Le
differenze tra il nazionalismo di destra e quello di sinistra,
secondo Carlo Formenti (quarta ed ultima parte). LUMEN
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17 - Lo scetticismo nei confronti della nazione va di pari passo con
lo scetticismo nei confronti dello Stato. Il ripudio delle esperienze
storiche del socialismo reale e l’ideologia “orizzontalista”
che, dopo la svolta libertaria dei nuovi movimenti, accomuna tutte le
componenti della sinistra radicale, hanno fatto sì che il vecchio
principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può
essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi
subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo Stato in
quanto tale non può più essere usato.
Per
questa ideologia neo-anarchica lo Stato, qualsiasi classe o forza
politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque il nemico del
popolo; di conseguenza, il concetto stesso di presa del potere è
sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra
alla logica della conquista, la speranza di costruire un’alternativa
globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello
Stato borghese lascia il posto a pratiche di contestazione
permanente, alle manifestazioni sistematiche di sfiducia nei
confronti del potere, a una sorta di democrazia dell’opinione che
ha come protagonista un popolo che diffida ma non aspira a governare.
Tale
atteggiamento rispecchia un punto di vista che non mira ad abolire il
capitalismo bensì, nella migliore delle ipotesi, ad addomesticarne
la ferocia. Ne è prova evidente il ruolo svolto da Terzo settore,
ONG e volontariato, i quali collaborano attivamente allo
smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordo-liberale
del “capitalismo sociale”. Ne è inoltre prova quel patetico
surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia
“bene-comunista”, che invita a voltare le spalle al comunismo
statale, a immaginare nuove istituzioni estranee alla logica della
sovranità e al principio di autorità, che dà per scontato infine
che un partito rivoluzionario che pretenda di essere autonomo dai
movimenti non solo non serve, ma è controproducente.
Siamo
dunque di fronte a discorsi che assumono come obiettivo una radicale
spoliticizzazione della società civile. Come se non bastasse, a
evidenziare la sostanziale convergenza fra liberalismo e
“bene-comunismo” è lo slogan, in sintonia con le tesi
dell’economista liberale Elinor Ostrom, secondo cui la gestione dei
beni comuni non dovrebbe essere ”né pubblica né privata”: si
tratta d’una doppia negazione apparente, nel senso che la vera
negazione è solo quella che ripudia il pubblico, mentre la negazione
del privato è mistificatoria, ove si consideri che, una volta
sottratto al controllo pubblico, qualsiasi bene è inesorabilmente
destinato a diventare privato.
18
- Le ideologie criticate nelle tesi precedenti possono essere
sintetizzate con la formula “cambiare il mondo senza prendere il
potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il
mio regno non è di questo mondo”, e la storia insegna che il detto
cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha
particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra
potenti e sudditi... Del resto, nella formulazione gramsciana, le
classi subordinate non “prendono” il potere, si fanno Stato; il
punto non è dunque abolire lo Stato in quanto ente distinto dalla
società, bensì abolirne il carattere di classe.
Questo
è il programma massimo, ma anche in situazioni in cui conservava il
proprio carattere di classe, lo Stato si è dimostrato capace di
funzionare come strumento di emancipazione: dopo la crisi del 1929,
ha interpretato la reazione di autodifesa della società civile nei
confronti di un sistema capitalistico senza regole, tornando a
governare terra, lavoro e capitale; dal 1930 al 1980 la logica del
mercato ha dovuto piegarsi alle esigenze di ridistribuzione sociale
del reddito e gli Stati-nazione non apparivano impotenti di fronte
agli interessi del capitalismo globale.
Il
vero problema quindi – appurato che il potere politico può, a
determinate condizioni, garantire reali miglioramenti delle
condizioni di lavoro e di vita dei cittadini – non è Stato sì
Stato no, bensì quale tipo di organizzazione del potere può
favorire la transizione a una società post-capitalista. Prima di
affrontare tale nodo, occorre prendere congedo dal mito
dell’estinzione dello Stato, mito che si basa su una visione
salvifico-religiosa di un futuro in cui la società sarà liberata da
qualsiasi tipo di conflitto. Una società del genere non può
esistere né mai esisterà, perché anche dopo l’eliminazione delle
classi sociali continueranno a sussistere contraddizioni e quindi
conflitti, e perché anche la “semplice amministrazione delle cose”
(…) non potrà fare a meno di specialismi e gerarchie burocratiche.
