venerdì 31 gennaio 2020

I giudici e la modernità

Da quando gli uomini vivono in società organizzate, e quindi il loro comportamento è regolato da norme e leggi, è diventata indispensabile la figura del giudice, che quelle norme deve interpretare ed applicare ai casi di specie.
Un tempo, quando il sovrano assoluto assommava a sé tutti i poteri, il monarca si occupava non solo di promulgare le leggi e di farle rispettare dai sudditi, ma fungeva anche da giudice nei casi di controversia.
Oggi, per fortuna, abbiamo conquistato la divisione dei poteri, per cui un organo fa le leggi (il parlamento), un altro le applica (il governo tramite la pubblica amministrazione) ed un altro dirime le controversie (i giudici che compongono la magistratura). Ma ovviamente, come ognuno può facilmente vedere, i problemi non sono per nulla finiti.
E proprio alle particolari difficoltà che la magistratura sta attraversando nel nostro paese, nonché al mutato ruolo sociale del giudice, è dedicato questo pezzo di Aldo Giannuli, pubblicato sul suo blog nella scorsa estate.
LUMEN


<< Luciano Violante ha detto, fra l’attonito e lo scandalizzato, che mai ci sono stati tanti magistrati inquisiti per ipotesi di reato piuttosto degradanti. (…) Vedremo cosa viene fuori, qui dobbiamo capire le questioni di fondo. E la questione delle questioni è il fallimento del modello costituzionale italiano in tema di “autogoverno della magistratura”.

Siamo l’unico paese che affida tutte le questioni ordinamentali dell’ordine giudiziario (nomine, disciplina, trasferimenti, reclutamento eccetera) ad un organismo composto maggioritariamente da eletti della stessa magistratura. Appunto: l’autogoverno della Magistratura, il che comprende anche alcuni clamorosi conflitti di interesse. (…)

L’aspetto disciplinare è quello più evidente e basti vedere quanto siano rari i casi di magistrati effettivamente sanzionati: una decina di anni fa ricordo che una statistica attestava che i procedimenti che si concludevano con la condanna erano poco più dell’1%. Non credo che le cose siano granché cambiate. E la ragione si capisce subito: l’eventuale inquisito gode subito della difesa dei membri togati della corrente cui appartiene. Poi sarà compito di questi trovare i voti necessari pescandoli fra i membri laici politicamente affini e scambiando con le altre correnti il proscioglimento del proprio con quello di qualche altra corrente. Vi sembra una cosa seria?

E che dire delle norme sul reclutamento? Ma quanti sono i figli, generi, nipoti, mogli di magistrati in servizio che vincono i concorsi? E non temiamo conto di amanti e affini vari. Poi dovremmo fare un discorsino sulle scuole che, dietro profumato compenso, preparano al concorso e che sono regolarmente rette da qualche ex magistrato, magari dirigente di qualche corrente. Capita che spesso qualcuna di queste scuole faccia una parte speciale del corso che coincide esattamente con una delle due tracce concorsuali. Vi sembra una cosa seria?

E, naturalmente, le nomine nei vari uffici sono un mercato permanente. (…) Poi gli uffici si “pesano” non solo in funzione del peso della città, ma del potere che ciascuno ha. (…) E che dire delle sezioni fallimentari? Capite che un tribunale come quello di Trieste (dove hanno sede le Assicurazioni Generali ed un porto di rilevanza strategica) conta decisamente di più di Bari o Bologna. Insomma gli uffici giudiziari non si contano ma si pesano e, in una situazione del genere, non volete darvi un apposito “manuale Cencelli”?

L’Assemblea Costituente aveva ancora un piede nell’Ottocento ed immaginava i magistrati come un ceto notabilare di galantuomini, per cui mai sarebbero scesi a certi mercati, e pensò che per garantire l’autonomia della Magistratura dal potere politico (obiettivo sacrosanto) fosse opportuno affidare il governo dell’ordine agli stessi magistrati. Ma quel mondo non c’è più.

La modernizzazione comporta (per usare le categorie di Ruth Benedict) il passaggio dalle società della vergogna a quelle della colpa. Cioè dalle società dove la “pubblica estimazione” (come si legge nei rapporti di polizia) era un elemento decisivo della vita sociale e, pertanto, c’erano, appunto, i “galantuomini”.

La considerazione della stima goduta era un elemento rilevantissimo per concedere un prestito bancario, per decidere l’affidamento di una carica pubblica, per valutare la credibilità di un teste eccetera. Ma questo presupponeva città relativamente piccole, ambienti professionali in cui tutti conoscono tutti, il peso delle grandi organizzazioni (non importa se politiche o economiche) è limitato se non sconosciuto e la presenza di codici morali condivisi.

Nella società contemporanea siamo tutti più o meno avvolti nell’anonimato metropolitano, l’appoggio di una determinata organizzazione (magari criminale) pesa molto di più della considerazione sociale, i codici morali sono differenziati e c’è un diffuso amoralismo, per cui quello che conta (e sino a un certo punto) è il limite legale. Appunto, il passaggio dalla società della vergogna, a quello della colpa legale.

Voglio fare un esempio tratto da miei ricordi personali. Negli anni cinquanta e sessanta, mia madre era una modista molto apprezzata in città, con una clientela abbastanza scelta. Un giorno dei primissimi sessanta, la moglie di un magistrato acquistò a credito due capi piuttosto costosi; mia madre segnò sul quadernetto la somma e senza neppure la firma della cliente (all’epoca non usava).

Il giorno dopo, il marito si presentò al negozio e saldò l’intera cifra. A mia madre, che diceva che non c’era bisogno perché la signora godeva di piena stima, il magistrato replicò che era necessario perché “Domani lei potrebbe avere una causa di cui io mi trovi a fare il giudice e io non devo avere nessuna pendenza economica che possa fare anche solo sospettare una mia preferenza per una parte”.

Negli anni Novanta ricordo il caso di un noto magistrato che, per ristrutturare la sua lussuosa villa contrasse un forte mutuo (500 milioni del tempo, se la memoria non mi inganna) con una banca compresa nel suo distretto giudiziario. Ed il CSM trovò la cosa perfettamente normale.

In questo contesto, il magistrato non è più il notabile “Galantuomo” che gode di “generale estimazione” ed esercita una delicata funzione sociale, ma un qualsiasi dipendente pubblico, investito di un potere da usare più o meno discrezionalmente. Se poi, su tutto questo, ci caliamo sopra il peso di correnti che, da tendenze culturali, diventano macchine di potere, le “porte girevoli” che portano da una Procura o la Presidenza di una Corte d’Appello ad un seggio parlamentare e, per giunta, la tendenza a regolare i conti politici nelle aule di giustizia, credo che non ci si possa meravigliare più di nulla.

Allora riformare il CSM con il sorteggio? Come curare una polmonite con l’aspirina. E’ arrivato il momento di ripensare tutta l’architettura del sistema, abbandonando il principio dell’autogoverno della magistratura o riducendolo al massimo ad una presenza elettiva di non più del 10% sul totale. Certo non per affidare la materia al potere politico, che sarebbe un disastro ancora peggiore. Ma le soluzioni possono essere diverse. >>

ALDO GIANNULI

1 commento:

  1. A proprosito dei Giudici, personaggi da sempre sottoposti alle critiche, anche feroci, della società, ecco 2 folgoranti aforismi di personaggi famosi:

    “Molti giudici sono incorruttibili, nulla può indurli a fare giustizia.”
    Bertolt Brecht

    “Molti giudici sono così fieri della loro incorruttibilità che dimenticano la giustizia.”
    Oscar Wilde

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