sabato 1 agosto 2020

I limiti biologici della cultura

Come noto, nell'evoluzione biologica, di fronte a situazioni completamente nuove e rischiose, l'unica speranza di sopravvivenza è data dalla comparsa di una mutazione vantaggiosa che aiuti l'essere vivente a risolvere il problema. Ma la mutazione genetica è rara e casuale, e l'attesa può essere lunga.
Con l'evoluzione culturale invece, l'uomo ha ottenuto una sorgente di novità in più: un meccanismo che risulta rapido, non casuale, e che può essere trasmesso non solo verticalmente (dai genitori ai figli), ma anche orizzontalmente (tra i componenti del gruppo).
La fortissima capacità culturale della nostra specie non ci ha aperto però i cancelli dell'Eden, perché ogni cambiamento, anche se utile a risolvere un problema, non è mai privo di aspetti negativi, ed inoltre non può superare del tutto i limiti genetici che ci condizionano.
Di questi limiti ci parla Luca Pardi nel post che segue, tratto dal sito di Aspo Italia.
LUMEN 


<< L’azione umana, che definisce la dinamica dell’antropo-sfera e dei suoi effetti planetari, si esprime attraverso un metabolismo che ha nella componente sociale la sua manifestazione specifica più saliente. “Società”, parola magica, da cui ne derivano molte altre: socialità, sociologia, socialismo, sociopatia. L’uomo è un animale sociale. Ipersociale, dicono alcuni, più simile alle api e alle formiche che al branco primordiale di ominidi.

Le relazioni di potere sono quelle che plasmano la struttura della società. In tutte le società animali, inclusa la nostra, si stabilisce una gerarchia. Mio padre determinò sia l’esistenza che il determinismo di fenomeni specifici, come l’instaurarsi della gerarchia, nelle vespe sociali. Fenomeni che erano allora noti solo fra i vertebrati. A lui devo la costante osservazione di tutto ciò che è umano come una manifestazione dell’etologia della specie come si è sviluppata nel corso dell’evoluzione.

Edward O. Wilson ha creato un possente apparato teorico che formalizza, per quanto possibile e non senza controversie, la genesi del fenomeno sociale nel mondo animale nel quadro del paradigma evoluzionista, l’unico che ha senso in biologia, fino ad arrivare a ipotesi innovative sulla socialità umana.

Secondo Wilson, detto in soldoni, siamo il prodotto sia del meccanismo egoistico del gene dato dalla selezione individuale sia del meccanismo altruistico di gruppo. L’interazione fra questi due meccanismi ci ha portati ad essere una “chimera evolutiva”. Sapere chi siamo non è un fattore secondario nello studio dei nostri rapporti con l’ambiente in cui viviamo.

Scrive Telmo Pievani nella prefazione del testo di Wilson: […] “circa l’impatto di Homo sapiens sulle altre specie ominine e sulla biodiversità, l’evoluzione umana per Wilson è stata una campagna di invasione, una marcia rischiosa per una ragione profonda, che costituisce il nucleo antropologico del libro: la radicale ambiguità della natura umana. Proprio a causa del paradosso insito nella selezione di gruppo (la dialettica fra cameratismo dentro il gruppo e conflitto fra gruppi di estranei), le sorgenti della più sublime cooperazione sono anche quelle del tribalismo, della guerra tra bande, del conformismo sociale, di identità collettive settarie e irrazionali.” 

Personalmente penso che non ci sia nulla di più utile, e necessario, di sapere chi siamo. I grandi tentativi di indagine scientifica della psiche umana hanno dato vita ad una congerie di scuole psicanalitiche di pensiero e a qualche psicofarmaco che, usato con giudizio, può migliorare la condizione in caso di patologie. Ma non è andata a fondo del problema. Per far questo ci voleva molto di più che sdraiare una persona su un lettino e interpretare i suoi sogni.

Sarebbe molto, troppo, ambizioso tentare di (o fingere di saper) maneggiare la gamma di strumenti che le neuroscienze ci hanno dato per indagare la mente, e la sua base fisica. E non solo la mente umana, infatti accanto all’anatomia comparata, disciplina fondamentale per capire l’evoluzione, esiste una neurofisiologia comparata che non è, da questo punto di vista, meno importante. Altri strumenti sono stati forniti anche dalla psicologia empirica e da quella evoluzionistica che hanno permesso di indagare, ad esempio, i meccanismi di formazione delle risposte morali. (...)

