Da
quando gli uomini vivono in società organizzate, e quindi il loro
comportamento è regolato da norme e leggi, è diventata
indispensabile la figura del giudice, che quelle norme deve
interpretare ed applicare ai casi di specie.
Un
tempo, quando il sovrano assoluto assommava a sé tutti i poteri, il
monarca si occupava non solo di promulgare le leggi e di farle
rispettare dai sudditi, ma fungeva anche da giudice nei casi di
controversia.
Oggi,
per fortuna, abbiamo conquistato la divisione dei poteri, per cui un
organo fa le leggi (il parlamento), un altro le applica (il governo
tramite la pubblica amministrazione) ed un altro dirime le
controversie (i giudici che compongono la magistratura). Ma
ovviamente, come ognuno può facilmente vedere, i problemi non sono
per nulla finiti.
E
proprio alle particolari difficoltà che la magistratura sta
attraversando nel nostro paese, nonché al mutato ruolo sociale del
giudice, è dedicato questo pezzo di Aldo Giannuli, pubblicato sul suo
blog nella scorsa estate.
LUMEN
<<
Luciano Violante ha detto, fra l’attonito e lo scandalizzato, che
mai ci sono stati tanti magistrati inquisiti per ipotesi di reato
piuttosto degradanti. (…) Vedremo cosa viene fuori, qui dobbiamo
capire le questioni di fondo. E la questione delle questioni è il
fallimento del modello costituzionale italiano in tema di
“autogoverno della magistratura”.
Siamo
l’unico paese che affida tutte le questioni ordinamentali
dell’ordine giudiziario (nomine, disciplina, trasferimenti,
reclutamento eccetera) ad un organismo composto maggioritariamente da
eletti della stessa magistratura. Appunto: l’autogoverno della
Magistratura, il che comprende anche alcuni clamorosi conflitti di
interesse. (…)
L’aspetto
disciplinare è quello più evidente e basti vedere quanto siano rari
i casi di magistrati effettivamente sanzionati: una decina di anni fa
ricordo che una statistica attestava che i procedimenti che si
concludevano con la condanna erano poco più dell’1%. Non credo che
le cose siano granché cambiate. E la ragione si capisce subito:
l’eventuale inquisito gode subito della difesa dei membri togati
della corrente cui appartiene. Poi sarà compito di questi trovare i
voti necessari pescandoli fra i membri laici politicamente affini e
scambiando con le altre correnti il proscioglimento del proprio con
quello di qualche altra corrente. Vi sembra una cosa seria?
E
che dire delle norme sul reclutamento? Ma quanti sono i figli,
generi, nipoti, mogli di magistrati in servizio che vincono i
concorsi? E non temiamo conto di amanti e affini vari. Poi dovremmo
fare un discorsino sulle scuole che, dietro profumato compenso,
preparano al concorso e che sono regolarmente rette da qualche ex
magistrato, magari dirigente di qualche corrente. Capita che spesso
qualcuna di queste scuole faccia una parte speciale del corso che
coincide esattamente con una delle due tracce concorsuali. Vi sembra
una cosa seria?
E,
naturalmente, le nomine nei vari uffici sono un mercato permanente.
(…) Poi gli uffici si “pesano” non solo in funzione del peso
della città, ma del potere che ciascuno ha. (…) E che dire delle
sezioni fallimentari? Capite che un tribunale come quello di Trieste
(dove hanno sede le Assicurazioni Generali ed un porto di rilevanza
strategica) conta decisamente di più di Bari o Bologna. Insomma gli
uffici giudiziari non si contano ma si pesano e, in una situazione
del genere, non volete darvi un apposito “manuale Cencelli”?
L’Assemblea
Costituente aveva ancora un piede nell’Ottocento ed immaginava i
magistrati come un ceto notabilare di galantuomini, per cui mai
sarebbero scesi a certi mercati, e pensò che per garantire
l’autonomia della Magistratura dal potere politico (obiettivo
sacrosanto) fosse opportuno affidare il governo dell’ordine agli
stessi magistrati. Ma quel mondo non c’è più.
