venerdì 26 marzo 2021

La Sinistra e la follia

La distinzione politica tra Destra e Sinistra ha precise origini storiche che risalgono ai tempi della Rivoluzione Francese.

Nel maggio del 1789, infatti, quando il Re di Francia convocò gli Stati Generali - l'assemblea che doveva rappresentare le tre classi sociali dell'epoca (clero, nobiltà e popolo) - questi ultimi si divisero in due parti, con gli esponenti conservatori alla destra del Presidente, ed i radicali alla sua sinistra.

Tralasciando per un attimo la classe politica, alcuni sostengono che la differenza tra gli elettori ed i simpatizzanti è di tipo sociale, mentre altri ipotizzano una differenza antropologica.

Gianni Pardo, in questo divertente (ma anche acuto) pezzo tratto dal suo blog, azzarda addirittura l'ipotesi psicanalitica.

Buona lettura. LUMEN


<< Non so quale sia la definizione scientifica di follia, o malattia mentale che dir si voglia. E può perfino darsi che non esista. (…) Per me la follia è “un più o meno grave distacco dalla realtà”.

Il fobico si rifiuta di entrare in ascensore e fa cinque piani a piedi, ma dopo tutto ha soltanto un leggero distacco dalla realtà. Peggio vanno le cose per lo schizofrenico, colui che dialoga con personaggi immaginari che vede e sente. (...)

Tutto ciò posto, è ovvio che essere religiosi è una forma di malattia mentale. Benigna, nel caso del Cristianesimo, maligna – visto soprattutto come è interpretata in concreto – in qualche altro caso. (…)

Passando alla politica, vorrei dire subito che essere di sinistra è una forma di malattia mentale. Anche se, in qualche caso, una nobilissima forma di malattia mentale.

La politica è l’arte di governare la polis, cioè la nostra vita associata. Per conseguenza, avendo mentalità scientifica, la politica deve partire dalla reale natura degli esseri da governare. Se, invece di governare degli esseri umani, si trattasse di pesci, di tutto si potrebbe discutere, salvo se sia opportuno o no che essi vivano in acqua.

Se gli esseri umani sono pressoché tutti egoisti, si può concepire una politica fondata sull’altruismo e la solidarietà? Assolutamente no. Eppure ciò è avvenuto. Si pensi al socialismo idealistico nella Francia dell’Ottocento, con i suoi falansteri.

Ecco perché le teorie della sinistra sono adatte a persone che soffrono di qualche distacco dalla realtà. L’idealista non parte da ciò che è, ma da ciò che dovrebbe essere. E se la situazione non corrisponde a ciò che lui vorrebbe – magari pensando agli altri, non a sé stesso – si dà come programma di modificare le cose.

Uno slancio così risoluto verso il meglio entusiasmerà qualche giovane, ed anche – sia detto senza ironia – qualche anima pura, ma per lo psichiatra è il sintomo di una malattia che si spera di curare, senza nessuna garanzia di guarigione.

Pensavo che una famosa citazione fosse di Lenin ma, come spesso accade, Lenin citava un altro pazzo. Hegel ha scritto: “Se i fatti non corrispondono alla teoria, tanto peggio per i fatti”. E così si capisce perché Hegel è stato il maestro di Marx.

Quella è una frase da manicomio eppure in suo nome milioni e milioni di persone nel mondo sono morte. Soltanto perché il sogno irrealistico della sinistra era bellissimo e costituiva una radiosa speranza. Anche quando si uccideva un terzo della popolazione, come è avvenuto in Cambogia.

Ecco il vero discrimine tra sinistra e buon senso. La sinistra non accetta il mondo com’è. Si rifiuta di accettare che esso è irrimediabilmente “cattivo”. Nella giungla o nella savana è in corso da tempo immemorabile una lotta per la sopravvivenza di tutti contro tutti, vegetali inclusi, in cui non si fanno prigionieri, in cui ci si mangia a vicenda, magari mentre la preda è ancora viva. E del resto, moltissimi pesci si cibano di altri pesci. Vivi.