Per sapere chi siamo non basta studiare la società umana e la sua evoluzione storica con gli strumenti delle scienze sociali ed economiche, bisogna capire la nostra storia naturale. Nulla ha senso in biologia se non alla luce della teoria dell’evoluzione. Noi siamo il prodotto di un percorso evolutivo e ne dobbiamo tener conto.

Alla fine, ad esempio, si tratta di riconoscere l’origine delle resistenze che rendono così difficile la cooperazione internazionale sul tema dell’ambiente e della contrapposta facilità con cui i difensori del paradigma fossile dell’energia sono riusciti a ritardare la transizione. Purtroppo questo tipo di affermazione manda su tutte le furie molte persone. Il fatto che possa esistere un hardware (natura) che interagisce con un software (cultura) che si è a sua volta adattato alla struttura fisica sottostante, è per alcuni inaccettabile.

Il mio problema non è dimostrare alcuni grandi pensatori e ispiratori di movimenti di massa, abbiano sbagliato tutto. Nessuno riesce a sbagliare tutto. (…) [Ma] nel guardare l’uomo, nella sua eccezionalità, da un punto di vista etologico, sociobiologico, evoluzionista, non si lascia da parte la tensione morale per una società più giusta e per l’instaurazione di un rapporto non distruttivo con l’ambiente che ci circonda. Al contrario, si dà una base biofisica, perciò realistica, a questa tensione.

Fino ad ora le religioni private e pubbliche, che sono spesso le detentrici della morale, hanno sempre predicato bene e, spesso, razzolato male. Le religioni pubbliche 'non teiste' del secolo scorso, come socialismo, comunismo, fascismo, sono state quasi interamente soppiantate dalla dottrina economica neo-liberale oggi dominante. Queste religioni pubbliche hanno rappresentato e rappresentano sé stesse come scienza, ma non lo sono, e innervando con la propria morale il comportamento delle società umane attraverso la politica, hanno dato vita a vari tipi di sistemi oppressivi, totalitari e/o distruttivi sia nei confronti dei rapporti sociali che dell’ambiente.

A dispetto della incrollabile fede di alcuni miei amici liberali, non c’è nulla di laico nella dottrina economica oggi dominante. Al contrario essa di configura proprio come una religione pubblica. A questo proposito Mauro Gallegati scrive: «nonostante esteriormente assomigli alla fisica, e nonostante il presunto equipaggiamento di molte leggi, l’economia non è una scienza», e anzi «assomiglia a una religione».

Ma prima di Gallegati il fisico Norbert Wiener aveva espresso un concetto simile in modo più colorito:
«Il successo della fisica matematica portò lo scienziato sociale ad essere geloso della sua potenza senza la completa comprensione dell’atteggiamento intellettuale che aveva contribuito a questa potenza.
L’uso delle formule matematiche aveva accompagnato lo sviluppo delle scienze naturali, ed era diventato di moda nelle scienze sociali.
Proprio come i popoli primitivi adottano le mode occidentali di vestire e il parlamentarismo, con un vago sentimento che queste vesti o questi riti magici li metteranno immediatamente in linea con la cultura e le tecniche moderne, così gli economisti hanno sviluppato l’uso di rivestire le loro idee imprecise del linguaggio del calcolo infinitesimale ….
Stabilire che cosa significano valori precisi per tali quantità, essenzialmente vaghe, non è né utile né onesto e ogni pretesa di applicare formule precise a queste quantità vagamente definite, è un artificio e una perdita di tempo»

Ad alcuni scienziati sociali e ad alcuni neo-adepti dell’econo-fisica o della dinamica dei sistemi, questo giudizio apparirà oltraggiosamente ingeneroso e perfino contraddittorio per uno che predica la collaborazione fra scienze naturali e scienze sociali. Collaborazione appunto, non dominio di una sull’altra. Non adozione di metodi di una nell’altra senza reciprocità.

