Il post di oggi è dedicato al mito della vita 'bucolica', simbolo della pace e della serenità offerte dalla natura, visto in tre ottiche diverse, una culturale, una storica ed una pratica.
I testi sono rispettivamente dell'Associazione Arcadia (dal loro sito), di Sergio Ricossa (dal libro “Storia della fatica”) e di Gaia Baracetti (che nella natura ci vive per scelta personale).
Buona lettura. LUMEN
ARCADIA
<< È [noto] l’eterno quanto affascinante mito dell’Arcadia: un mondo in cui l’uomo vive in armonia con la natura, immerso nei bucolici paesaggi silvestri; uno dei più importanti luoghi di fuga immaginari di chi era, ed è ancora oggi, stanco della cultura e della civiltà.
L’Arcadia (...) indica lo stadio intermedio, pastorale, armonicamente conciliante, di quello precedente dell’animalità e quello successivo del predominio della ragione, così come espresso da Rousseau, riportato nelle righe di Wehle. Il suggestivo mondo arcadico è reso quasi mitologico dall’attenzione dedicatagli da poeti, scrittori, narratori e drammaturghi che nel corso dei secoli da esso hanno tratto linfa vitale per le loro opere.
L’Arcadia, regione storica della Grecia, collocata nella penisola del Peloponneso, è stata elevata nel corso della storia della letteratura a topos letterario. Secondo la mitologia greca era la deserta e vergine casa di Pan, dio delle montagne e della vita agreste. L’Arcadia è rimasta un soggetto artistico sin dall’antichità, sia nelle arti visuali, sia in letteratura. Al siracusano Teocrito e al latino Virgilio si deve riconoscere il merito di aver infuso nuovo vigore al genere bucolico. (…)
L'Arcadia di Teocrito è in Sicilia, tra le fertili aree alle pendici dell’Etna, le zone palustri e fluviali e le spiagge pietrose. Protagonisti sono pastori, pescatori, mietitori. Più propriamente mitologici sono protagonisti quali ninfe, ciclopi e divinità agresti, tra cui Artemide e lo stesso Pan.
Gli scenari, i paesaggi e le ambientazioni sono appunto idilliaci, capaci di infondere armonia e bellezza all’animo dei lettori. Si concretizza de facto uno degli intenti principali della poesia bucolica: infondere serenità attraverso l’evasione in un mondo idilliaco e di bellezze naturali.
L’Arcadia è anche il “locus amoenus” dei pastori virgiliani delle Bucoliche. Carico di significati metaforici, è un luogo di riparo, un luogo dove vivere e cantare l’amore, anche deluso, ed è il luogo della civiltà contrapposta alla barbarie. È un simbolo di felicità, un’immagine reale ma intatta della realtà, immobile nello spazio e nel tempo, dove nulla si trasforma. >>
ASSOCIAZIONE ARCADIA
FATICA
<< Non sappiamo se i nostri avi erano più o meno felici di noi, ma vivevano molto diversamente da noi. Per secoli, anzi per millenni, la gente comune, la gran massa dei lavoratori, subl le ferree costrizioni di una economia primitiva, preindustriale, che rispetto all'economia industriale appare immobile, stagnante.
Oggi, invece, tutto sembra girare vorticosamente, e ciò basta per darci una ragione del senso di vertigine che proviamo. Il cambiamento cominciò in Gran Bretagna tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, poi si propagò a gran parte dell'Europa occidentale e dell'America del nord.
In Italia bisognò attendere la fine del secolo scorso, e forse addirittura la fine della seconda Guerra Mondiale, perché gli effetti dell'industrializzazione diventassero possenti come altrove. Tra le due guerre, non lontano da Milano, Torino e Genova, i vertici del nostro "triangolo industriale", non poche famiglie contadine vivevano ancora in condizioni paragonabili a quelle medievali.
Non avevano l'elettricità, attingevano l'acqua dal pozzo, si scaldavano e cuocevano il cibo con la legna raccolta nel bosco, pativano la fame o la sete se il raccolto del grano o la vendemmia andava male, riservavano le scarpe e la giacca per i giorni di festa, non si allontanavano mai dal villaggio, dove si nasceva, si cresceva, si sposava, si invecchiava, si moriva, avevano nel cavallo e nel bue i loro "motori" coi quali risparmiarsi qualche fatica, e ascoltavano le storie della città come leggende di terre lontane. >>
SERGIO RICOSSA
MONTAGNA
<< Uno dei temi [della mia esperienza] è l’idealizzazione di una supposta “vita nella natura”. Si tende a pensare che cose come la pace alpina, il silenzio delle montagne, eccetera, dovrebbero creare uno stato d’animo altrettanto sereno.
