissea.

 

<< A me personalmente il libro piace. La storia è bella, appassionante, piena di avventure. C'è quel tanto di amore che basta, la fedeltà coniugale e le scappatelle adulterine (buona la figura di Calipso, una vera divoratrice d'uomini), c'è persino il momento "lolitistico" con la ragazzina Nausicaa, in cui l'autore dice e non dice, ma tutto sommato eccita.
 
Ci sono colpi di scena, giganti monocoli, cannibali, e persino un po' di droga, abbastanza per non incorrere nei rigori della legge, perché a quanto ne so il loto non è proibito dal Narcotics Bureau. Le scene finali sono della migliore tradizione western, la scazzottatura è robusta, la scena dell'arco è tenuta da maestro sul filo della suspense.
 
Che dire? si legge di un fiato meglio del primo libro dello stesso autore, troppo statico col suo insistere sull'unità di luogo, noioso per eccesso di avvenimenti – perché alla terza battaglia e al decimo duello il lettore ha già capito il meccanismo. E poi abbiamo visto che la storia di Achille e Patroclo, con quel filo di omosessualità nemmeno troppo latente, ci ha dato grane col pretore di Lodi.
 
In questo secondo libro invece no, tutto marcia che è una meraviglia, persino il tono è più calmo, pensato se non pensoso. E poi il montaggio, il gioco dei flash back, le storie ad incastro... Insomma, alta scuola, questo Omero è veramente molto bravo.
 
Troppo bravo direi... Mi chiedo se sia tutta farina del suo sacco. Certo, certo, scrivendo si migliora (e chissà che il terzo libro non sia addirittura una cannonata), ma quello che mi insospettisce – e in ogni caso mi induce a dare parere negativo – è il caos che ne conseguirà sul piano dei diritti. Ne ho parlato con Eric Linder e ho capito che non ne usciremo facilmente.
 
Anzitutto, l'autore non si trova più. Chi lo aveva conosciuto dice che in ogni caso era una fatica discutere con lui sulle piccole modifiche da apportare al testo, perché è orbo come una talpa, non segue il manoscritto, e dava persino l'impressione di non conoscerlo bene. Citava a memoria, non era sicuro di avere scritto proprio così, dice che la copista aveva interpolato. Lo aveva scritto lui o era solo un prestanome?
 
Sin qui niente di male, l'editing è diventato un'arte e molti libri confezionati direttamente in redazione o scritti a più mani (vedi Fruttero e Lucentini) diventano ottimi affari editoriali.
 
Ma per questo secondo libro le ambiguità sono troppe. Linder dice che i diritti non sono di Omero perché bisogna sentire anche certi aedi eolici che avrebbero una percentuale su alcune parti.
 
Secondo un agente letterario di Chio, i diritti andrebbero a dei rapsodi locali, che praticamente avrebbero fatto un lavoro da "negri", ma non si sa se abbiano registrato il loro lavoro presso la locale società autori. Un agente di Smirne invece dice che i diritti vanno tutti a Omero, tranne che è morto e quindi la città ha diritto a incamerare i proventi. Ma non è la sola città ad avanzare queste pretese.
 
L'impossibilità di stabilire se e quando il nostro uomo sia morto, impedisce di avvalersi della legge del '43 sulle opere pubblicate dopo cinquant'anni dalla morte dell'autore.
 
Ora si fa vivo un tale Callino che pretende di detenere tutti i diritti ma vuole che con l'Odissea si comprino anche La Tebaide, Gli Epigoni e Le Ciprie: e a parte che non valgono gran che, molti dicono che non sono affatto di Omero. E poi, in che collana li mettiamo?
 
Questa gente ormai tira al soldo e ci specula. Ho provato a chiedere una prefazione ad Aristarco di Samotracia, che ha autorità e ci sa anche fare, perché mettesse a posto le cose, ma è peggio che andar di notte: lui vuole addirittura stabilire, all'interno del libro, cosa sia autentico e cosa no, così facciamo l'edizione critica, e ti saluto la tiratura popolare.
 
Allora è meglio lasciare tutto a Ricciardi, che ci mette vent'anni e poi fa una cosina da dodicimila lire e la manda omaggio ai direttori di banca.
 
