giovedì 3 marzo 2022

La trappola dell'aggressività - 2

Si conclude qui l'articolo di Marco Pierfranceschi sull'aggressività umana, tratto dal suo blog Mammifero Bipede (seconda e ultima parte).
LUMEN

(segue)

<< È facile, già da queste semplici considerazioni, individuare uno schema di massima delle dinamiche distruttive che possono emergere nell’ambito familiare a causa dell’accumulo di insoddisfazioni e frustrazioni. Potremo altresì aspettarci che l’incremento di stress ed incertezze indotti nel corpo sociale dall’attuale pandemia finisca col tradursi in un aumento delle aggressioni e del bullismo, e verificare come sia esattamente quello che avviene.

In tutto ciò, il portato di alienazione individuale e collettiva prodotto dall’urbanistica moderna, che ha tradotto una disponibilità globale di risorse in forme di edilizia residenziale classicamente monofamiliari, ha ottenuto di esacerbare i meccanismi di ‘aggressività dislocata’, sequestrandoli in larga misura all’interno dei nuclei familiari.

Un quadro che appare ancor più catastrofico se consideriamo gli effetti a lungo termine prodotti da maltrattamenti e violenze domestiche. Diversi studi mostrano infatti come l’esposizione a forme di violenza, fisica e psicologica, tendano a fissarsi nei circuiti cerebrali, dando luogo ad alterazioni permanenti della personalità. Questo processo di alterazione delle risposte cerebrali è, purtroppo, molto più evidente nelle fasi dello sviluppo, generando scompensi difficili da recuperare negli adulti fatti oggetto di maltrattamenti in età infantile.

Peggio ancora, esistono molteplici evidenze del fatto che queste alterazioni siano in grado di fissarsi nel DNA, attraverso processi epigenetici, e di propagarsi alle generazioni successive. Questo è il portato più tragico, perché il male che viene fatto ad un individuo, quando si traduce in esplosioni di violenza all’interno della famiglia, finisce col fissarsi sui suoi stessi figli, moltiplicandone gli effetti distruttivi. Non solo si vive una condizione di sofferenza, calpestati dal contesto sociale, ma nello sfogare la rabbia accumulata sui propri familiari si danneggia la propria stessa discendenza e le generazioni a venire.

Altro ambito in cui possiamo leggere processi di ‘aggressività dislocata’ è quello legato alla sicurezza stradale. È un tema che mi tocca nel vivo come ciclista urbano. Dal mio personale osservatorio registro un diffuso disprezzo, da parte degli automobilisti, per le prescrizioni di sicurezza: limiti di velocità, distanze, spazi di frenata, e una generale assenza di rispetto per gli altri utenti della strada, pedoni e ciclisti in testa.

Numerosi conducenti di autoveicoli appaiono frustrati ed aggressivi, per problemi personali, sociali o per le dinamiche conflittuali proprie della mobilità veicolare. Il loro essere ‘inscatolati’ li rende incapaci di scaricare tale aggressività su qualcuno/a in prossimità, di conseguenza finiscono con l’individuare come ‘valvola di sfogo’ gli altri utenti della strada (ciclisti, pedoni, anziani), percepiti come ‘fisicamente e gerarchicamente inferiori’ (quindi non pericolosi) e con lo scaricare su di essi la propria rabbia repressa.

La recente pandemia ha ulteriormente contribuito ad esasperare gli animi, ed il portato di questa frustrazione diffusa si è tradotto, fra le altre cose, in un aumento (largamente percepito) dell’aggressività sulle strade. Un metodo alternativo è stato il ricorso all’uso di alcol e droghe, il cui utilizzo è pure in crescita. Va da sé che le sostanze psicotrope determinano un abbassamento della soglia di autocontrollo, col risultato che le esplosioni di violenza, quando accadono, ne risultano amplificate.

Dalla lezione di Sapolsky emerge poi un rimando inquietante ai rapporti tra le diverse classi economiche in cui tende a suddividersi qualunque società umana. Se andiamo a proiettare le dinamiche relazionali proprie dei piccoli aggregati su una scala più vasta, osserviamo come i meccanismi della ‘aggressività dislocata’ possono essere sfruttati in chiave di controllo sociale.

Stabilito che la violenza cieca si scarica in prevalenza sugli individui in prossimità, per evitare che raggiunga i soggetti effettivamente responsabili delle condizioni di frustrazione diffusa (quelle che chiameremo le élite economiche) un buon punto di partenza sarà realizzare una separazione fisica tra i luoghi di vita e lavoro di ricchi e poveri, ed è un processo che vediamo già in atto in diverse parti del mondo.

In termini di controllo sociale questo significa poter incrementare i fattori di stress su quelle che Sapolsky definisce ‘classi socioeconomiche inferiori’ senza rischiare reazioni indesiderate come forme aggregate di ribellione sociale. La polverizzazione, disgregazione ed il progressivo imborghesimento delle classi economiche meno agiate, la dispersione territoriale e l’isolamento indotto nei nuclei familiari dalla sostituzione dell’ambito relazionale con l’intrattenimento audiovisivo, hanno ottenuto di sequestrare le dinamiche violente in prevalenza all’interno di ambiti privati.