Ovviamente, è del tutto sbagliato pensare che ci sia qualcosa di particolarmente pacifico nella natura in generale, che le persone reagiscano tutte allo stesso modo alle stesse cose, o che uno smetta di essere se stesso se cambia contesto.
È sbagliato pensare che esista un buon selvaggio e un cattivo uomo civile, che la vita in agricoltura o allevamento debba necessariamente essere meno dura o persino meno stressante (dipende), che le sensazioni che prova un vacanziere in pochi giorni in un certo posto siano uguali a chi in quel posto ci vive sempre.
È anche sbagliato pensare di dedurre lo stato d’animo di una persona che non si conosce da come questa persona si comporta, salvo casi estremi (se fai una strage in un asilo forse un po’ squilibrato lo sei).
C’è il pastore felice che zufola e quello che cerca di uccidere le capre del vicino. Poi c’è quello che sembra che zufoli ma in realtà è un falso e un ipocrita, e quello che sembra che voglia ucciderti ma è solo apparenza e dentro è buono come il pane.
Giunti a una certa età nella vita bisognerebbe sapere che per arrivare alla verità ci vuole tempo, pazienza, conoscenza, che le cose non sono come appaiono e io sono la prima a dirlo di me stessa.>>
GAIA BARACETTI
"Et in Arcadia ego". Anch'io vissi in quella specie di paradiso terrestre dove tutto è pace e armonia. Ma oggi questa nostalgia o aspirazione a un luogo simile pare davvero tramontata. Meglio il brulicame di una spiagga riminese e l'eterno chattare o navigare. Sì, un po' meno stress almeno ogni tanto non sarebbe male, ma vuoi mettere le nostre possibilità a paragone della vita pastorale. Arcadia ciao, non ci attiri più.
RispondiEliminaPurtroppo!
EliminaLa sintesi ideale potrebbe essere quella del signorotto di campagna.
EliminaLui si gode la vita serena nella tranquillità della natura, ed i suoi fittavoli lavorano per lui.
Ma sicuramente non è per tutti...
Fatica
RispondiEliminaImpressionante la povertà e la miseria in Italia ancora nel XX secolo, persino al nord. Non parliamo poi del sud, vedi Cristo si è fermato ad Eboli. Eppure questo paese è diventato l'ottava potenza economica del mondo (oggi forse è solo la settima). Ma chi ha prodotto tutta questa ricchezza? Il nord. Ma chissà forse è razzista dirlo.
<< Ma chi ha prodotto tutta questa ricchezza? >>
EliminaUn'altra buona risposta potrebbe essere: il petrolio e l'America.
Ma tutto ha un prezzo: dal petrolio è arrivato l'inquinamento e dagli USA è arrivata la sudditanza al turbo-capitalismo.
Ma qui finiamo OT.
Le Alpi
RispondiEliminaUn'Arcadia elvetica del 18° secolo.
L'illuminista svizzero Albrecht von Haller (1708- 1777) descrisse in un lungo poema, Le Alpi, la vita operosa, semplice, sobria, frugale e ovviamente sana e felice dei pastori di montagna svizzeri. Questi pastori idealizzati Haller se li era naturlamente sognati. Ma il suo sogno è stato quello di tanti che hanno favoleggiato di un'età dell'oro in cui gli uomini vivevano in armonia con il creato felici o contenti. Si chiami Arcadia o Città del sole resta un ideale che poi tanto ideale non è (dalla perfetta Città del sole comunista di Campanella uno vorrebbe solo scappare). Ma se la inesistente Arcadia di un tempo fosse un progetto per il futuro?
Certo la vita bucolica è stata spesso fonte di ispirazione per i poeti, in genere in senso positivo.
EliminaMa non per tutti: ed è il caso del povero Leopardi che, nelle Ricordanze, ci parla del suo borgo e della gente che lo abita in termini ben poco lusinghieri:
<< Né mi diceva il cor che l’etá verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil, cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non giá, ché non mi tiene
maggior di sé, ma perché tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno. >>