giovedì 24 febbraio 2022

La trappola dell'aggressività - 1

Un interessante articolo di Marco Pierfranceschi sul tema, sempre scabroso ma irrinunciabile, dell'aggressività umana. Il post è tratto dal suo blog Mammifero Bipede (prima parte di due).  
LUMEN


<< Nel corso di 'Biologia del comportamento umano' tenuto dal prof. Robert Sapolsky alla Stanford University (…), viene descritto il meccanismo dell' aggressività dislocata. In sostanza, quando siamo infuriati o frustrati per situazioni che non siamo in grado di gestire o contrastare, sfoghiamo la nostra rabbia su quello che abbiamo a tiro in prossimità. Tipicamente sulle persone che ci vivono accanto.

« L'idea è che l’aggressività sia in definitiva tutta una questione di frustrazione, dolore, stress, paura, ansia. Un punto di vista fortemente spinto dai ricercatori russi nel periodo dell’Unione Sovietica. Una visione molto marxista perché, essenzialmente, ciò che si conclude alla fine è che l’amigdala ha qualcosa a che fare sia con l’aggressività che con la paura. E che in un mondo in cui nessun neurone amigdaloide ha bisogno di avere un potenziale d’azione per paura, non ci sarà aggressività. 

Questa è la versione estrema del modello di dislocamento della frustrazione. Quando i livelli di disoccupazione salgono, anche i livelli di abuso coniugale aumentano, e ugualmente aumentano i livelli di abuso sui minori. Quando l’economia va male avviene la stessa identica cosa. Negli animali da laboratorio: procura uno shock ad un topo e otterrai che morderà l’animale che ha accanto. Tutte queste sono forme di aggressività dislocata. In una tribù di babbuini, ad esempio, quasi il 50% delle aggressioni sono dovute ad aggressività dislocata, ed avvengono dopo che un individuo ha perso un combattimento o l’accesso a una risorsa. 

Questo meccanismo è in grado di spiegare due aspetti davvero deprimenti sulle società diseguali. Il primo è che più sei povero, più è probabile che tu sia violento, più è probabile che tu commetta atti criminali. E quando l’economia va male il problema si aggrava. Tutto diventa più distorto. L’altro aspetto tragicamente ironico di questo processo è che quando la criminalità sale negli strati socioeconomici più bassi, gli atti criminali sono rivolti in modo schiacciante verso gli altri poveri. 

Quando il crimine aumenta durante i periodi di frustrazione e maltrattamento delle classi socioeconomiche inferiori, non assume la forma in cui, improvvisamente, tutti decidano di scalare il muro fino al palazzo lì accanto e distruggere alcuni dei vasi Ming. Invece si tende ad aggredire le persone che sono vittime proprio accanto a noi. Durante i periodi di recessione economica, i tassi di criminalità nei quartieri più poveri salgono, ed è quasi sempre violenza rivolta agli abitanti del vicinato. » 

Mi è stato relativamente immediato collegare questa modalità comportamentale con quanto già esposto in una precedente lezione, sempre in relazione all’aggressività, dove veniva illustrato un esperimento effettuato su cinque macachi. 

« Prendi cinque macachi maschi (questo è stato uno studio classico). Mettili insieme e formeranno una gerarchia di dominanza. Il numero uno picchia da due a cinque, il numero due da tre a cinque, e così via. Prendi il numero tre e pompalo con il testosterone. Pompalo con quantità folli di testosterone. Quello che vedrai è che sarà coinvolto in un maggior numero di combattimenti. 

Significa che il numero tre ora sta minacciando il numero due e il numero uno? Assolutamente no, quello che sta succedendo è che il numero tre diventa un incubo per i numeri quattro e cinque. Il testosterone sta cambiando la struttura dell’aggressività in questo gruppo? No, sta esagerando la struttura sociale preesistente. »

Lo studio evidenzia quindi una propensione a scaricare l’aggressività sui soggetti più deboli. Un simile comportamento ha, molto verosimilmente, radici nei processi evolutivi. La selezione naturale premia gli individui propensi a scaricare l’aggressività sui più deboli, mentre danneggia quelli che tenderebbero ad attaccare avversari più forti di loro, che avranno elevate probabilità di fare precocemente una brutta fine.