Insomma, se ci buttiamo nell'avventura entriamo in un ginepraio giuridico che non ne usciamo più, il libro va sotto sequestro ma non è uno di quei sequestri sessuali che poi fanno vendere sottobanco, è sequestro puro e semplice. Magari tra dieci anni te lo compra Mondadori per gli Oscar, ma per intanto i soldi li hai spesi e non sono tornati a casa subito.
 
Mi spiace molto, perché il libro merita. Ma non possiamo metterci a fare anche i poliziotti. Io quindi lascerei perdere. >>

 UMBERTO ECO

mercoledì 20 dicembre 2017

La teoria della Classe Alfa – 2

Si conclude qui il pezzo del sito Oilproject sulla teoria delle “elites politiche” ed i suoi esponenti. Lumen


(seconda parte)
 
<< L’uso del termine “élite” risale a Vilfredo Pareto, che alcuni anni dopo la pubblicazione degli “Elementi di scienza politica” di Mosca pubblica “Systèmes socialistes” (1902). Inizialmente Pareto non ambisce a elaborare un’analisi del potere politico come quella di Mosca: il suo campo di interesse primario è quello economico. 

Due questioni, tuttavia, lo conducono allo studio politologico, anzi più in generale alla sociologia: l’impossibilità di spiegare, a partire dal modello di azione economica razionale, in primo luogo i comportamenti sociali in generale ed, in secondo luogo, la distribuzione ineguale del potere tra i gruppi in particolare. Pareto affronta la prima questione separando le azioni razionali da quelle non-razionali; la seconda elaborando la sua teoria delle élites. 

La questione dell’irrazionalità dell’agire era un tema di moda nei primi anni del Novecento: oltre all’emergente psicanalisi di Sigmund Freud, le teorie di Gustave Le Bon, George Sorel e prima di loro Marx e Nietzsche rivelavano il ruolo delle emozioni e dell’irrazionalità nella politica. Anche l’economista Pareto si confronta con i limiti della teoria razionale dell’agire e li supera, categorizzando i comportamenti irrazionali come devianti rispetto al modello economico, ma, al contempo, riconoscendo loro una enorme importanza negli effettivi processi sociali. 

Pareto dedica il suo pensiero, non più di economista ma di sociologo, al compito (d’ispirazione illuministica) di elaborare un’analisi “razionale” della componente dell’agire umano rappresentata dalle azioni irrazionali, che non sono orientate da conoscenze simili a quelle proprie delle scienze logico-sperimentali. 

Le azioni irrazionali generalmente esprimono una visione fallace del rapporto tra i mezzi e i fini dell’agire, anche se generalmente gli uomini le giustificano e le rielaborano tramite ragionamenti più o meno espliciti (che Pareto chiama “derivazioni”). Le derivazioni sono estremamente variate, ma una loro analisi permette di individuare, dietro quella varietà, alcune classi di “residui” che costituiscono invece i moventi autentici (anche se spesso non consapevoli o confessati) dell’agire. (…) 

Pareto esplora questo fenomeno non solo nell’ambito, per quanto importante, del potere politico, ma più in generale dalla marcata e inevitabile diseguaglianza che caratterizza tutti gli ambiti sociali significativi, tra la minoranza dominante, costituita dalle élite, e la maggioranza dominata. L’esercizio del potere è, in altre parole, fondato sullo sfruttamento di sentimenti e atteggiamenti irrazionali – magici, rituali, non logici – da parte di minoranze dotate di abilità superiori. 

A tal proposito la teoria di Pareto si discosta da quella della classe politica di Mosca. Nella concezione antropologica da cui prende avvio la teoria paretiana, la diversità degli individui non è data dalla loro organizzazione, ma da un dato naturale che si rispecchia nella loro posizione sociale. 

In tutti i campi e in tutte le situazioni storiche esistono, allora, gerarchie sociali al vertice delle quali stanno le élite, cioè coloro che dimostrano, attraverso il loro successo, le loro superiori capacità nei rispettivi campi di attività. È anche per questo che generalmente si forma una distinzione fra élite le politiche, quelle economiche e quelle intellettuali. Le élite governanti, inoltre, si distinguono in “volpi” e “leoni”, a seconda che utilizzino il consenso o la forza per esercitare il potere. 

Benché il dominio dei pochi sui molti sia una realtà politica immodificabile, le élites devono rinnovarsi per poter conservare il potere. La regola della “circolazione delle élites”, secondo cui le classi elette devono alternarsi o modificarsi internamente ammettendo l’ingresso di elementi delle classi dominate, permette alla società di mantenere un equilibrio dinamico e di non andare incontro a un processo di decadenza. 