Se la politica si occupasse di impedire il peggio, fra gli uomini (per esempio furto e omicidio) e per il resto li lasciasse essere come sono, farebbe meno danni. Il regime sovietico non aveva il programma di affamare i russi, ma è quello che ha fatto. E altrettanto ed anche più efficacemente, nel provocare la morte per fame, ha funzionato la dittatura di Mao Tse Tung.

Viceversa, nel mondo capitalistico e più spietato che io conosco, cioè la Svizzera, il livello medio della popolazione è fra i più alti del mondo.

Non è un problema di politica, è un problema di aderenza alla realtà. In guerra, negli ospedali da campo, i medici soccorrono chi ha maggiori possibilità di sopravvivere e lasciano morire l’altro. È triste ed è inevitabile. Ma parlatene con qualcuno di sinistra e vi dirà che: “È inammissibile. Bisogna salvarli tutti e due. Non m’interessa come, dovete salvarli tutti e due”. Ecco, agli uomini di sinistra basta la soluzione teorica. E tanto peggio per i fatti.

Purtroppo la follia vincerà sempre la sua guerra contro la razionalità. Perché il cervello dell’uomo è fatto per la follia, non per la realtà. >>

GIANNI PARDO

venerdì 19 marzo 2021

I giganti della fede – San Francesco d'Assisi

Fra le tante anime della religione cristiana, una delle più importanti è quella 'ascetica', diretta discendente del misticismo orientale che al cristianesimo preeesisteva da secoli.

Ed una delle icone di questa anima è sicuramente San Francesco d'Assisi, il poverello estatico, che parlava coi lupi. Ma il personaggi, se si guarda la storia con occhi disincantati, potrebbe essere stato molto diverso da quello che appare.

Ce ne parla Valentino Salvatore in questo articolo (tratto dal sito dell'UAAR), in cui  fa la recensione del libro “Lo stregone di Assisi” di Andrea Amati.

LUMEN


<< Il “poverello” di Assisi viene ancor oggi presentato come il simbolo d’una religiosità semplice, pura, disinteressata, persino ingenua, lontana dagli interessi materiali, con quel pizzico di criticità nei confronti del papato ricco e potente, addirittura come precursore di tendenze animaliste, ecologiste e pacifiste, tali da attirare anche le simpatie di molti laici, e persino non credenti.

Parlarne al di fuori di questa cornice agiografica e conciliante può sembrare seccante e ingenerare l’idea di voler fare i “criticoni” anti-religiosi per partito preso. Ma cosa c’è di reale in tale immagine edulcorata accettata dai più?

In questa indagine il giovanissimo Andrea Armati ci propone un resoconto più smaliziato e realistico del santo, che ne rivela «il volto proibito […] distante anni luce da quanto la tradizione cattolica e gli slogan no global ci hanno raccontato».

In realtà il frate, tutt’altro che semplice e sprovveduto, «non si limitò a realizzare un’esperienza alternativa di fede, ma inventò un “format” facile da capire e immediato da riconoscere», dimostrandosi più colluso coi potenti e col papato, meno disinteressato e più egocentrico di quanto non si pensi.

Tanto che l’autore afferma: «i sogni di gloria non abbandonarono mai la mente di Francesco; anche dopo la conversione, il poverello mantenne uno spiccato senso di protagonismo, un bisogno innato di essere riconosciuto e ammirato dagli altri».

La predicazione di Francesco coglie il passaggio culturale dall’immagine del Christus triumphans a quella del Christus patiens, più umano e vicino al popolo, in contrapposizione a una Chiesa mondana. Tale cambiamento, all’apparenza unicamente iconografico, ha in realtà conseguenze profonde, tanto che il frate vuole «essere considerato dai suoi seguaci il nuovo Cristo», emblematico il caso delle stimmate, «di evidente origine psicosomatica».

I “miracoli” e le pratiche di Francesco si inseriscono in tale tendenza auto-esaltatoria e fanno emergere inoltre una religiosità legata a culti pre-cristiani ancora profondamente radicata nel mondo contadino, condannata esplicitamente dalla Chiesa come eretica e stregonesca, come nei casi del culto degli alberi e della comunicazione con gli uccelli.

