Si conclude qui il post di Marco Pierfranceschi sul concetto di normalità e di variabilità sociale. (seconda ed ultima parte).
LUMEN
LUMEN
<< Tornando al discorso iniziale, da dove nasce l’idea che la ‘normalità’ sia una condizione talmente desiderabile da renderla un totem, al punto da volerla forzatamente estendere all’intera popolazione? Da quale bias cognitivo emerge il Bias Culturale, promosso da partiti di destra e da molti integralismi religiosi, che bolla tali ‘devianze’ come difetti da dover ricondurre nell’alveo di una non meglio definita ‘normalità’? Nel momento in cui vengono diffuse idee in contrasto con le evidenze fattuali è chiaramente in atto un ‘processo di inganno’ .
Una buona parte dei processi di inganno si fonda su paure irrazionali. Una paura profonda è quella di essere noi stessi dei ‘devianti’, o di poterlo diventare, o che possano diventarlo persone a noi care, che dipendono da noi, o dalle quali noi stessi dipendiamo. Questo è conseguenza del fatto che le ‘atipicità’ comportano un bagaglio di difficoltà per gli individui che ne sono portatori, e nessuno desidera aggiungere ulteriori problemi a quella che è già la normale fatica di vivere. Il fatto stesso che i caratteri ‘atipici’ vengano espressi nel pool genetico in percentuali ridotte evidenzia la difficoltà che essi generano agli individui che ne sono portatori, riducendone l’aspettativa di vita ed il successo riproduttivo.
La normalità, ossia l’assenza di una qualsiasi eccezionalità, rappresenta quindi una ‘comfort-zone’ all’interno della quale le persone trovano rifugio da un’esistenza che non manca di produrre fatica e stress. L’idea di perdere tale condizione privilegiata, o che ciò accada ad una persona cara (trascinando con sé, nel disagio, l’intero nucleo familiare), è una preoccupazione diffusa. Oltre al fatto che forme estreme di scostamento dallo standard possono ben rientrare nella casistica delle patologie.
Se la comparsa di individui portatori di caratteristiche atipiche e svantaggiose ci pare ingiusta, va considerato che i processi di selezione naturale non sono modellati da esigenze etiche. In natura si producono spontaneamente individui con caratteristiche differenti, ed è solo la maniera in cui queste specificità riescono ad adattarsi alla situazione contingente a dettare la sopravvivenza o meno, ed il successo riproduttivo, del singolo individuo. Questo processo, utile e necessario a livello di gruppi e specie, comporta che molte delle ‘eccezionalità’ che si generano spontaneamente finiscano col tradursi in insuccessi, non di rado con conseguenze tragiche per i singoli individui.
Ad aggiungere ulteriore complicazione c’è l’impossibilità di tracciare un confine netto tra le ‘eccezionalità’ destinate al successo e quelle che conducono a forme di autodistruzione. A seconda del contesto sociale, o culturale, in cui vengano a manifestarsi, determinate caratteristiche fisiche e/o mentali possono condurre all’ascesa sociale o alla prematura scomparsa. Forme di irrequietezza intellettuale possono sbocciare in un talento artistico apprezzato da molti, o in una leadership carismatica, con conseguente successo sociale o, per ragioni totalmente fuori dal nostro controllo, deviare verso l’abuso di sostanze psicotrope (alcol e droghe) e addirittura condurre al suicidio.
In conseguenza di ciò, oltre alla naturale fascinazione, esiste un istintivo ed irrazionale ‘fastidio’ nei confronti degli individui con caratteristiche di eccezionalità. Fastidio che si aggrava nel caso di tratti platealmente svantaggiosi, come le disabilità fisiche o mentali, stante il riflesso istintivo ed irrazionale a temere di perdere ciò che riteniamo parte integrante del nostro essere individui, ovvero la salute fisica e mentale. (...)