19
- Le rivoluzioni bolivariane, assieme al concetto di “socialismo
del XXI secolo” da esse introdotto, hanno indotto i marxisti
latino-americani a riprendere lo storico dibattito sull’alternativa
riforme/rivoluzione. Engels e la Luxemburg avevano by-passato tale
contrapposizione sostenendo che nulla impedisce alle classi
subalterne di conquistare il potere attraverso riforme radicali, a
condizione che tali riforme non siano fini a se stesse bensì un
mezzo per arrivare alla rivoluzione socialista.
Ora
è evidente che nessuna delle rivoluzioni in questione può essere
definita socialista: pur avendo introdotto costituzioni avanzate che
prevedono la possibilità del superamento dell’economia capitalista
e delle istituzioni politiche borghesi, i governi bolivariani di
Venezuela, Bolivia ed Ecuador non hanno abolito la proprietà
privata, né hanno avviato un processo di trasformazione radicale
della matrice produttiva. Tuttavia la dicotomia secca fra socialismo
e capitalismo pecca di euro-centrismo. Si tratta piuttosto di capire
in quale misura queste rivoluzioni hanno messo in moto un processo di
democratizzazione dello Stato e creato i presupposti per
l’indipendenza nazionale di questi Paesi dall’imperialismo
occidentale.
Questo
perché non va dimenticato che la lotta di classe in certe
circostanze assume forma geo-politica, e che il conflitto fra nazioni
del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un
conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è
più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione
nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione
nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende
da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura
contingenti e imprevedibili.
20
- La novità storica è che oggi, a causa degli effetti che la
rivoluzione liberale degli ultimi decenni ha avuto sulla composizione
di classe all’interno dei singoli Paesi e sulle relazioni di
subordinazione fra centri e periferie, sorte anche nel campo
capitalista occidentale, nemmeno eventuali rivoluzioni anti-liberiste
all’interno di tale campo potrebbero evitare di attraversare una
fase nazional-democratica e riformista.
In
primo luogo, perché è da un secolo abbondante che il proletariato
occidentale non vuole fare la rivoluzione, ma preferisce seguire le
forze politiche che gli promettono miglioramenti graduali. Inoltre,
dal momento che tutti i mercati del lavoro mantengono carattere
locale, le solidarietà politico-sociali devono essere costruite su
basi geografiche (ma non etniche!), il che significa:
1)
che la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti
scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di
una lotta anti-capitalista;
2)
che anche qui in Occidente i singoli Stati-nazione sono chiamati a
rivendicare la propria autonomia per rendere possibili politiche di
ridistribuzione e tutela dei diritti sociali;
3)
che lo smarrimento delle identità e la forma populista del conflitto
fanno sì che la lotta anticapitalista si presenti sotto le spoglie
neo-giacobine di lotta dei cittadini contro l’uso capitalistico
dello Stato (il cittadino ribelle rimpiazza il proletario).
Ecco
perché tutti i programmi politici dei movimenti populisti di
sinistra (da Sanders a Corbyn, da Mélenchon a Podemos) sono
programmi “riformisti” che non presentano chiari caratteri
anticapitalisti: ricondurre i settori strategici dell’economia
(banche, trasporti, comunicazione, tecnologie avanzate ecc.) sotto
mano pubblica, rinazionalizzare i servizi pubblici (sanità,
trasporti, educazione ecc.), piena occupazione, sostegno alle piccole
medie imprese ecc.
Si
tratta di programmi che cercano il sostegno di blocchi sociali
maggioritari e trasversali e che, qualche decennio fa, sarebbero
stati definiti socialdemocratici, ma oggi, nell’epoca del
totalitarismo liberal-liberista, suonano sovversivi, nella misura in
cui possono rappresentare un primo passo verso la trasformazione
delle lotte del cittadino ribelle in lotta di classe.
21
- Nelle attuali condizioni storiche, una rivoluzione
nazional-popolare che si ponga l’obiettivo di conquistare il potere
per avviare il processo costituente di un regime politico democratico
non appare meno difficile da realizzare di quanto non lo siano state
le rivoluzioni socialiste del passato.
