L’immagine
della crocefissione di Gesù, è senza dubbio il simbolo fondamentale
della religione cristiana, anche più della resurrezione (curioso, no
?). Ma, come spesso succede nelle faccende di religione, si tratta di
una mera ricostruzione (ex post) elaborata dalla Chiesa, che non
regge assolutamente ad una verifica storica approfondita. Ce ne parla
Luigi Cascioli in questo brano, molto interessante e documentato,
tratto dal suo libro “La favola di Cristo”.
LUMEN
<<
La croce che la Chiesa ci mostra come apparato sul quale morì Gesù
non ha nulla
a che vedere con
lo strumento di morte usato dai romani per i condannati alla
crocifissione.
La
croce dei romani era un’impalcatura di legno costituita da una
trave trasversale, chiamata patibolum,
che appoggiava le sue estremità su due pali, stipes,
fissati in terra che terminavano ognuno a forcina, crux.
La crocifissione consisteva nel legare le braccia del condannato alla
traversa. Questo tipo di intelaiatura, usata per crocifiggere –
cruci
figere,
«fissare alla croce» –, era in tutto uguale a quello che veniva
usato per le impiccagioni, eccetto che nella lunghezza delle forcine
che, se nel primo caso doveva permettere al condannato di appoggiare
i piedi per terra, nel secondo doveva tenerlo sollevato in modo da
farlo restare appeso.
La
morte, che nell’impiccagione era pressoché immediata, nella
crocifissione era preceduta da un supplizio che durava dai tre ai
quattro giorni. Il condannato entrava in agonia quando, sfinito,
piegava le gambe, abbandonandosi al proprio peso. La morte avveniva
normalmente per il soffoca-mento causato dalla testa, che, pendendo
in avanti, provocava l’occlusione della trachea. In Grecia questo
tipo di esecuzione fu usato soltanto in casi di eccezionale gravità,
finché, ritenendola troppo atroce, fu definitivamente soppressa.
Cicerone, parlando di essa, la definì un supplizio così crudele da
non esistere nessun crimine che potesse giustificarne l’applicazione.
La
prassi di dare la morte tramite crocifissione, originaria
dell’Oriente semitico e diffusasi poi in tutto il mondo arabo, i
romani l’appresero dai cartaginesi durante le guerre puniche. I
primi scrittori romani che la menzionarono furono Maccio Plauto
(255/251-184 av. n. e.) e Quinto Ennio (239-169 av. n. e.) i quali,
tra le altre cose, ci riferiscono che, considerando l’atrocità
delle sofferenze, erano ritenuti atti di clemenza spezzare gli
stinchi al condannato, per abbreviargli la durata del supplizio, e
permettere ai familiari di bagnare le labbra al moribondo durante
l’agonia con una spugna imbevuta di un liquido amaro estratto da
radici e erbe aromatiche. Per evitare che il condannato fosse
sottratto, veniva piantonato da due legionari, fino a quando
sopraggiungeva la morte. Per essere certi che il decesso fosse
avvenuto, era consuetudine trafiggere il cuore del crocefisso con una
lancia, prima di dare l’autorizzazione a staccare il corpo dalla
croce.
La
struttura originaria della croce, formata da due forche e da una
trave trasversale, subì una forte semplificazione in seguito alla
rivolta di Spartacus
nella
quale furono crocefissi 7.000 schiavi ribelli (71 av. n. e.),
semplificazione che ridusse il tutto a una sola forca, sulla quale il
condannato veniva legato per le braccia alle due estremità
divergenti.