Anche per questo è «opportuno sgombrare il campo dalle farneticazioni che si sono consolidate nel corso degli ultimi decenni, su tutte la 'balle' del Francesco animalista».

Il “mito” di Francesco è frutto di profonde mistificazioni, veicolate prima dalla Chiesa, che ne inglobò la figura per scopi propagandistici, ma anche dalla politica: il santo viene infatti esaltato come “eretico” e ribelle dal clima risorgimentale; diventa poi il rassicurante esponente dell’umile ruralismo tradizionalista in epoca fascista, che aiuta a creare un clima favorevole al Concordato; ancora peggio, nel dopoguerra viene ammantato di socialismo, di internazionalismo e del pacifismo dalla cultura di sinistra per intercettare l’elettorato cattolico.

In realtà, l’autore fa crudamente notare come Francesco non fu affatto un pacifista (coltivando ad esempio contatti con nobili e capi militari), né si oppose a guerre e crociate, anzi, seguì come fervente embedded i crociati e si mostrò sostanzialmente ostile all’islam, rispetto al quale prospettava la lotta e la necessità di conversione, con piglio zelante.

(E questo, nonostante si sia creata la leggenda del pacifico incontro “inter-culturale” col sultano Malik al-Kamil, che non fu né così pacifico, né così inter-culturale).

Non ci si può quindi non interrogare sul senso della marcia per la pace Perugia-Assisi, cui l’autore [del libro] preferirebbe una «Monreale-Palermo», nel ricordo di un contemporaneo del pio frate, ovvero Federico II, in confronto al primo ben più “laico”, tollerante e aperto verso le altre culture.

La diffusione delle icone francescane è l’ulteriore dimostrazione di come il santo sia divenuto il fulcro di una vera e propria «operazione mediatica» studiata dalla Chiesa, che tenne conto persino delle diverse tipologie di “pubblico”: così Francesco diventa «santo da una parte, stregone dall’altra», a seconda che si tratti del target cittadino e borghese, oppure di quello rurale e paganeggiante.

L’autore così tira le somme: «L’immagine che il Medioevo ci ha trasmesso di Francesco è parzialmente falsa; oltre che povero tra i poveri, l’assisano fu anche un’astuta mente politica in grado di comunicare alle masse senza perdere i contatti con le persone che contano».

Insomma, Francesco d’Assisi fu un personaggio molto più complesso, contraddittorio, ambiguo e oscuro di quanto non si voglia comunemente credere: il lavoro di Armati – che verrà approfondito da ulteriori ricerche – apre molti squarci in un quadretto fin troppo innocuo e perfetto veicolato durante i secoli e attraverso le ideologie. >>

VALENTINO SALVATORE


venerdì 12 marzo 2021

Tra mente e cervello

Un tempo la distinzione fondamentale tra spirito e materia era ovvia e naturale, perchè tutta la nostra esperienza quotidiana andava in quella direzione.

Oggi però, grazie alla scienza, sappiamo benissimo che il cervello non è altro che un organo fisico, che fa parte di un corpo fisico; eppure la nostra sensazione che esista una realtà spirituale al di fuori (o al di sopra) del mondo materiale rimane molto forte.

Ce ne parla Guido Brunetti in questo articolo (un po' tecnico) tratto dal sito Neuroscienze.net.

LUMEN


<< Nel pensiero filosofico e neuro-scientifco, grande rilevanza ha assunto il problema mente-corpo (Mind-Body-Problem). Il neuro scienziato Raffaello Vizioli (...) lo definisce “il problema dei problemi”. Ultimamente, si parla di problema mente-cervello (Mind-Brain-Problem), invece che del problema mente-corpo.

In materia, sono state sviluppate numerose teorie (…) che si possono suddividere in tre orientamenti fondamentali: quello materialistico (Feigel, Armstrong); quello mentalistico, che interpreta la mente come realtà autonoma (Eccles, Popper); quello ermeneutico-personologico, che rivaluta la dimensione esistenziale e soggettiva dell’evento mentale.

