Diceva
il grande fisico danese Niels Bohr che è molto difficile fare
previsioni, soprattutto sul futuro. Però ci proviamo lo stesso.
Luca
Pardi, ad esempio, ha provato ad elaborare alcuni scenari
ipotizzabili sul futuro dell'umanità.
Le
previsioni sono state scritte a dicembre 2019, cioè PRIMA che
arrivasse lo tsunami del coronavirus a buttare per aria molte delle
nostre certezze, ma le sue analisi mi sembrano ugualmente fondate e
condivisibii.
Il
testo (tratte dal sito di Aspoitalia) è stato diviso in due parti per comodità di lettura.
LUMEN
<<
Da anni, e in modo accelerato in questi ultimi mesi, si sente parlare
di transizione energetica, verde, ecologica, sostenibile ecc. Tutte
formule che finora si sono rivelate vuote. I dati sulla situazione
ecologica e la loro interpretazione sono scientificamente
inoppugnabili (di una chiarezza cristallina), tutti negativi, e non
riguardano soltanto il cambiamento climatico, ma, in poche parole, la
pesante perturbazione di ogni ciclo bio-geo-chimico di questo pianeta
causata dalla nostra specie in modo accelerato dall’inizio dell’era
industriale.
Abbiamo
determinato l’innesco di una crisi ecologica globale che si sta
portando via una porzione ancora ignota della biosfera e, per quanto
ne sappiamo oggi, potrebbe portarsi via anche Homo sapiens. Di fronte
a questo dramma che può sfociare, o forse si sta già trasformando,
in tragedia, cosa si vede? Un movimento ecologista sovranazionale, ma
prevalentemente sviluppatosi nei paesi di antica industrializzazione,
cioè in quel miliardo di “benestanti globali”, che, con Greta
Thumberg pretende l’istituzione di una politica seria di
contenimento delle emissioni da parte dei governi del mondo.
La
pretesa è legittima, ma ha poche probabilità di dar luogo ad una
risposta positiva. Da questo punto di vista ha ragione Vladimir Putin
quando dice che la giovane ragazza svedese ignora la complessità del
mondo moderno. Sembra che gli ecologisti continuino a vivere
l’illusione che siccome l’ambiente è un bene comune, sia assurdo
che non si riesca a mettersi d’accordo sul salvarlo. Invece non c’è
nulla di automatico.
Le
classi politiche dei paesi rappresentati all’ONU non hanno
interessi convergenti perché rappresentano, nel migliore dei casi,
nazioni con situazioni drasticamente diverse. I paesi in via di
sviluppo (PSV), Cina, India, sud-est asiatico, Brasile e Africa, non
hanno alcuna intenzione di pagare, rinunciando alla propria crescita,
i danni fatti dai paesi sviluppati nei due secoli e mezzo di sviluppo
industriale e di espansione abnorme dei consumi.
L’unico
modello di sviluppo disponibile è quello iniziato nel XVIII secolo
in Inghilterra e alimentato dall’energia fornita prevalentemente
dai combustibili fossili. Senza questi ultimi, di fatto, non ci
sarebbe stato alcuno sviluppo o sarebbe stato almeno un ordine di
grandezza inferiore. I paesi sviluppati, dal canto loro, stanno
vivendo una fase difficile e non omogenea, in cui sembra che la
crescita economica sia possibile solo dove si rinuncia a fare anche
politica ecologica (USA) o dove si sfrutta un’egemonia tecnica ed
economica tale da poter scaricare verso il basso i problemi della
transizione (Germania e nord Europa e ancora USA).
Nel
mezzo ci sono i paesi produttori di materie prime, principalmente di
petrolio e gas, che hanno due problemi, non possono ovviamente
firmare la loro condanna a morte, ma stanno anche già vivendo un
momento difficile dovuto al fatto che man mano che gli effetti
dell’abbondanza si mutano in consumi, riducono le esportazioni e,
dunque, il surplus commerciale che li rendeva finanziariamente forti,
e le entrate fiscali per cui sono costretti a ridurre i sussidi sui
prodotti petroliferi fatto che determina tensioni sociali interne e
ancor più lo farà in futuro.
La
risposta nei paesi sviluppati sembra indirizzarsi in due direzioni
antagoniste che è difficile identificare come di destra o di
sinistra, ma semplificando molto potremmo identificare un
nazional-populismo sovranista di destra (attenzione però, non c’è
solo il sovranismo di destra) che sul lato ecologico si affida al
negazionismo climatico e ambientale per proporre una politica
economica che riporti alla crescita dura e pura del passato basata su
produzione e consumo indifferenziato supportata da un ritorno a forme
di protezionismo.