La
crocifissione, riservata all’inizio soltanto agli schiavi, fu in
seguito estesa anche ai disertori e ai sovversivi che causavano
disordini tendenti a destabilizzare le istituzioni dello Stato. Come
conseguenza, la provincia romana dove maggiormente venne applicata la
crocifissione fu la Palestina, a causa delle continue rivolte
promosse dal partito nazionalista giudaico. Stando a quanto risulta
da documenti riguardanti l’era messianica, anche se non è
affermato in maniera chiara ed esplicita, la crocifissione fu
ulteriormente semplificata, riducendo la forca a un semplice palo,
per eliminare la difficoltà che comportava la ricerca di un ramo
forcuto quando le crocifissioni erano numerose, co-me avvenne nella
rivolta contro Erode, che comportò 2.000 esecuzioni, e nella guerra
giudaica, in cui le crocifissioni, arrivando a una media di 500 al
giorno, dovettero a un certo punto essere sospese, secondo quanto
dice Giuseppe Flavio, per mancanza di legno.
Come
sia stato crocefisso Cristo (Giovanni) poco ci interessa, anche se
negli Atti
degli apostoli,
stando a quanto viene fatto asserire allo stesso Paolo di Tarso,
venne legato a un palo (stauros).
Una cosa comunque è certa: non fu fissato a una croce come quella
che ci mostra la Chiesa, e tantomeno furono usati dei chiodi, dal
momento che questi sono escludersi nella maniera più assoluta, sia
perché mai nominati nella storia delle crocifissioni, sia perché il
loro uso non avrebbe avuto nessuna giustificazione,
essendo le braccia legate con una corda e i piedi appoggiati al
suolo. Soltanto il cinismo dei preti – quel cinismo che hanno
dimostrato nelle torture operate nelle inquisizioni – poteva
aggiungere a un supplizio già tanto atroce un’ulteriore
sofferenza!
La
croce latina, che la Chiesa sostiene essere stata utilizzata per la
crocifissione di Gesù era del tutto ignorata dai romani, esistendo
in quell’epoca soltanto due tipi di croce: la croce fatta a X
e la croce, detta greca,
fatta a forma di + , ossia costituita da quattro vettori di uguale
lunghezza.
La
prima apparizione di quella che fu poi chiamata la croce latina –
cioè la croce avente il vettore inferiore più lungo degli altri –
la troviamo nella liturgia cristiana soltanto alla fine del IV sec.
n. e., e senza il Cristo crocefisso sopra.
Quando
negli anni intorno al 160 n. e. uscirono i primi Vangeli
canonici, i loro redattori,
lontani ancora dal concepire la croce latina, trattarono la
crocifissione di Cristo nel sottinteso che essa fosse stata eseguita
secondo il sistema da tutti conosciuto, che era quello basato su un
patibolum appoggiato
su due stipes terminanti
a forcina. Le prime croci con il Cristo crocefisso sopra, apparse
sol-tanto alla fine del V sec. n. e., oltre ad avere una struttura a
forma di T ,
presentavano un Gesú non inchiodato, ma legato, e con il volto
rivolto al cielo in un’espressione gioiosa.
Questa
espressione esultante, che esprimeva ancora quel concetto esseno, che
voleva che si affrontasse la morte sorri-dendo davanti ai carnefici,
fu trasformata in un atteggiamento di dolore allorché i teologi
cristiani decisero di mettere in risalto le sofferenze patite da
Gesú, quelle sofferenze che, se precedentemente non erano state
prese in considerazione, era dipeso dal fatto che fino allora la
Chiesa aveva ancora seguito il concetto dei culti dei misteri, che
facevano dipendere la salvezza degli uomini non dal sacrificio e
dalle sofferenze patite dal sotèr
prima di essere ucciso, ma
esclusivamente dalla sua resurrezione. Fu in seguito a questa
decisione, presa certamente per conquistare le masse attraverso
l’emotività che poteva produrre il dolore, che i costruttori di
questa nuova religione decisero di tra-passare le mani e i piedi del
loro salvatore, e gli fecero reclinare la testa in un’espressione
di estrema sofferenza, come risulta dalle pitture della prima metà
del VI sec. n. e.
