venerdì 12 febbraio 2021

La disoccupazione nella teoria economica

Quello della disoccupazione è, ad un tempo, un problema economico ed un problema sociale (e forse anche di salute pubblica).

Le considerazioni che seguono riguardano la disoccupazione principalmente sotto il primo profilo, ovvero alla luce delle diverse teorie economiche.

L'analisi è opera di Domenico Moro ed è tratta dal sito di 'Sollevazione'.

LUMEN


<< Secondo gli economisti neo-classici la disoccupazioneè impossibile se non come fenomeno transitorio. Questo per due ragioni. La prima starebbe nel fatto che, se nel mercato del lavoro esistono lavoratori disposti a lavorare che non trovano lavoro, la pressione che questi lavoratori esercitano sul mercato del lavoro farà cadere il salario fino a quandole assunzioni saranno più convenienti per gli imprenditori e l'intera disoccupazione verrà assorbita.

La seconda, la cosiddetta legge degli sbocchi, dice che qualsiasi produzione dà luogo a una domanda equivalente, per cui gli imprenditori, se aumentassero la produzione, avrebbero la possibilità di collocarla sul mercato. Quindi la disoccupazione porterebbe alla riduzione dei salari che a sua volta spingerebbe i datori di lavoro ad assumere i disoccupati e ad aumentare la produzione, creando così una domanda equivalente. In questo modo l’espansione economica dovrebbe continuare fino a raggiungere la piena occupazione.

Se così non avviene, la responsabilità, per i neoclassici, è del movimento sindacale che, mettendo fuori gioco il meccanismo della concorrenza, impedisce alla disoccupazione di provocare la caduta dei salari. La realtà degli ultimi decenni dimostra che il sistema capitalistico non funziona esattamente così, in quanto un’alta disoccupazione può, anzi deve, sussistere insieme a un abbassamento del costo del lavoro e dei salari.

Come abbiamo detto, la dottrina neoclassica andò per la maggiore fino agli anni ’30, quando apparve la teoria keynesiana. Secondo Keynes non è l’azione dei sindacati a produrre la disoccupazione ma la struttura stessa del capitalismo. Innanzi tutto Keynes precisa che non è la caduta dei salari monetari che spinge i capitalisti ad assumere ma è la caduta dei salari reali.

Ma anche se calassero i salari reali, l’aumento di offerta non troverebbe un aumento di domanda equivalente. Questo perché l’aumento di reddito, generato dall’aumento della produzione e dell’occupazione, fa aumentare i consumi ma non in modo equivalente, perché solo una parte del nuovo reddito viene spesa in consumo, il resto viene destinato al risparmio.

La domanda globale aumenta quindi meno dell’offerta globale. Inoltre, se l’offerta cresce più della domanda, i prezzi tendono a calare fino a quando l’eccesso di offerta viene eliminato, ristabilendo la situazione di partenza. La disoccupazione segnala una situazione di squilibrio, che, secondo la teoria neoclassica, può essere corretto dagli stessi meccanismi di mercato.

Al contrario, secondo Keynes, il mercato non è in grado di determinare da sé la piena occupazione. Visto che il mercato non è in grado di riassorbire la disoccupazione, Keynes esamina tre strumenti di politica economica. I primi due, di competenza dell’autorità monetaria, sono l’aumento di quantità di moneta e le operazioni di mercato aperto, cioè l’acquisto di titoli nei mercati di borsa, che dovrebbero condurre all’abbassamento del tasso d’interesse e quindi facilitare gli investimenti e l’occupazione.

Il terzo strumento è l’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica. Keynes si dichiara scettico sui primi due strumenti, perché nei periodi di depressione il saggio di profitto è basso e, anche se vengono offerti finanziamenti a tassi ridotti, questo può non essere sufficiente a invogliare i capitalisti a fare nuovi investimenti. Dunque, l’unico intervento efficace è quello pubblico, mediante l’acquisto di beni e servizi, il cosiddetto moltiplicatore.

Secondo Keynes, si può aumentare la domanda statale anche senza fare ulteriore debito pubblico, mediante l’aumento dell’imposizione fiscale, che, con maggiori entrate, vada a compensare l’aumento delle uscite. In questo modo, si trasferirebbero risorse dal settore privato, che ha una bassa propensione di consumo, al settore pubblico, che ha invece ha un’alta propensione di consumo. Keynes, però, non prevedeva che l’intervento pubblico si mantenesse durevolmente, ma che venisse eliminato non appena il meccanismo di accumulazione si fosse rimesso in moto. (...)