Questo principio svolge un ruolo centrale nell’intera dinamica storica; secondo Pareto, infatti, la storia tutta intera può essere considerata come un “cimitero di aristocrazie”. 

Robert Michels rielabora in modo originale la teoria della classe politica di Mosca conducendo uno studio empirico esemplare sulle strutture organizzative di partiti e sindacati, nonché (come risulta da molteplici studi successivi) su altre organizzazioni “volontarie”. Amico e allievo di Max Weber, con cui scambia una fitta corrispondenza, egli rivela i meccanismi che trasformano qualsiasi organizzazione in una macchina burocratica al servizio delle finalità del gruppo dirigente. 

Per testare la sua ipotesi, secondo cui l’organizzazione crea fatalmente l’oligarchia – la cosiddetta “legge ferrea dell’oligarchia” –, lo studioso di Colonia analizza uno dei più famosi e grandi partiti socialdemocratici europei, la SPD tedesca. È significativa la sua scelta, sia perché Michels all’inizio della sua carriera, è un attivo militante di quel partito, sia per la dottrina egualitaria che caratterizza l’SPD. 

Nella sua “Sociologia del partito politico” (1911) Michels dimostra la sua tesi secondo la quale “chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”, indicando le ragioni di questo complesso fenomeno e delineando le fasi del processo in cui avvengono l’instaurazione e il consolidamento dell’élite dirigente. La necessità di ricorrere all’organizzazione, insieme con la particolare “psicologia delle masse” e la psicologia dei leaders politici, determina il processo di trasformazione del partito in una struttura verticistica, nella quale pochi comandano sulla maggioranza. 

L’organizzazione [però] muta la sua funzione solo gradualmente. Nella prima fase la canalizzazione e definizione degli interessi degli elettori dà origine alla formazione di un’élite interna, la quale, in un secondo momento, si articola selezionando un corpo più o meno ampio di personale amministrativo, e assegnandogli compiti e risorse che progressivamente lo distingue dai politici eletti dalla base. 

Questo processo di burocratizzazione e la formazione di un gruppo dirigente inamovibile, che si appropria della delega conferita dagli elettori e gestisce le risorse materiali e simboliche del partito, conducono alla terza fase della trasformazione. In essa il gruppo dirigente si isola dagli elettori e conduce il partito a deviare dai propri scopi: sostituzione dei fini. 

A questo punto l’effettiva finalità del Partito (SPD), per quanto mascherata dal richiamo retorico al suo messaggio ideologico, è la realizzazione non più degli interessi dei suoi membri, bensì di quelli dell’élite gelosa del proprio potere. In questo modo “l’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa. L’organo finisce per prevalere sull’organismo [...] Suprema legge del partito diviene la tendenza a eliminare tutto ciò che potrebbe fermare il meccanismo e minacciare così la sua forma esteriore, l’organizzazione”. 

Insomma, anche un partito rivoluzionario e fondato idealmente sulla partecipazione dei militanti si trasforma in una grande macchina burocratica, il cui scopo è la conservazione e l’accrescimento del potere del suo gruppo dominante. >>

OILPROJECT

mercoledì 13 dicembre 2017

La teoria della Classe Alfa – 1

Torno a parlare della “teoria delle elites politiche” – dopo i 2 post dedicati a Michels - con questo lungo articolo (diviso anch'esso in 2 parti) che traccia una panoramica d’assieme di questa scuola di pensiero, con riferimento a tutti i suoi tre principali esponenti: Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e, appunto, Robert Michels. 
Il testo, chiaro ed interessante, è tratto dal sito Oilproject. 
LUMEN 


<< Emersa sul finire dell’Ottocento, la cosiddetta “teoria delle élites” ottenne una certa risonanza nel dibattito scientifico e pubblico, per poi giungere a imporsi in modo rilevante nel secolo successivo.

Secondo tale teoria, l’analisi scientifica di tutte le società rivela un fenomeno fondamentale per quanto generalmente ignorato o giustificato ideologicamente: entro ogni società, una minoranza, comunemente assai piccola ma organizzata, esercita il proprio dominio sul resto della popolazione, derivando dalla subordinazione di questa m tutti i privilegi di cui gode.