Per il materialismo riduttivo, o fisicalismo, la mente è il risultato di uno stato fisico. Uno stato mentale è (o è causato da) uno stato del cervello (Smart). Coscienza e comportamento - sostiene Griffin - tanto negli animali, quanto negli esseri umani sono per intero l’effetto di eventi che hanno luogo nel loro sistema centrale.

Già il DSM-III-R [Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - NdL], aveva affermato che “è provato che tutti i processi psichici, normali ed anormali, dipendono dalle funzioni cerebrali”.

Alcuni autori hanno dichiarato la loro opzione per un materialismo “non più grossolano e statico meccanismo di causa-effetto tra cervello e mente, bensì nel senso di “una continua modificazione funzionale tra strutture cerebrali nel loro rapporto con la cultura e con la storia”. Mentre da un lato, il cervello sviluppa una mente che produce cultura, dall’altro - scrive Barucci - storia e cultura agiscono sul cervello e ne modificano i sistemi funzionali”.

Lungo questa linea si pone l’interessante volume “Anima, mente e cervello” a cura di Paolo Quintili, il quale descrive il passaggio dal dualismo cartesiano tra l’anima immateriale e il corpo al monismo dell’essere umano. Il monismo è in sostanza la “riduzione” di quell’anima immateriale alle funzioni fisiche e mentali del cervello. L’essere umano è “ridotto” all’ ”Uomo-Macchina” descritto da J.O. de La Mettrie. E’ “la morte dell’anima” (Barret).

A partire da Platone, il problema della “psiche” è stato collegato al tema del “soma” ed entrambi riconducibili al concetto di “anima”.

E’ stato Cartesio, l’autore che ha contribuito in modo rilevante all’affermazione nell’età moderna e contemporanea dell’dea di mente, delineando una prospettiva dualistica metafisica. Ogni essere umano - scrive Cartesio - possiede sia un corpo (“res extensa”), sia una mente immateriale (“res cogitans”).

L’illuminismo e il positivismo contestano la natura immateriale dell’anima e superano il dualismo metafisico di matrice plutonica (rectius platonica - NdL) e cartesiana, affermando la preminenza della tesi materialista dell’unità psico-fisica dell’essere umano, concludendo che  l’anima (o la mente) è “nient’altro che una parte di soma, ovvero una funzione del corpo.

Possiamo dire che i termini anima, mente, spirito dal Settecento mutano in profondità. A partire dall’ Ottocento, la teoria materialista moderna diventa in sostanza “l’unica verità scientifica attendibile”.

Le neuro-scienze considerano “prodotto” del cervello ciò che si comprendeva nel concetto di anima o Io. Tutto è creato dal cervello. Anima, spirito, mente, coscienza, autocoscienza, conoscenza sono eventi dell’attività cerebrale.

L’anima è integralmente materialista. La soggettività umana risulta essere una “trama di eventi neuro-fisiologici”. La mente è considerata come una “rete neurale”. E’ la teoria dell’anima materiale, della mente “incarnata”.

Tutte le scienze odierne sono “materialiste” (materialismo scientifico) per statuto metodologico e contenuto empirico. Nella prospettiva del XXI secolo, il rapporto mente-cervello è ormai divenuto una questione, nella quale ogni discorso sull’anima è messo “fuori circuito”.

Sta di fatto che i problemi della mente e del cervello sono considerati così incredibilmente complessi e inaccessibili che per definirli vengono usate le parole mistero ed enigma.

Neuro-scienziati, come Eccles, Penfield, Sperry, si sono inchinati - precisa Vizioli - di fronte al mistero della mente, di come cioè una struttura, il cervello, possa produrre un’attività immateriale, la mente. >>

GUIDO BRUNETTI

venerdì 5 marzo 2021

La fine del Capitalismo

Ma il capitalismo è compatibile oppure no con la 'conversione ecologica' che tutti ci auguriamo ?

La questione è fondamentale per gli ambientalisti, perché occorre sapere se è meglio fare pressione sul sistema attuale per modificarne la rotta, oppure cercare di sostituirlo con un’altro sistema.

Ma quale sistema? Davvero l'economia moderna può fare a meno del capitale e del mercato?