Come
conseguenza, per dare risalto a questo nuovo aspetto della
«passione», aggiunsero nei Vangeli
tutte quelle frasi che
misero in bocca a Gesú stesso prima di affrontare la morte, quali:
«la mia anima è triste fino alla morte [...]»; «Padre mio, se è
possibile passi da me questo calice», etc. Per dimostrare ancora
quanto i Vangeli non
siano altro che il risultato di sovrapposizioni e correzioni, dirò
che la frase riportata sul Vangelo
di Luca (22, 44), in cui si
dice che Gesú era tanto in preda all’angoscia che il suo sudore
divenne come gocce di sangue, fu aggiunta nel VII sec. n. e. in
sostituzione di una prima versione, nella quale si affermava che,
oltre alle gocce di sudore, di vero
sangue erano anche le
lacrime che aveva Gesù versato nel pianto che aveva fatto nell’Orto
degli ulivi, pianto che poi fu tolto perché considerato indegno per
un dio.
Il
primo approccio che i cristiani ebbero con il simbolo della croce –
croce che non aveva nulla a che vedere con quella usata come
strumento di morte –, avvenne quando fecero propria la croce
gallica, dopo che Costantino l’adottò, in seguito alla vittoria
riportata sui galli, come emblema dell’impero, facendola
raffigurare con la sua forma a X
sugli scudi dei soldati,
sui vessilli e sulle monete. Per via di quel sodalizio
politico-religioso che si era instaurato tra l’impero e la nascente
Chiesa in seguito al concilio di Nicea (325), i cristiani assunsero
anche loro la croce gallica come loro emblema, per simboleggiare la
vittoria che avevano riportato sul “paganesimo”.
Siccome
la croce gallica aveva la stessa forma della X
che i cristiani avevano già
incorporato nel loro simbolo – simbolo che avevano ricavato dalle
prime due lettere della parola greca Χριστος (Christos)
–, perché potessero aggiungerla nel disegno, in maniera che questa
non sparisse nella sovrapposizione, la trasformarono in una croce
greca, tracciando una linea orizzontale sul piede della X
, così da formare nel
complesso del disegno quel monogramma che risulta dai graffiti del IV
sec. n. e. (…)
Con
questo graffito così astruso e complesso andarono avanti per circa
mezzo secolo, cioè fino a quando, negli anni 380-390 n. e., tolta la
X a
scopo semplificativo, lasciarono soltanto la croce greca a +
, assumendo come definitivo
il simbolo che tuttora appare nella liturgia ecclesiastica.
Trasformata così in croce greca quella che rappresentava per loro la
vittoria sul “paganesimo”, l’esposero al pubblico, mettendola
sugli altari, dove rimase in forma fissa fino a quando, in seguito a
un’autorizzazione di papa Innocenzo I (401-417 n. e.), che
permetteva di portarla in processione, le allungarono il vettore
inferiore perché fosse innalzata sopra le teste dei fedeli.
Siamo
agli inizi del V sec. n. e., la croce latina era stata realizzata,
ma, per quanto possa apparire incredibile, i cristiani non avevano
ancora pensato di associarla alla crocifissione, che ancora
sostenevano secondo il sistema romano che voleva il condannato legato
al patibolo – come risulta dalle tante raffigurazioni dell’epoca.
Che la croce latina avesse conservato per tutto il V secolo soltanto
un valore simbolico, che nulla aveva a che vedere con la
crocifissione, viene dimostrato, oltre che dal fatto che Gesú veniva
legato al supplizio secondo il sistema romano, anche dal significato
che davano a essa, che era esclusivamente quello politico attribuito
da Costantino, tanto che colui che la portava in processione, pur
appartenendo al clero, veniva chiamato con il termine militare di
dragonianus.