La teoria viene espressamente formulata per la prima volta nel 1896 a proposito dei rapporti politici – con riferimento ad autori del passato, a partire da Machiavelli – da uno studioso italiano: Gaetano Mosca nei suoi ‘Elementi di scienza politica’ (1896). In seguito, essa viene variamente ampliata e elaborata da un altro italiano, l’economista Vilfredo Pareto e da Robert Michels, studioso tedesco a lungo attivo in Italia.
Gli “elitisti” sono accomunati dall’intento di rivelare una realtà “effettuale” (per riprendere un’espressione di Machiavelli), che la stessa minoranza dominante nasconde e giustifica nel nome di principi e valori che evocano il consenso anche della maggioranza dominata. Si impegnano particolarmente nella critica di due ideologie contemporanee.

 Per la prima, le istituzioni liberal-democratiche (a cominciare dalla rappresentanza parlamentare) escludono che anche in società moderne abbia luogo il dominio della minoranza sulla maggioranza. L’ideologia socialista a sua volta critica quella liberale, ma argomenta che la vittoriosa lotta della classe operaia contro l’ordine esistente ne produrrà uno nuovo, caratterizzato dall’eguaglianza universale e privato da ogni rapporto di dominio.
 
Lo scetticismo degli elitisti nei confronti di tali teorie politiche deve essere inquadrato nell’ambito delle trasformazioni del contesto europeo alla fine dell’Ottocento. La rapida diffusione delle idee socialiste tra le masse urbanizzate di operai industriali, divenute sempre più numerose e organizzate, l’allargamento del suffragio e la crescita del capitalismo internazionale conducono a un’esacerbata conflittualità politica in Europa.

Le basi su cui si fonda lo stato liberale e le monarchie ottocentesche si sgretolano. L’emergere delle masse come protagoniste della vita politica provoca un radicale cambiamento nell’equilibrio delle istituzioni. Da allora la politica si svolge prevalentemente fuori dai parlamenti: nelle piazze dove si radunano le masse, nelle fabbriche dove si organizzano gli scioperi e le serrate, e nelle organizzazioni di partito, in cui vengono selezionati i leader e i temi per le campagne politiche.
 

Gli elitisti italiani, il liberale Gaetano Mosca e il liberista e poi fascista Vilfredo Pareto, risentono del clima di crisi che serpeggia nell’Italia di fine secolo: essi condividono un sentimento di scetticismo riguardo sia alla democrazia, sia al socialismo. Al contrario l’elaborazione teorica di Robert Michels (1876-1936) emerge dal terreno della militanza e poi della delusione politica all’interno del Partito socialista europeo più forte e organizzato: il Partito Social Democratico tedesco (SPD).
 
La teoria delle élites ha avuto e ha un ruolo fondamentale nelle scienze politologiche sia da un punto di vista metodologico, sia nell’ambito della critica delle ideologie. Sono notevoli gli spunti che essa ha fornito agli studi della scienza politica e della sociologia delle organizzazioni. Inoltre, secondo Bobbio, essa “contribuisce tuttora a scoprire e mettere a nudo la finzione della ‘democrazia manipolata’”.

 La teoria della classe di governo è esplicitamente fondata da Gaetano Mosca nel 1896 sull’osservazione che “fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società [… ] esistono due classi di persone: quella dei governati e quella dei governanti” (…). La ragione del dominio dei pochi sulle maggioranze risiede nella loro capacità di organizzazione e cioè nell’abilità di formare un gruppo che sia più o meno internamente coeso.
 
Mosca distingue nettamente il suo approccio scientifico realistico da quello proprio delle teorie e ideologie a lui contemporanee. In altre parole, decreta l’inadeguatezza delle dottrine politiche democratiche e socialiste e delle teorizzazioni sulle forme di governo a descrivere i modi effettivi di esercizio del potere, e cioè a descrivere la struttura oligarchica di qualsiasi sistema politico. I precursori di tale approccio sono indicati esclusivamente in Machiavelli, Saint-Simon, Comte, Marx ed Engels e Hyppolite Taine.

 Mosca definisce generalmente il principio organizzativo come il criterio decisivo per la costituzione della classe politica e per il suo dominio, ma non chiarisce le relazioni di potere fra i diversi ambiti di azione, e cioè fra l’economia, la politica e la cultura. L’organizzazione è pertanto un principio interno che regola la costituzione della classe politica, mentre il modo in cui essa esercita il suo potere “all’esterno” è individuato nell’elaborazione delle “formule politiche”.
 