Oggi
come ieri essa può avvenire solo in presenza di una profonda crisi
dello Stato, della società e dell’economia; di più: può avvenire
solo se a tali condizioni si aggiunge una diffusa sensazione di
insicurezza, paura e minaccia, la sensazione che un cambiamento
radicale sia necessario per difendere il proprio mondo vitale. Oggi
come ieri il verificarsi di tali condizioni non è prevedibile né
programmabile, si potrebbe dire che la rivoluzione è sempre matura e
non lo è mai, o che la rivoluzione avviene dove e quando avviene. >>
CARLO
FORMENTI
Non ci ho capito un accidente! E pensare che mi ero rallegrato di leggere l'ultima puntata (nelle ultime due avevo trovato infatti qualcosa di comprensibile e anche di mio gusto). Non so cosa voglia davvero Formenti, non l'ho capito. Prendiamo la "piena occupazione" - cosa è? Una giornata lavorativa di 8-10 ore che frutti al "lavoratore" (anche questa parola vecchia, forse converebbe dire oggi semplicemente persona) una paga che permetta a lui e alla sua famiglia una "vita dignitosa" come sta scritto nella gloriosa costituzione postbellica (in cui secondo il Vaticano bisognava inserire anche l'indissolubilità del matrimonio)? Quando l'economia marcia c'è forse lavoro per tutti (forse, non è sicuro). Come garantire a tutti (a tutti!) una vita tranquilla e dignitosa? Come definire poi questa vita (di cosa ha bisogno davvero la gente, anzi tutta la collettività - lo Stato semisocialista attuale garantisce effettivamente già ora molte cose impensabili un tempo - un indigente ha diritto a tutte le cure immaginabili e costosissime (che arricchiscono industrie farmaceutiche e medici). Altro che pane e giochi! Ma non sembra funzionare (basti pensare ai milioni di disoccupati e poveri in Italia, la settima o ottava potenza industriale del mondo!). Cosa non funziona, che fare? Le parole - avrei voglia di dire: le chiacchiere di Formenti non mi aiutano, sono astrazioni che pochi capiscono. Se in occidente si lavora fino a giugno per lo Stato abbiamo già un 50% di socialismo (soffocante). Lo Stato dilapida, non ha mentalità imprenditoriale ed è sempre più invadente. Certo che gestire 61 milioni di persone (tanti sarebbero in Italia) o i 6-700 milioni di cittadini dell'UE, o il miliardo e passa di Cinesi e Indiani e i prossimi 2 miliardi di Africani (4 miliardi a fine secolo) sarà un'impresa gigantesca (ma forse l'innovazione tecnologica sempflificherà la questione - come sembra sia già avvenuto in Cina e presto - inevitabilmente - avverrà da noi).
RispondiEliminaTutti i santi giorni leggo nei giornali cose interessanti. Anche nei blog (io ne frequento tre o quattro e mi tengo lontano da Facebook o da Twitter) si leggono continuamente cose intelligenti, condivisibili (come i commenti giornalieri di Pardo). Troppi i discorsi, le idee, le proposte spesso anche contraddittori. Un eterno "surplace", tutto resta più o meno come prima, come sempre. Inoltre ormai tutti vogliono dire la propria (anche il sottoscritto) e si finisce nella cacofonia.
Come uscire da questa situazione di disagio? Intanto staccando la spina, almeno per qualche tempo, e scegliendosi poi magari un libro e qualche interlocutore con cui è possibile ragionare o semplicemente scambiare qualche idea. Diceva Ortega: uno con una sola idea in testa diventa pazzo (sarà un fissato!). Ma centomila idee non possono che creare confusione. Sciascia, deluso della politica e forse della vita, diceva: non ci resta che la letteratura - per capire noi stessi. All'epoca mi sembrò una resa, rimasi deluso. Ma adesso lo penso anch'io. Comincerò col rileggere La città del sole di Campanella. Perché proprio questo testo ora? A cosa puo servirmi? Mah, una spiegazione ci sarà. La città del sole è la la società perfetta, quella forse a cui tende Formenti. In un certo senso è un testo attuale!
<< Se in occidente si lavora fino a giugno per lo Stato abbiamo già un 50% di socialismo (soffocante). Lo Stato dilapida, non ha mentalità imprenditoriale ed è sempre più invadente. >>
EliminaPurtroppo è così, ed è per questo che il culto dello Stato onnipresente, vagheggiato dai socialisti duri e puri, è un po' patetico.
Già è troppo l'attuale 50 e 50, figuriamoci un rapporto maggiore.
Ma queste cose, anche in democrazia, raramente sono frutto di una scelta ponderata; spesso sono solo le conseguenze a posteriori di tutta una serie di decisioni casuali.
Vedremo, con la prossima crisi energetico-ambientale, se finiremo per andare verso 'più stato' o verso 'meno stato'.
Non è una previsione così ovvia.
Caro Sergio, dopo aver parlato seriosamente di nazionalismo per 4 settimane, forse è il momento di concederci un sorriso, con questo ironico pensiero di Bill Elliott:
RispondiElimina<< Il paradiso è un poliziotto inglese, un cuoco francese, un tecnico tedesco, un amante italiano: il tutto organizzato dagli svizzeri.
L'inferno è un cuoco inglese, un tecnico francese, un poliziotto tedesco, un amante svizzero, e l'organizzazione affidata agli italiani. >>