Va poi considerato un ulteriore fattore di scala, generato dai processi di massificazione che hanno operato negli ultimi secoli. In una piccola comunità, il cui obiettivo è la sopravvivenza spicciola, ogni individuo trova il modo di rendersi utile, anche nella sua diversità. Per contro, in una comunità allargata e scarsamente differenziata le caratteristiche ‘eccezionali’ finiscono col generare più problemi che vantaggi, ai singoli ed alla collettività. Da ultimo, i processi industriali hanno contribuito a mettere in buona luce l’uniformità, in contrasto con l’eterogeneità.
A partire dalla rivoluzione industriale si è compreso come solo i processi ‘normalizzati’ consentano di generare i massimi livelli di produzione, attraverso le economie di scala. Costruire un singolo componente ha un costo che può essere quasi totalmente ammortizzato nel caso se ne producano migliaia, attraverso la realizzazione di processi standardizzati. Una singola vite può essere realizzata al tornio, da un operaio specializzato, e costerà in proporzione al tempo/persona richiesto. Una vite identica può essere prodotta in migliaia di copie da un macchinario (il cui costo finirà spalmato su un numero estremamente alto di esemplari, pressoché azzerandosi) ad un costo infimo, pari a poco più del valore del metallo di cui è composta.
Questi processi hanno inevitabilmente influito sulla nostra percezione del valore delle cose, che viene correlato ai metodi produttivi: ciò che viene fabbricato in serie, in copie tutte identiche, è ritenuto affidabile anche se offerto a prezzi molto bassi, perché questo è lo standard al quale l’industria ci ha abituati. Da qui a trasferire questo giudizio sulle persone il passo è breve: tutto quello che si discosti più di tanto dalla ‘norma’ viene considerato semplicemente ‘difettoso’, come se la natura (o Dio, per chi ci crede) commettesse errori nel tentativo di produrre, con uno stampino, individui tutti perfettamente identici.
Da notare che, in campagna elettorale, alle parole della Destra contro le ‘devianze’, da parte opposta (la Sinistra) si è contrapposto uno slogan parimenti privo di senso, “viva le devianze”, anch’esso frutto di una visione totalmente ideologica delle relazioni umane, ma di segno contrario. Le caratteristiche ‘eccezionali’ devono trovare accoglienza nella collettività, ma tale accoglienza non può ignorare le difficoltà ad esse connesse che ricadono, spesso con conseguenze negative, sui singoli individui e sulla loro cerchia relazionale.
Il linguaggio della politica, inevitabilmente, tende a rispecchiare il generale livello di consapevolezza collettiva. In questo caso risulta sconfortante il grado di semplificazione veicolato nella narrazione pubblica rispetto a tematiche sociali gravi e persistenti, se non addirittura in via di aggravamento. Un ulteriore riflesso di quanto lontano sia il sentire comune rispetto alle evidenze fattuali da tempo acquisite nella letteratura scientifica. >>
Una buona parte dei processi di inganno si fonda su paure irrazionali. Una paura profonda è quella di essere noi stessi dei ‘devianti’, o di poterlo diventare, o che possano diventarlo persone a noi care, che dipendono da noi, o dalle quali noi stessi dipendiamo. Questo è conseguenza del fatto che le ‘atipicità’ comportano un bagaglio di difficoltà per gli individui che ne sono portatori, e nessuno desidera aggiungere ulteriori problemi a quella che è già la normale fatica di vivere. Il fatto stesso che i caratteri ‘atipici’ vengano espressi nel pool genetico in percentuali ridotte evidenzia la difficoltà che essi generano agli individui che ne sono portatori, riducendone l’aspettativa di vita ed il successo riproduttivo.
La normalità, ossia l’assenza di una qualsiasi eccezionalità, rappresenta quindi una ‘comfort-zone’ all’interno della quale le persone trovano rifugio da un’esistenza che non manca di produrre fatica e stress. L’idea di perdere tale condizione privilegiata, o che ciò accada ad una persona cara (trascinando con sé, nel disagio, l’intero nucleo familiare), è una preoccupazione diffusa. Oltre al fatto che forme estreme di scostamento dallo standard possono ben rientrare nella casistica delle patologie.