Queste ultime legittimano la classe dominante, permettendole di economizzare l’uso della forza e far leva sul consenso della maggioranza. Le formule politiche non sono, però, mere mistificazioni, ma rispondono a un bisogno insito nell’uomo ed esprimono i valori fondamentali su cui si basa la società.

 Mosca, malgrado la sua idea dell’ineluttabilità del principio oligarchico, prende sul serio la distinzione tra “classi politiche autocratiche”, legittimate dal principio secondo cui il potere procede dall’alto della società e [quindi] chiuse, e “classi politiche liberali”, legittimate dal basso e relativamente aperte. Queste ultime sono proprie degli assetti e processi politici moderni e li rendono ampiamente preferibili come risposta al problema del reclutamento dell’élite dominante. 

Tale valutazione, tuttavia, non contraddice la tesi centrale del pensiero elitista. La classificazione di vari regimi in base alla loro apertura permette al liberale Mosca di sottrarsi a una concezione esclusivamente pessimistica del governo liberale e di reinserire nel suo modello teorico una differenziazione più articolata per descrivere i modi di esercizio del potere. >>

OILPROJECT

 (continua) 

mercoledì 6 dicembre 2017

Il figlio dell'uomo

Ma l’uomo è davvero il figlio (prediletto) di Dio, come affermano le religioni, o non è piuttosto “dio” (o meglio il suo concetto) ad essere figlio dell’uomo ? 
I biologi evoluzionisti non hanno molti dubbi al riguardo e l’antropologo Pascal Boyer ha scritto, sull’argomento, un libro molto interessante, intitolato proprio “E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione”. 
Riporto qui di seguito la recensione dell’editore (Odoya) ed, a seguire, un breve estratto del testo. 
LUMEN 


<< In questo libro fondamentale, tradotto per la prima volta in italiano, Boyer spiega come gli esseri umani abbiano formato i loro concetti religiosi e i motivi della loro diffusione culturale. 
Con un approccio che unisce antropologia culturale, scienze cognitive, psicologia e biologia evoluzionista, l'autore giunge a una spiegazione naturalista della religione senza tralasciare nessun aspetto: il sovrannaturale, gli spiriti e gli dèi, il rapporto tra religione, morale e sentimenti negativi, il culto dei morti, l'importanza dei rituali, la formulazione di dottrine e l'esclusione dei non aderenti dal tessuto sociale. 
Attraverso esempi provenienti dalle civiltà di tutto il mondo, Boyer cerca di dimostrare la sua ipotesi secondo cui le credenze religiose esisterebbero a prescindere dall'utilità che esse conservano storicamente nei fenomeni di coesione sociale e in quelli della trasmissione culturale.
Le forme di credenza, molto più semplicemente, appartengono a un insieme di sistemi concettuali alla base degli stessi processi cognitivi grazie ai quali il nostro cervello si è evoluto nel corso dei millenni. 
Da questo punto di vista, la religione smette gli abiti dell'oggetto di devozione per essere finalmente indagato nelle sue ragioni evolutive e nelle sue potenzialità pervasive di influenza sulle comunità umane. >>  


<< Come si può spiegare una cosa così variabile (la religione) ricorrendo a una cosa che è uguale dappertutto (il cervello) ? Per capire come ciò sia possibile, occorre prima di tutto descrivere esattamente come funziona la mente, ossia come il cervello organizza ed elabora le informazioni.
 
Per molto tempo, il cervello è stato considerato un organo abbastanza semplice, visto come un ampio spazio vergine riempito poco a poco da educazione, cultura ed esperienze personali. Ma questa visione del cervello non è mai stata molto plausibile.
 
La nostra mente non è predisposta all’acquisizione di qualunque tipo di nozione purché sia “parte della cultura”. Non ci limitiamo solo ad “apprendere ciò che c’è nell’ambiente”, nessuna mente al mondo è in grado di apprendere alcunché se non dispone di un apparato mentale di base sofisticatissimo che le permetta di identificare le informazioni pertinenti al proprio ambiente.
 