Emergerebbe perciò una propensione biologica a prendersela coi più deboli, in comune con tutto il resto del regno animale. Benissimo, anzi, malissimo. L’esistenza stessa di automatismi psichici di questa natura contrasta con buona parte delle architetture morali ed etiche sviluppate nei millenni dal pensiero umano. Nondimeno, in quanto evidenze scientifiche, occorre tenerne conto.

Prima di proseguire oltre devo chiarire un punto: prendere atto di una fenomenologia comportamentale non presuppone alcun tipo di approvazione morale, di accettazione o di giustificazione della stessa. Attiene alla nostra condizione di individui consapevoli, ed al nostro senso di giustizia, cercare e trovare soluzioni ed equilibri migliori.

E tuttavia occorre prendere atto di meccanismi psicologici che in natura esistono, che interessano la gran parte delle specie viventi capaci di comportamenti relazionali e sociali complessi, e che non possono essere semplicemente ignorati, né pretendere che bastino educazione e modellazione sociale delle abitudini a farli sparire.

L’aggressività dislocata, nello specifico, può dar conto dei maltrattamenti che avvengono all’interno della sfera familiare. In una cultura dominata dalla competizione economica è facile che l’ambito lavorativo produca un accumulo di frustrazioni che finiscono con lo scaricarsi al di fuori di esso. E nella società moderna gli individui trascorrono la maggior parte del proprio tempo in due ambiti relazionali ben distinti: l’ambito lavorativo e quello domestico.

Lo stress e le frustrazioni accumulate nell’ambito lavorativo, dal quale dipendono la retribuzione e il sostentamento, possono scaricarsi in parte sui colleghi, in particolare i sottoposti, ma finiscono più facilmente a proiettarsi nell’ambito familiare, dov’è azzerato il rischio di perdita dell’impiego e della retribuzione relativa.

Aggressività che assume forme e modalità diverse, fisiche e/o psicologiche, a seconda delle modalità individuali di gestione delle dinamiche relazionali. Individui anatomicamente più forti tenderanno ad esercitare di preferenza modalità aggressive di tipo fisico, mentre individui fragili, se intellettivamente dotati, tenderanno più facilmente ad esercitare forme di aggressività di natura psicologica. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

(segue)

2 commenti:

  1. COMMENTO di GPVALLA

    L'articolo è molto interessante: mi ha colpito l'esperimento coi macachi, e soprattutto l'osservazione che l'aggressività dislocata, anche quando è accresciuta ben oltre il livello normale, non si rivolge mai contro i più forti, ma sempre contro i deboli.
    Il meccanismo posto in luce è sostanzialmente la radice bio-etologica del fenomeno del capro espiatorio: in una situazione di particolare crisi la paura e la frustrazione vengono indirizzati arbitrariamente su di un soggetto debole e in qualche misura già emarginato, su cui è quindi possibile scaricare impunemente l'aggressività accumulata, senza che ciò turbi le strutture esistenti, anzi rafforzando lo status quo ante.
    Un dubbio: come l'autore giustamente osserva, l'operare dell'aggressività dislocata, pure comprensibile in senso evoluzionistico, è contrario alle architetture morali ed etiche sviluppate nei millenni. Ma allora, come mai queste architetture si sono sviluppate? e soprattutto: perché hanno prosperato? Quale vantaggio competitivo offrono?
    Forse l'aggressività repressa funziona meno bene nell'ambito di gruppi più ampi (salvo situazioni particolari - vedi sopra) ?

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    1. Caro Beppe, sono domande difficili, quelle che tu poni, alle quali non ho una risposta.
      Ritengo però che molto dipenda dall'ampiezza del gruppo umano nel quale le regole vengono applicate.
      Così, per esempio, trovarsi al di sotto o al di sopra del numero di Dumbar (100/120 individui) può fare molta differenza.

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