Se la comparsa di individui portatori di caratteristiche atipiche e svantaggiose ci pare ingiusta, va considerato che i processi di selezione naturale non sono modellati da esigenze etiche. In natura si producono spontaneamente individui con caratteristiche differenti, ed è solo la maniera in cui queste specificità riescono ad adattarsi alla situazione contingente a dettare la sopravvivenza o meno, ed il successo riproduttivo, del singolo individuo. Questo processo, utile e necessario a livello di gruppi e specie, comporta che molte delle ‘eccezionalità’ che si generano spontaneamente finiscano col tradursi in insuccessi, non di rado con conseguenze tragiche per i singoli individui.
Ad aggiungere ulteriore complicazione c’è l’impossibilità di tracciare un confine netto tra le ‘eccezionalità’ destinate al successo e quelle che conducono a forme di autodistruzione. A seconda del contesto sociale, o culturale, in cui vengano a manifestarsi, determinate caratteristiche fisiche e/o mentali possono condurre all’ascesa sociale o alla prematura scomparsa. Forme di irrequietezza intellettuale possono sbocciare in un talento artistico apprezzato da molti, o in una leadership carismatica, con conseguente successo sociale o, per ragioni totalmente fuori dal nostro controllo, deviare verso l’abuso di sostanze psicotrope (alcol e droghe) e addirittura condurre al suicidio.
In conseguenza di ciò, oltre alla naturale fascinazione, esiste un istintivo ed irrazionale ‘fastidio’ nei confronti degli individui con caratteristiche di eccezionalità. Fastidio che si aggrava nel caso di tratti platealmente svantaggiosi, come le disabilità fisiche o mentali, stante il riflesso istintivo ed irrazionale a temere di perdere ciò che riteniamo parte integrante del nostro essere individui, ovvero la salute fisica e mentale. (...)
Va poi considerato un ulteriore fattore di scala, generato dai processi di massificazione che hanno operato negli ultimi secoli. In una piccola comunità, il cui obiettivo è la sopravvivenza spicciola, ogni individuo trova il modo di rendersi utile, anche nella sua diversità. Per contro, in una comunità allargata e scarsamente differenziata le caratteristiche ‘eccezionali’ finiscono col generare più problemi che vantaggi, ai singoli ed alla collettività. Da ultimo, i processi industriali hanno contribuito a mettere in buona luce l’uniformità, in contrasto con l’eterogeneità.
A partire dalla rivoluzione industriale si è compreso come solo i processi ‘normalizzati’ consentano di generare i massimi livelli di produzione, attraverso le economie di scala. Costruire un singolo componente ha un costo che può essere quasi totalmente ammortizzato nel caso se ne producano migliaia, attraverso la realizzazione di processi standardizzati. Una singola vite può essere realizzata al tornio, da un operaio specializzato, e costerà in proporzione al tempo/persona richiesto. Una vite identica può essere prodotta in migliaia di copie da un macchinario (il cui costo finirà spalmato su un numero estremamente alto di esemplari, pressoché azzerandosi) ad un costo infimo, pari a poco più del valore del metallo di cui è composta.
Questi processi hanno inevitabilmente influito sulla nostra percezione del valore delle cose, che viene correlato ai metodi produttivi: ciò che viene fabbricato in serie, in copie tutte identiche, è ritenuto affidabile anche se offerto a prezzi molto bassi, perché questo è lo standard al quale l’industria ci ha abituati. Da qui a trasferire questo giudizio sulle persone il passo è breve: tutto quello che si discosti più di tanto dalla ‘norma’ viene considerato semplicemente ‘difettoso’, come se la natura (o Dio, per chi ci crede) commettesse errori nel tentativo di produrre, con uno stampino, individui tutti perfettamente identici.
Da notare che, in campagna elettorale, alle parole della Destra contro le ‘devianze’, da parte opposta (la Sinistra) si è contrapposto uno slogan parimenti privo di senso, “viva le devianze”, anch’esso frutto di una visione totalmente ideologica delle relazioni umane, ma di segno contrario. Le caratteristiche ‘eccezionali’ devono trovare accoglienza nella collettività, ma tale accoglienza non può ignorare le difficoltà ad esse connesse che ricadono, spesso con conseguenze negative, sui singoli individui e sulla loro cerchia relazionale.