La
modernizzazione comporta (per usare le categorie di Ruth Benedict) il
passaggio dalle società della vergogna a quelle della colpa. Cioè
dalle società dove la “pubblica estimazione” (come si legge nei
rapporti di polizia) era un elemento decisivo della vita sociale e,
pertanto, c’erano, appunto, i “galantuomini”.
La
considerazione della stima goduta era un elemento rilevantissimo per
concedere un prestito bancario, per decidere l’affidamento di una
carica pubblica, per valutare la credibilità di un teste eccetera.
Ma questo presupponeva città relativamente piccole, ambienti
professionali in cui tutti conoscono tutti, il peso delle grandi
organizzazioni (non importa se politiche o economiche) è limitato se
non sconosciuto e la presenza di codici morali condivisi.
Nella
società contemporanea siamo tutti più o meno avvolti nell’anonimato
metropolitano, l’appoggio di una determinata organizzazione (magari
criminale) pesa molto di più della considerazione sociale, i codici
morali sono differenziati e c’è un diffuso amoralismo, per cui
quello che conta (e sino a un certo punto) è il limite legale.
Appunto, il passaggio dalla società della vergogna, a quello della
colpa legale.
Voglio
fare un esempio tratto da miei ricordi personali. Negli anni
cinquanta e sessanta, mia madre era una modista molto apprezzata in
città, con una clientela abbastanza scelta. Un giorno dei primissimi
sessanta, la moglie di un magistrato acquistò a credito due capi
piuttosto costosi; mia madre segnò sul quadernetto la somma e senza
neppure la firma della cliente (all’epoca non usava).
Il
giorno dopo, il marito si presentò al negozio e saldò l’intera
cifra. A mia madre, che diceva che non c’era bisogno perché la
signora godeva di piena stima, il magistrato replicò che era
necessario perché “Domani lei potrebbe avere una causa di cui io
mi trovi a fare il giudice e io non devo avere nessuna pendenza
economica che possa fare anche solo sospettare una mia preferenza per
una parte”.
Negli
anni Novanta ricordo il caso di un noto magistrato che, per
ristrutturare la sua lussuosa villa contrasse un forte mutuo (500
milioni del tempo, se la memoria non mi inganna) con una banca
compresa nel suo distretto giudiziario. Ed il CSM trovò la cosa
perfettamente normale.
In
questo contesto, il magistrato non è più il notabile “Galantuomo”
che gode di “generale estimazione” ed esercita una delicata
funzione sociale, ma un qualsiasi dipendente pubblico, investito di
un potere da usare più o meno discrezionalmente. Se poi, su tutto
questo, ci caliamo sopra il peso di correnti che, da tendenze
culturali, diventano macchine di potere, le “porte girevoli” che
portano da una Procura o la Presidenza di una Corte d’Appello ad un
seggio parlamentare e, per giunta, la tendenza a regolare i conti
politici nelle aule di giustizia, credo che non ci si possa
meravigliare più di nulla.
Allora
riformare il CSM con il sorteggio? Come curare una polmonite con
l’aspirina. E’ arrivato il momento di ripensare tutta
l’architettura del sistema, abbandonando il principio
dell’autogoverno della magistratura o riducendolo al massimo ad una
presenza elettiva di non più del 10% sul totale. Certo non per
affidare la materia al potere politico, che sarebbe un disastro
ancora peggiore. Ma le soluzioni possono essere diverse. >>
ALDO
GIANNULI
A proprosito dei Giudici, personaggi da sempre sottoposti alle critiche, anche feroci, della società, ecco 2 folgoranti aforismi di personaggi famosi:
RispondiElimina“Molti giudici sono incorruttibili, nulla può indurli a fare giustizia.”
Bertolt Brecht
“Molti giudici sono così fieri della loro incorruttibilità che dimenticano la giustizia.”
Oscar Wilde