Le cose che sto scrivendo sono l’approdo, sicuramente non definitivo, di molti anni di tentativi e interazioni con persone con una base culturale diversa dalla mia. In questi anni ho raramente incontrato persone che fossero disposte a lasciare, anche per un attimo, il loro punto di vista e abbracciarne un altro. Da questo punto di vista mi ha colpito (...) l’insegnamento di Marianella Sclavi con le sue “regole dell’ascolto attivo” applicando le quali si apprende un metodo di ricerca e, soprattutto, ad apprezzare il proprio punto di vista prima di quello altrui. 

Le scienze sociali ed economiche avevano, ed hanno bisogno, di un bagno di bio-fisica e bio-sociologia, ma questo non deve essere visto come un processo di conquista delle scienze sociali da parte di quelle naturali. Non è così. Le scienze naturali, non sono pure verginelle, ma rappresentano oggi uno degli strumenti essenziali della religione pubblica dominante. Quella appunto, dell’economia neoliberale, ma non erano meno importanti nei regimi del socialismo reale.

La retorica del progresso tecnologico e delle 'magnifiche sorti e progressive' della scienza sono una delle componenti delle ideologie dominanti da due secoli. Le scienze dure, in particolare, si sono rese ancelle del mercato capitalistico in modo quasi totale.

La confusione fra sviluppo tecnologico al servizio del sistema dei consumi e indagine scientifica è un fatto che si può riscontrare ogni giorno seguendo i mezzi di comunicazione, e che si vive quotidianamente nel mondo della ricerca. La scienza al servizio del mercato capitalistico è una regola da sempre. (...) [Ma] come sempre possiamo e dobbiamo separare il grano dalla pula. (...)

Per questa crisi ecologica e sociale in cui ci siamo trovati ci sono possibili risposte, ma non ci sono soluzioni. Noi, intendo quelli con più di cinquant’anni, diciamo, lasciamo molti problemi seri alle generazioni più giovani e a quelle future, il nostro impegno può essere solo quello di affrontarli insieme a loro finché ci saremo e di lasciargli in eredità degli strumenti pratici e teorici per affrontarli. >>

LUCA PARDI

13 commenti:

  1. A proposito di Edward O. Wilson, citato all'inizio del post, ecco un breve estratto dalla pagina Wiki:

    << Wilson è il fondatore della sociobiologia, intesa come lo studio sistematico dell'evoluzione biologica del comportamento sociale.
    Stabilì che la sociobiologia dovesse diventare un nuovo campo di ricerca scientifico, basato sulle teorie evoluzionistiche darwiniane.
    Intuì che il comportamento, sia degli animali che degli uomini, era il prodotto dell'interazione tra l'ereditarietà genetica e degli stimoli ambientali. (...)
    Definì la natura umana come un insieme di regole epigenetiche, un modello genetico dello sviluppo mentale.
    Per quanto riguarda l'ambito religioso, (...) Wilson sostenne la teoria che la credenza in Dio, o i rituali delle religioni, siano il prodotto dell'evoluzione. >>

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  2. Non ci ho capito quasi niente. Dipenderà dal fatto che Pardi è una persona seria, uno scienziato, e io solo un povero letterato ?!

    Mi colpisce lo stesso l'ultimo paragrafo:

    "Per questa crisi ecologica e sociale in cui ci siamo trovati ci sono possibili risposte, ma non ci sono soluzioni. Noi, intendo quelli con più di cinquant’anni, diciamo, lasciamo molti problemi seri alle generazioni più giovani e a quelle future, il nostro impegno può essere solo quello di affrontarli insieme a loro finché ci saremo e di lasciargli in eredità degli strumenti pratici e teorici per affrontarli."

    Questo fatto - che non ci sono soluzioni - mi sorprende un po' e mi delude pure.
    Ammettiamo pure che soluzioni facili ovvero populiste non risolvono niente ("vista la complessità dei problemi oggi"), ma lo stesso qualche punto fermo ci dev'essere, una stella polare. Mi sembra che Pardi sia come noi preoccupato per l'esplosione demografica, sia persino un malthusiano, come anche Agobit e persino Claudio che ci ha abbandonato avendo scoperto che siamo, oddìo, dei sovranisti o almeno critici verso questa UE.
    Ecco, questo è un punto fermo da dove partire: la demografia. Il demografo Blangiardo è anche lui preoccupato, ma per le ragioni contrarie: troppi pochi figli in Italia, ci stiamo estinguendo ...