C’è
dall’altra parte un globalismo tecno-ottimista di sinistra che
invece accetta sia la realtà del trionfo globale del mercato,
abbandonando ogni possibilità di difesa degli interessi dei
lavoratori in campo nazionale, che quella dell’allarme ecologico
che pretende di curare con vari aggiustamenti green: l’economia
circolare, il green new deal ecc. tutte riedizioni dell’ossimoro
dei nostri tempi: lo sviluppo sostenibile. Inteso come crescita
sostenibile. Chiarisce questo punto la posizione del prof. Leonardo
Becchetti secondo cui nell’economia del futuro ci sarà crescita
del valore senza distruzione di risorse intese in senso lato: materie
prime, servizi degli ecosistemi, suolo fertile, biodiversità ecc.
Sul
lato economico quindi l’accettazione della narrativa liberale del
trickle down, come unica risposta alla ristrutturazione tecnologica e
sociale del mercato capitalista, sul lato ecologico invece l’appello
alla rivoluzione tecnologica permanente in nome dell’efficienza e
della crescita ecologicamente friendly. Una narrativa che sembra
funzionare, sulla carta, all’interno del paradigma economico
attuale, e per questo è addirittura più insidiosa di quella
negazionista.
Per
mettere in crisi la posizione negazionista basta evocare il tema
dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili: minerali ed
energetiche. Non a caso i negazionisti climatici sono spesso anche
gli stessi che si esercitano a definire il picco del petrolio una
bufala. Purtroppo per loro se si apre il rapporto dell’Agenzia
Internazionale per l’Energia del 2018, si trova la smentita questa
posizione che viene da una fonte insospettabile: «La produzione
globale di petrolio convenzionale ha superato il picco nel 2008 a
69,5 milioni di barili al giorno e da allora è diminuita di circa
2,5 milioni di barili al giorno.» (…).
Il
picco produttivo globale della categoria di petrolio più
conveniente, il convenzionale appunto, è avvenuto nel primo decennio
del secolo (come previsto, peraltro, da Colin Campbell e Jean
Laherrere) e questo segna il passaggio allo sfruttamento di categorie
di petrolio più difficili e costose da estrarre. Richard Miller, un
geologo petrolifero della BP ora in pensione, in una intervista del
2013 a the Guardian, a proposito delle nuove risorse petrolifere
estraibili dallo shale oil e dalle sabbie bituminose diceva: «Siamo
come una gabbia di topi di laboratorio che, finito di mangiare tutti
i semi, scoprono che possono mangiare anche la scatola di cartone».
Viceversa
il disegno teorico dell’economia circolare nella quale tutto ciò
che si consuma ritorna nel sistema attraverso un sempre più
efficiente sistema di riciclaggio è largamente illusorio (…).
Probabilmente, all’interno del paradigma economico attuale si
potrebbe, spingendo al massimo, garantire un riciclo dei materiali
intorno al 90%, livello fantasmagorico rispetto al tasso di riciclo
attuale, ma anche questo tasso fantasmagorico, mantenendo l’attuale
paradigma industriale, sarebbe un mero rallentamento dell’economia
lineare, non l’instaurazione dell’economia circolare (…).
È
un problema termodinamico. Spingere sempre più in alto il tasso di
riciclo materiale significa andare a raccogliere e differenziare
anche le parti più piccole e disperse dei manufatti, separarle dalle
altre, identificare la loro natura, depurarle e rimetterle in ciclo.
Ognuno di questi passaggi richiede un apporto di energia e più si
spinge sull’acceleratore del riciclo, quindi più accurata è la
separazione, più il costo energetico cresce. Alla fine il sistema
non regge tassi troppo elevati di riciclo.
Il
problema è termodinamico, ma il segnale è economico ed è quello
che il mercato riesce a sentire. Oggi alcuni elementi come quelli
delle Terre Rare, ma anche i metalli preziosi, usati in quantità
molto limitate in elettronica, non sono riciclati affatto perché il
gioco non vale la candela. D’accordo, continuano gli ottimisti
della sostenibilità, si devono disegnare i manufatti in modo che
siano facilmente smontabili a fine vita e i materiali con cui sono
fatti recuperabili e riciclabili. Sulla carta funziona, ma in pratica
si sta parlando di stravolgere totalmente lo sviluppo merceologico
degli ultimi 50 anni.
Ad
esempio molte delle sempre invocate nuove tecnologie si basano
sull’uso di materiali compositi in cui i singoli elementi chimici
sono dispersi in mille dispositivi di difficile separazione e perfino
identificazione. Considerazioni analoghe valgono per le plastiche il
cui uso, riuso, e riciclaggio efficiente richiederebbe di rinunciare
alla varietà di materiali che oggi forniscono. Al momento in ogni
caso, siamo talmente lontani dalla circolarità che qualsiasi
tentativo di rallentamento dell’economia lineare potrebbe essere
preso come positivo. Tutto sta capire chi deve pagare questo
rallentamento.