Le menti umane hanno questa predisposizione perché la selezione naturale ci ha dotati di un tipo di mente particolare. Essa essendo predisposta alla comprensione di alcuni concetti ha un’inclinazione naturale anche per le varianti dei concetti in questione. Ciò significa che ogni essere umano può agevolmente acquisire un dato ventaglio di concetti religiosi e comunicarli ad altri.
 
Tutte le teorie sull’origine della religione sono riconducibili a una delle seguenti ipotesi: le menti umane sono assetate di spiegazioni; il cuore umano ha bisogno di consolazione; l’intelletto umano è incline all’illusione.
 
La religione fornisce spiegazioni. 
1--Essa è stata creata per spiegare fenomeni naturali misteriosi. Qual è la causa dei temporali, tuoni, inondazioni e siccità? Gli dei e gli spiriti assolvono questa funzione esplicativa.
 
2--E’ stata creata per spiegare fenomeni mentali misteriosi. I sogni e la sensazione che i morti siano intorno a noi sono tutti fenomeni difficili da spiegare in modo soddisfacente, ricorrendo a normali concetti. La nozione di spirito può renderne conto perché essi sono entità incorporee con le sembianze di persone viste in sogno o nelle allucinazioni
 
3--La religione spiega l’origine delle cose. Il mondo nel suo insieme nasce da un Dio increato
 
4--La religione spiega il male e la sofferenza. Perché esistono il male e la sofferenza in generale? I concetti di destino, Dio, demoni e antenati forniscono una risposta, ci spiegano come e perché il male è apparso sulla terra.
 
La religione dà conforto.
La psiche umana sembra progettata per avere bisogno della rassicurazione e del conforto che le idee soprannaturali sembrano offrire. Di seguito due possibili versioni di questa diffusa convinzione:
 
5--Le spiegazioni proposte dalla religione rendono la mortalità meno insopportabile. Noi esseri umani possiamo essere considerati gli unici ad avere la consapevolezza che, accada quel che accada, moriremo. A questa angoscia, molti sistemi religiosi sembrano offrire un palliativo.
 
6--La religione allevia l’angoscia e contribuisce a rendere il mondo meno angosciante. I concetti religiosi alleviano l’angoscia fornendo un contesto in cui la natura dell’esistenza viene sia spiegata sia compensata dalla promessa di una vita migliore o della salvezza.
 
La religione è una cosa buona per la società. 
La religione molto spesso regola la vita sociale. Il comportamento delle persone è fortemente influenzato dalle nozioni relative all’esistenza e ai poteri di antenati, divinità o spiriti. Deve perciò esserci un collegamento tra vita sociale e concetti religiosi.
 
7--La religione cementa i gruppi sociali. Come affermò Voltaire “se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo”. I gruppi sociali si sgretolerebbero se i rispettivi membri non condividessero quella serie di credenze che li mantiene uniti e che permette ai gruppi sociali di funzionare come insiemi organici.
 
8--La religione è stata inventata solo per perpetuare un dato ordine sociale. Le credenze religiose esistono per convincere i popoli oppressi che non è possibile migliorare il loro destino e che non resta niente di meglio da fare che aspettare la ricompensa promessa che si riceverà in un altro modo.
 
9--La religione fonda la morale. Nessun tipo di società può funzionare in assenza di regole morali che siano condivise da tutti i componenti.
 
La religione come illusione della religione. 
10--Gli individui sono superstiziosi e crederebbero a qualsiasi cosa. Gli individui sono inclini per natura a credere a ogni tipo di storie su fenomeni strani.
 
11--I concetti religiosi sono inconfutabili. Infatti descrivono invariabilmente processi e agenti la cui esistenza non potrebbe mai essere verificata sicché finiscono col non essere mai confutate. In assenza di prove contro la fondatezza della maggior parte delle nozioni religiose, gli individui non hanno ragioni plausibili per smettere di credervi.
 
12--Confutare è più difficile che credere. Le credenze e i concetti religiosi che ognuno di noi ha sono stati acquisiti da altri.
 
La religione ci viene trasmessa dagli altri membri del gruppo sociale di appartenenza. Inoltre, non esiste un unico modo di acquisire tutto ciò che serve a renderci membri componenti di una data cultura, ma esiste una pluralità di modi per acquisire l’informazione culturale perché le disposizioni del cervello umano per l’apprendimento si differenziano a seconda dell’ambito culturale. >> 

PASCAL BOYER