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    1. Caro Sergio, il pessimismo di Pardi ("non ci sono soluzioni") deriva appunto dalla constatazione che le nostre scelte culturali hanno dei limiti genetici, che - in concreto - non riesciamo a superare.
      Da qui il richiamo nel post alla socio-biologia di E.O. Wilson.

      Ne consegue che anche se sappiamo benissimo, a livello razionale (e quindi culturale), cosa ci sarebbe da fare, non ci riusciamo lo stesso, visto che la spinta genetica alla maggior procreazione possibile è la più forte di tutte.

      Se per Harari siamo passati nel corso dei millenni 'da animali a dei', per tante cose ritorniamo facilmente da 'dei' (o anche solo da esseri razionali) ad 'animali'.

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    2. "... visto che la spinta genetica alla maggior procreazione possibile è la più forte di tutte."

      E com'è allora che in tutto l'occidente o primo mondo (Europa, USA, Canada, Giappone, Australia) questa spinta si è arrestata quasi completamente? Io non ho dubbi che sia stata la "dolce vita", cioè il benessere, ad aver "spento" la prolificità in occidente. Dunque un tutto sommato relativo benessere (nonostante il miracolo economico e l'aumento dei consumi la stragrande maggioranza della gente in Italia, in Europa e persino nella Svizzera, apparentemente uno dei paesi più ricchi del mondo, non ha grandi mezzi e ricchezze, va subito in crisi per una pandemia) ha messo a tacere il gene? Non sembra così onnipotente: cultura e soprattutto consumi e benessere fanno passare la voglia di tanti figli - che anche i Romani decadenti consideravano una scocciatura.

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    3. Sì, anche questo è vero.
      La riduzione spontanea dela natalità in occidente è sicuramente una vittoria della cultura.
      Possiamo dire, quindi, che la spinta del gene, in certi casi e in certe situazioni, può essere temporanemaente sconfitta.
      Ma la mia impressione è che, a gioco lungo, vinca sempre più spesso di quanto non perda.

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    4. P.S. - Aggiungo che la vittoria della cultura è soltanto inconscia, nel senso che si fanno pochi figli per la comodità personale, non per un ragionamento demografico.
      Si tratta quindi di una tendenza non programmata nè lungimirante che può cessare in qualsiasi momento.

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    5. Caro Lumen,

      non sono tanto d'accordo. Sembra che il nostro benessere psicofisico dipenda da una piccola ghiandola, l'amigdala, che sfugge al nostro controllo (è l'istinto). Il sapiens ha però sviluppato enormemente la corteccia cerebrale, sede del ragionamento, col quale può contrastare l'azione dell'amigdala. Istinto contro ragione e cultura, chi vincerà? Una vittoria schiacciante della ragione comprometterebbe il benessere della persona (i tipi cerebrali, capaci di spaccare il capello in quattro e d'inventarsi problemi, non fanno simpatia). La storia c'insegna poi che il sapiens, con tutta la sua famosa corteccia, ha pensato e pensa ancora oggi male, con tutta la sua tecnologia. Impossibile considerare razionali, che so, i sacrifici umani degli Aztechi o un possibile olocausto nuclerare.
      Dunque da una parte l'istinto, dall'altra un possibile correttivo da prendere con le pinze (che però ci ha permesso di fare scoperte meravigliose e ci permetterà forse persino di sopravvivere alla morte del sole - fra alcuni miliardi di anni).
      Non è un caso che hai battezzato il tuo blog Il fenotipo consapevole. Il gene sarà egoista, tiranno, ma la ragione può tenerlo almeno un po' a freno. La politica cinese del figlio unico (meravigliosamente applicata dall'Italia, fanalino di coda mondiale quanto a tasso di natalità, ma applicata anche dall'intero primo mondo) è nata dal ragionamento, dalla corteccia: non ci sono e non ci saranno abbastanza risorse per tutti, ergo limitiamo le nascite (che era poi il pensiero di Malthus). In Italia sono stati soprattutto il benessere e la pillola a far calare il tasso di natalità, meno la ragione.
      Una specie, animale e vegetale, si espande naturalmente fino al limite massimo. In mancanza di risorse e di cibo l'espansione si arresta, una specie può addirittura estinguersi.
      Noi due, ma anche Pardi e non pochi altri (siamo comunque sempre una minoranza) siamo convinti che gli attuali 7,8 miliardi di esseri umani sempre più consumisti sono un carico eccessivo per il pianeta e ci auguriamo che il numero cali ("dolcemente", come dicevano i Radicali, niente stragi) a un livello ecocompatibile (secondo alcuni tra i 1,5 - 2 - 3 miliardi). Si arriverebbe a una stabilizzazione della popolazione indotta dalla ragione, contro l'istinto - che è importante per sentirsi bene, provare felicità - ma è anche cieco.