L’impressione
è che una parte almeno delle élite globali, in particolare quelle
che dirigono la politica dell’Unione Europea e della sinistra USA,
abbiano intenzione di far pagare la transizione ai ceti medi e medio
bassi del mondo industrializzato portandoli al livello dei ceti medio
bassi del mondo in via di sviluppo. Un grandissimo lavoro di
redistribuzione, giustizia sociale e, forse, miglioramento delle
condizioni ambientali.
Portare
il salario dell’agricoltore inurbato cambogiano al livello
dell’operaio di Rho facendo crescere il primo e scendere il
secondo, è un risultato eccezionale, per l’operaio cambogiano, non
per quello di Rho che però dopo tre decenni di globalizzazione
forzata e cessioni di sovranità ha perso ogni controllo politico e
sindacale nelle società democratiche europee, ed è ridotto a quello
che i veri liberisti vorrebbero: forza lavoro indifferenziata e
individualizzata in un mercato globale. In Europa c’è anche una
politica volta a mantenere una certa stratificazione gerarchica fra
le nazioni a tutto favore del nord anseatico e a sfavore del sud
aleatico. >>
LUCA
PARDI
(continua)
Bel testo, interessante. Sono curioso di vedere come continua. Aspetto la seconda parte prima di fare un commento. Mah, un commento potrei già azzardarlo: non vedo nessuna soluzione, non riesco a immaginarmela. A parte l'esito catastrofico, il collasso, verosimile. Certo dopo il collasso la vita ripartirebbe, non credo che il sapiens sapiens sparisca completamente.
RispondiEliminaL'epidemia in corso potrebbe far segnare una svolta verso quel governo mondiale auspicato dalle elite (vedi la profezia o piuttosto l'augurio di Jacques Attali: "una piccola epidemia favorirà l'instaurazione di un governo mondiale").
Già il fatto che si esiga la distribuzione di un eventuale vaccino a tutta la popolazione mondiale per un'elementare questione di giustizia indica chiaramente che le soluzioni non possono essere che planetarie. È inimmaginabile che il miliardo del primo mondo possa continuare a consumare e che i restanti miliardi restino a guardare. D'altra parte se questi miliardi vogliono vivere come noi non potrà che finir male, si dice che avremmo bisogno di una o due altre Terre. Siamo sempre lì: siamo troppi, è l'evidenza stessa, negata e stranegata da un po' tutti (politici, economisti, religiosi, filosofi, intellettuali - secondo i quali c'è da mangiare per tutti - e da bere pure?). L'ideale sarebbe il famoso rientro dolce - mica vogliamo sterminare mezza o l'intera umanità. Ma probabilmente ci sarà un'accelerazione dolorosa verso il ridimensionamento.
L'unica giustizia è la sostenibilità locale di una popolazione sul territorio.
EliminaUtopia.
Gli autarchici, da Mussolini a Hoxha a Kim Jong Jun (chiedo scusa per eventuali errori) sono il belzebù del pensiero dominante.
Caro UNIC, purtroppo siamo abituati a dare al concetto di autarchia una connotazione totalmente negativa, sia per motivi storici (quelli che hai citato tu), sia per motivi culturali (chi fa autarchia è automaticamente un poveraccio).
EliminaInvece si tratta di un concetto con tanti lati positivi, soprattutto dal punto di vista ambientale.
Se ti interessa, ti segnalo un post doppio sull'argmento che avevo pubblicato a marzo 2013 (Chi fa da se fa per tre).
@ Sergio
RispondiEliminaIn effetti non c'è molto da essere ottimisti.
A proposito del rapporto tra crisi ambientale e pandemia, ho trovato sul web queste considerazioni che mi sembrano condivisibili:
<< Acque limpide, animali in città, cieli tersi, mappe satellitari che mostravano la riduzione dell'inquinamento sulle aree più inquinate del pianeta. Subito dopo i primi giorni di lockdown, ha iniziato a farsi strada la narrazione che la pandemia stesse paradossalmente facendo bene al pianeta. Finalmente l'uomo arretrava e la natura si riappropriava dei propri spazi. Ma non c'è retorica più distorcente e più nociva di questa. (…)
In realtà tutte le crisi economiche sono state gli unici momenti storici in cui la crescita costante delle emissioni ha subito un calo. Ogni volta si è trattato di un episodio di breve durata seguito dalla ripresa e il conseguente aumento delle emissioni.
Quindi non sarà la pandemia a risolvere il cambiamento climatico, anzi. >>