Il linguaggio della politica, inevitabilmente, tende a rispecchiare il generale livello di consapevolezza collettiva. In questo caso risulta sconfortante il grado di semplificazione veicolato nella narrazione pubblica rispetto a tematiche sociali gravi e persistenti, se non addirittura in via di aggravamento. Un ulteriore riflesso di quanto lontano sia il sentire comune rispetto alle evidenze fattuali da tempo acquisite nella letteratura scientifica. >>
MARCO PIERFRANCESCHI
Decisamente più interessante questa seconda parte. Anche le personalità, i talenti, i geni sono "devianti", ma la società riconosce la loro utilità e quindi li apprezza. Ma tutti vogliono essere apprezzati perché l'apprezzamento apporta vantaggi, ci "arricchisce" (anche economicamente, ma non necessariamente - l'arricchimento consiste in una più forte vitalità). Ma per essere apprezzati bisogna avere delle qualità, delle virtù non comuni grazie alle quali emergiamo sulla massa - bisogna dunque deviare in qualche misura dalla norma (la normalità dunque esiste - in un certo luogo e in un certo periodo). Ma appunto: c'è devianza e devianza. Se ci sentiamo messi in discussione o persino minacciati da certi individui e comportamenti devianti tenderemo a criticarli e per finire demonizzarli.
RispondiElimina"Viva le devianze" - lo slogan attuale delle sinistre - non ha senso, come dice giustamente Pierfranceschi. Una certa normalità è fondamentale per un gruppo o la società. Se tutti o troppi deviano o si esaltano le devianze buona notte.
In natura è un autentico trionfo dell'equilibrio.
EliminaOgni cosa deve essere così, ma non troppo, ed anche cosà, ma non troppo.
Per fare un esempio classico dei biologi evoluzionisti, le zampe della gazzella devono essere lunghe e sottili per correre più veloce, ma non troppo per non spezzarsi facilmente.
Per questo le regole morali umane (e peggio ancora quelle rligiose), che si basano su principi assoluti che non possono essere messi in discussione, possono portare a notevoli disastri.
Standard, dal francese etendard, vessillo, bandiera, ergo seguire la bandiera del signorotto, del prelato di turno, ovvero osservar le regole, le norme di una nazione, più o meno indipendente, spesso sorta dopo operazioni sanguinose, cruente, forzati polpettoni male amalgamati.
RispondiEliminaSeguire le regole, le norme, la bandiera comporta una lunghissima serie di obblighi da osservare, con qualche diritto non sempre riconosciuto. Come guiderdone, quattro stracci, un abituro, una moglie annoiata, un marito distratto, dei figli, spesso nemici dei genitori, distruttori del modesto focolare. Pronti a partire per guerre inutili, fra cugini di vario grado, talche' i potenti della terra sono tutti più o meno imparentati fra di loro. Difficile elevarsi, il nepotismo regna sovrano... Salvo eccezioni.
Post mortem, mi augurerei, se cosciente, di esser affrancato dalle regole, norme, stendardi, onde poter sperimentare uno status finalmente paritario, indipendente, ovvero poter disporre della mia componente spirituale come meglio mi talenta, magari optando per l'eutanasia dell'anima se del caso, posto forse le unità, i singoli, recano confusione, sconquasso nel mondo "reale" e in quello degli spiriti.
Io non credo nel dualismo corpo-spirito, ma penso che le regole valgano solo per la parte corporale, in quanto sono insite nelle leggi (fisiche) della natura, magari sublimate dall'auomo nelle regole sociali.
EliminaPertanto, se davvero esistesse una parte spirituale svincolata dalle esigenze terrene, è probabile che per lei non ci sarebbero più regole.
Complessivamente (mi sembra) un ottimo Articolo: equilibrato, laico, scientificamente plasmato.
RispondiEliminaPierfranceschi, pur non essendo (a quanto ne so) uno scienziato in senso stretto, ha una chiarezza espositiva, una pofondità di analisi ed una conoscenza della materia paragonabili a quelle di un divulgatore di alto livello.
EliminaDa quando l'ho scoperto, il suo blog è diventato per me un punto di riferimento irrinunciabile.