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    6. Caro Sergio, ti ringrazio per la tua ventata di ottimismo, che, devo ammettere, appare abbastanza giustificata.
      I rapporti tra l'istinto e la ragione sono complessi, spesso difficili da analizzare, ma è evidente che entrambi hanno una parte importante nella nostra vita e pensare di rafforzare la quota della ragione appare sicuramente possibile.

      In fondo, la scelta di fare pochi figli per un miglior benessere proprio è una vittoria del fenotipo sul genotipo.
      Però non dobbiamo illuderci: il ragionamento demografico (faccio pochi figli per il benessere dell'umanità) continua a sembrarmi una scelta molto minoritaria.

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    7. "... il ragionamento demografico (faccio pochi figli per il benessere dell'umanità) ..."

      Non per l'umanità, per me stesso in primo luogo. Poi se ne giova anche l'umanità. Ma suvvia, prima un po' di sano egoismo (anche prima gli Italiani) e poi cooperiamo pure, staremo tutti meglio.
      Fra parentesi mi sembra che anche la Chiesa abbia messo la sordina al crescete e moltiplicatevi, anche se cerca nuovi sbocchi con l'immigrazionismo.

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    8. << Fra parentesi mi sembra che anche la Chiesa abbia messo la sordina al crescete e moltiplicatevi. >>

      E' vero, non lo avevo notato.
      Ma forse hanno solo cambiato strategia: invece di esortare l'occidente a fare più figli (impresa ardua di questi tempi), si limitano ad agevolare l'immigrazione dal terzo mondo.
      Tanto per loro cambia ben poco: basta che i fedeli (reali o potenziali) siano sempre tanti.

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  3. Pagina interessante e pure i commenti.
    La scelta folle di sostenere natalità in Africa e Asia (ovvero di non lavorare su contraccezione e altro ovvero di ostacolarli come "politica fassista (sigh!) dei paesi ricchi") è tutt'altro che casuale, nulla a che fare col genotipo.
    Interessi globalcapitalistici, la hybris neorelugiosa di noi miglioreremo il mondo e combattiamo il male, il razzismo che si manifesta nel suo duale, l'autorazzismo, spinte gregarie straordinarie ai nuovi fondamentalismi (da sempre per piccole menti scadenti), la sottile manipolazione-indottrinanento di massa, concorrono, in modo tutt'altro che naturale, alla crescita demografica e alla guerra migratoria contro vari paesi.
    Un'azione antipolitica disegnata, voluta, preparata.
    La repressione feroce dell'ecologia che tenta di resistere (ciò che i globalisti no-border indicano con xenofobia è la semplice e naturale strategia di difesa e precauzione rispetto agli sconosciuti che accomuna tutte le culture di ogni tempo e di ogni parte del globo) è genotipica, naturale.

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    1. Scritto di fretta spippolando sul furbofono, scusate.

      La repressione dell'ecologia... è tutt'altro che genotipica, naturale.

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    2. Sì, in effetti la xenofobia ha una matrice genetica, mentre il globalismo estremo è un prodotto culturale.
      Su questo ci sono pochi dubbi.

      La conseguenza (non so quanto voluta) è che non solo la cultura non aiuta a risolvere i problemi di convivenza tra etnie diverse, ma addirittura li esalta.
      Perchè non basta certo demonizzare la xenofobia per farla scomparire come per magia.
      Ma questo sembra non interessare a nessuno.

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