Le considerazioni che seguono sono di Jacopo Simonetta e sono tratte dal sito Medio Evo Elettrico (ex Effetto Cassandra).

LUMEN 

 

<< Tutte le proposte inerenti una qualche variante di “green Economy” danno per scontato di operare all’interno di un’economia di mercato. Sia pure con qualche aggiustamento, si pensa comunque di restare saldamente in un sistema capitalista, con tutto il relativo apparato legale, istituzionale e di costume. 

Siamo sicuri che sia possibile una vera transizione ecologica senza sbarazzarsi del capitalismo o, magari, trasformarlo in qualcosa di molto diverso? 

Il capitalismo è un sistema economico unico nella storia e, alla resa dei conti, si è dimostrato di gran lunga il più efficiente nello sfruttare le opportunità di crescita che offriva un “mondo vuoto” (sensu H. Daly). 

Non solo ha infatti permesso la creazione di immense fortune private (anche altri sistemi lo hanno fatto), ma ha anche distribuito il massimo storico di benessere materiale e di libertà personale ai cittadini degli stati che lo hanno adottato per primi.

Si è anche dimostrato inattaccabile grazie alla sua capacità camaleontica di adattarsi ai più diversi contesti, pur restando saldamente sé stesso. Anzi, assorbendo ed utilizzando a proprio vantaggio anche le idee, i concetti e le invenzioni nate per contrastarlo.

Proprio questo lo rende così terribilmente distruttivo. Qui non possiamo scendere in dettagli, (...) ma è un fatto che il sistema capitalista è strutturato su una ridondanza di retroazioni positive senza freni interni. Al contrario ha molti strumenti (ad es. la tecnologia e la finanza) per contrastare gli effetti frenanti derivanti dagli impatti negativi sulle risorse, l’ambiente ecc.

Ne consegue che un sistema capitalista può fare solo due cose: crescere o collassare, senza possibili vie di mezzo. (…)

Il petrolio abbondante, a buon mercato e di eccellente qualità è stato ciò che ha consentito al capitalismo di realizzare la più fantastica crescita economica di sempre e quella crescita è ciò che ha reso compatibili, anzi sinergici, il capitalismo e la democrazia.

La crescita è finita e non tornerà. E con la fine della crescita è finita questa sinergia: di qui il risorgere ed il diffondersi di partiti e movimenti estremisti, mentre il capitalismo in agonia cerca di sopravvivere adottando, gradualmente, metodi di manipolazione, controllo e repressione sempre più simili a quelli cari ai regimi totalitari. Tutto ciò che la crescita ha creato, senza di essa non potrà funzionare.

D’altronde, la decrescita non è una scelta, è una conseguenza di leggi fisiche e biologiche ineludibili. 

Questo significa che non solo le nostre abitudini ed il nostro benessere, ma anche buona parte di ciò che pensiamo, delle nostre certezze identitarie, fino ai nostri bastioni etici cadrà in rovina e da quelle rovine dovremo ricostruire un sistema di pensiero che ci possa sostenere in una realtà che già ci terrorizza, anche se ancora non la riusciamo ad immaginare.

D’altronde, per quanto duro, il declino è anche la strada migliore perché qualunque ulteriore crescita economica comporterebbe un ancor maggiore incremento dell’ingiustizia e della distruzione di ciò che resta della Biosfera.

In una qualche misura, possiamo però scegliere come declinare. Un vecchio detto afferma che per avere le buone risposte occorre porre le buone domande. Per esempio: “Come possiamo mantenere il nostro standard di vita?” è una domanda stupida perché sappiamo bene che la risposta è: “non possiamo”.

Però ci sono altre domande su qui vale la pena di riflettere. Per esempio: “Come possiamo contribuire a salvare la biosfera?” Oppure: “Possiamo seppellire il capitalismo salvando le libertà individuali?” O ancora: “E’ possibile una società decentemente giusta, anche se terribilmente povera?”

Ce ne sono molte altre, il punto è decidere quali sono le questioni che ci interessano davvero. >>

JACOPO SIMONETTA