Se,
in seguito, l’impalcatura della crocifissione fu trasformata in un
attrezzo a forma di T ,
ciò dipese dalla decisione che presero i teologi cristiani di
presentare il Cristo con le braccia aperte, in una posizione che
esprimesse, attraverso un simbolico abbraccio rivolto a tutta
l’umanità, un concetto di redenzione universale. Dovette passare
un secolo prima che la crocifissione fosse associata alla croce
latina, la cui intromissione non eliminò comunque nel mondo
cristiano la croce a T ,
che continuò a essere riprodotta in molti quadri fino al 1500.
Le
prime immagini riproducenti Gesù fissato alla croce latina risalgono
al VI sec. n. e., ma, in esse, come appare dalle pitture dell’epoca,
Gesù risultava ancora con le braccia legate al patibolo con le corde
e i piedi appoggiati al suolo, secondo il sistema usato nella
crocifissione romana. Come sia avvenuto il passaggio dalla croce a
forma di T a
quella latina si disconosce, anche se qualcuno sostiene che potrebbe
essere stato determinato dal primo pittore che ebbe l’idea di
disegnare una prolunga sopra la croce per avere un supporto su cui
istallare quella scritta JNRI,
che infatti non appare in nessuna delle crocifissioni precedentemente
eseguite, sia secondo il sistema classico romano che con la croce a T
. I chiodi, fino allora
ignorati, apparirono, insieme al capo di Gesù reclinato in
un’espressione di dolore, soltanto nel VI sec. n. e.
Raggiunto
cosí l’“insetto perfetto” dopo questa lunga metamorfosi, tutti
i crocifissi furono riprodotti con le mani e i piedi trafitti dai
chiodi per esaltare quel dolore della «passione» di cui ho parlato,
dolore che fu ancora suffragato da alcune espressioni che aggiunsero
ai Vangeli,
quale quella «Padre mio, allontana da me questo calice», che misero
in bocca a Gesù nell’Orto degli ulivi, e quell’altra, «Padre
mio, perché mi hai abbandonato», che gli fecero pronunciare prima
di morire – la quale, però, esprimendo uno stato di disperazione
che non si addiceva a un salvatore che era morto per dare speranza
agli uomini, fu in seguito cambiata (sembra nel IX sec.), nel Vangelo
di Luca con «padre mio,
nelle tue mani raccomando il mio spirito», e in quello di Giovanni
con «tutto è compiuto».
Altre
modifiche furono poi apportate alla crocifissione quando si operarono
le prime sculture, come quella dell’applicazione di un sostegno per
appoggiarvi i piedi, che si dimostrò indispensabile, dal momento
che, avendo eliminato l’appoggio del terreno, risultò evidente che
un corpo non poteva restare attaccato alla croce soltanto per i
chiodi.
La
croce, adottata inizialmente come simbolo della vittoria riportata
sui “pagani” ed elevata in seguito come immagine delle sofferenze
sopportate da Gesú nella «passione», ebbe un rapido successo
presso i seguaci come simbolo cardine nel loro culto. Per divulgarne
la venerazione a essa furono dedicate chiese e solenni cerimonie. Nel
giro di pochi anni dall’astrattismo di simbolo si passò a una
realtà di fatto così concreta da permettere ai falsari di sostenere
che durante gli scavi eseguiti sul Calvario fosse stata ritrovata la
croce a forma latina sulla quale era stato crocifisso Gesù. (…)
[E]
per rendere universale il culto della croce, vennero diffusi ovunque
pezzi del suo legno che, provenienti da Gerusalemme, furono venerati
come reliquie.
Tramite
un recente sondaggio è stato dimostrato che, se si riunissero tutte
le schegge di legno attribuite alla croce di Cristo che tuttora si
trovano sparse per il mondo cristiano, si otterrebbero circa tre
metri cubi di legno, tre
metri che risulterebbero formati, per giunta, dai legni
piú disparati, quali
quelli della quercia, del cedro, del ciliegio, e perfino del fico.
(…) Sono i miracoli della fede ! >>
LUIGI CASCIOLI