Altro classico esempio di utilizzo sociale dell’aggressività dislocata è il tifo da stadio, caratterizzato da forme di aggressività ritualizzata che esplodono, occasionalmente, in violenza brutale. Attacchi che si consumano in spazi e tempi circoscritti e svolgono una funzione di scaricamento della violenza accumulata in forme atte a non turbare l’ordine costituito, in quanto esercitati di norma tra opposte tifoserie, quindi tra individui degli stessi gruppi sociali (all’interno di un sistema culturale capace di alimentare un meccanismo economico dai bilanci milionari).

Le conclusioni di questa riflessione sono molto amare. Da un lato si evidenzia un meccanismo psicologico innato di scaricamento dell’aggressività e della violenza sui più deboli, che cozza con tutte le elaborazioni etiche e morali sviluppate dalla nostra specie, al punto da far ritenere che lo sviluppo dei costrutti culturali etico/morali sia un adattamento necessario a preservare gli individui più fragili dalla generale innata propensione alla violenza.

Dall’altro emerge la potenzialità per un utilizzo delle nozioni di psicologia comportamentale finalizzato alla stabilizzazione di un modello sociale, basato sullo sfruttamento delle classi economicamente e culturalmente più fragili, che pare tragicamente calzante con quanto ci è dato osservare nelle culture umane antiche e moderne.

Passando ad un ambito strettamente personale, l’approfondimento delle dinamiche legate a violenza ed aggressività confido mi rendano più consapevole riguardo ai processi che coinvolgono le mie stesse reazioni emotive, consentendomi in futuro un miglior autocontrollo nella gestione degli scatti d’ira. Non sarà molto, ma è già qualcosa. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

3 commenti:

  1. Aggiunge l'autore in un commento al post:
    << Nell’ambito culturale attuale l’aggressività è diventata oggetto di confronto principalmente a causa della piaga dei femminicidi, per tutto il resto è considerata ‘normale’. >>

    C'è da sperare che le riflessioni sulla violenza di genere portino a riesaminare tutto il concetto di aggressività 'normale'.
    Ma è anche possibile l'inverso, cioè che l'attuale sensibilità di genere venga pian piano ad esaurirsi, per un triste ritorno alla banalità della violenza sociale.

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  2. COMMENTO di GPVALLA

    Gli esempi portati da Pierfranceschi sono interessanti e significativi.
    Personalmente non mi sembrano del tutto convincenti le osservazioni sul traffico automobilistico (è oggettivamente motivo di stress...) o quelle sulla separazione delle zone residenziali in funzione del reddito, che mi pare ci sia sempre stata; è vero peraltro che ultimamente i quartieri esclusivi si stanno trasformando in vere cittadelle separate, recintate e difese da guardie private, mentre quelli più poveri e ad alta percentuale di immigrati diventano "no go zones", di fatto sottratte al controllo statale.
    Non mi è chiara infine l'affermazione secondo cui le alterazioni derivanti da abusi subiti possono modificare il DNA e trasmettersi alle generazioni successive per via genetica: mi sembrano affermazioni da Lamarck (o Lysenko).
    Comunque Pierfranceschi ha ragione ad evidenziare lo sfruttamento in termini di controllo sociale del meccanismo dell'aggressività dislocata. In particolare l'attuale modello economico neo liberista è costruito apposta per esasperare la frustrazione e deviarla sui soggetti deboli.
    Depotenziamento dei sindacati, dei partiti e delle associazioni che collegavano fra loro i cittadini e i lavoratori davanti al potere, esasperazione dell'individualismo, enfasi su una falsa meritocrazia. I messaggi e le parole d'ordine sono sempre gli stessi: "mettersi in gioco", "sfide" e "obbiettivi sfidanti", "farsi imprenditori di se stessi", retorica del "chi ce la fa", dei successi delle "start up" e così via.
    Il tutto si traduce in una colpevolizzazione di chi "non ce la fa" (a causa in realtà di regole truccate fin dall'inizio), e ad un conseguente carico di frustrazioni non razionalizzate che non può che sfogarsi sui prossimi e sui più deboli.

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  3. << Non mi è chiara infine l'affermazione secondo cui le alterazioni derivanti da abusi subiti possono modificare il DNA e trasmettersi alle generazioni successive >>

    In effetti l'affermazione aveva stupito anche me.
    L'autore, peraltro, non fa un riferimento diretto alla genetica, ma bensì ad una sua 'variante' definita Epigenetica, che, secondo wiki, sarebbe:
    << una branca della genetica che si occupa dei cambiamenti fenotipici ereditabili da una cellula o un organismo, in cui non si osserva una variazione del genotipo. (...)
    Consiste nello studio dei cambiamenti mitotici e meiotici ereditabili che non possono essere spiegati tramite modifiche della sequenza di DNA. >>
    Ma qui mi fermo, data la mia totale ignoranza in materia.

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