Il problema principale della teoria keynesiana è che l’aumento della domanda da parte dello Stato può dare momentaneo respiro al capitale ma non ne risolve i limiti strutturali. Come riconosce lo stesso Keynes, alla base della crisi e dell’aumento della disoccupazione c’è la scarsa redditività degli investimenti. Da un punto di vista marxista, ciò vuol dire che al di sotto della crisi della domanda c’è la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Questo comporta che la crisi non è mai semplicemente una crisi da sottoconsumo ma è essenzialmente una crisi di sovraccumulazione di capitale. Ciò significa che è stato accumulato troppo capitale affinché questo dia il profitto aspettato dai capitalisti e ogni nuovo investimento è sempre meno redditizio.

Quindi, se non si interviene sulla struttura produttiva non vengono meno le cause della crisi e l’intervento statale ha un effetto momentaneo e, in caso di grave e perdurante sovraccumulazione di capitale, deve essere ripetuto all’infinito, sostenendo così artificialmente l’accumulazione di capitale. La conseguenza è un debito pubblico crescente, come abbiamo visto in diversi momenti della storia recente del capitalismo, ad esempio in Paesi come l’Italia e il Giappone.

Questo anche perché praticare una imposizione fiscale che compensi con maggiori entrate l’aumento delle uscite è politicamente difficile da perseguire, anche per l’opposizione dei capitalisti. Del resto, se il problema è rappresentato dalla bassa redditività del capitale, una imposizione fiscale maggiore può annullare l’effetto positivo dell’aumento della domanda complessiva sul profitto.

Dunque, nei fatti è difficile aumentare le spese dello Stato senza crescita dell’indebitamento pubblico. I capitalisti, inoltre, sono contrari all’intervento dello Stato, sia come imprenditore sia come erogatore di welfare, perché ciò porta alla diminuzione della disoccupazione e all’aumento dei salari, che deprimono ulteriormente il saggio di profitto.

L’unica soluzione che, nell’ambito dei rapporti di produzione vigenti, permette di riprendere il ciclo d’accumulazione con un saggio di profitto ristabilito a livelli adeguati è la distruzione dell’eccesso di capitale, che ne riduce la sovraccumulazione. Infatti, le politiche keynesiane si sono dimostrate realmente efficaci solo in concomitanza di eventi come le guerre. (...)

[Quindi] l’intervento dello Stato, in ambito capitalistico, può in certe condizioni ridurre la disoccupazione; queste condizioni però non sono puramente economiche, ma sono soprattutto politiche. (…) Quel che va sottolineato è che all’interno del capitalismo non si può arrivare alla piena occupazione, neanche nelle fasi di espansione economica. >>

DOMENICO MORO

4 commenti:

  1. Non ci ho capito molto, anzi mi gira la testa con tutte queste teorie. Constato comunque che queste teste d'uovo, questi professoroni e geni dell'economia la pietra filosofale per renderci tutti benestanti e contenti non l'hanno ancora trovata e nemmeno Draghi potrà porre rimedio.

    "Quel che va sottolineato è che all’interno del capitalismo non si può arrivare alla piena occupazione, neanche nelle fasi di espansione economica."

    Più che probabile. Il fine del capitalismo non è la piena occupazione e la pace sociale, ma il profitto (fermo restando che la pace sociale può favorire anche il profitto, è ovvio).
    Assicurare agli otto e presto dieci miliardi di esseri umani pace, tranquillità e benessere dalla nascita alla vecchiaia è un'impresa direi impossibile. Bisognerà però garantire il minimo indispensabile e magari qualcosa di più a tutti, ma veramente a tutti, se non vogliamo disordini continui e transumanze bibliche. Il minimo indispensabile però non può consistere più in pane e giochi. I diritti umani ormai comprendono: istruzione, sanità, casa, lavoro, consumi, acqua e parecchie altre cose. Tutto gratuito e dovuto ovviamente. Come si farà? La parola agli esperti?
    Pardo dice: abbassiamo le tasse, così s'investe e si crea lavoro, ricchezza e occupazione, insomma crescita (anche lui è un crescitista). Non ha torto, ma non credo che così si possano soddisfare veramente e per sempre i bisogni fondamentali (vedi sopra).
    E quindi? Continueremo a navigare a vista d'occhio probabilmente, con alti e bassi, sperando di non sprofondare.

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    1. << Il fine del capitalismo non è la piena occupazione e la pace sociale, ma il profitto (fermo restando che la pace sociale può favorire anche il profitto, è ovvio). >>

      Appunto. Questo spiega perchè anche il capitalismo accetta, senza troppe difficoltà, le politiche di welfare.
      Perchè la pace sociale è un bene fondamentale per i commerci, e se non la si ottiene con le buone (il welfare appunto) la si deve ottenere con le cattive (stato di polizia).
      Ma il secondo sistema, oltre ad avere anch'esso un suo costo, risulta anche più precario.
      E questo spiega il grande successo storico del "panem et circenses".

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  2. COMMENTO DI GPVALLA56:

    Purtroppo non sono un esperto di economia. Mi permetto solo di osservare che le teorie neoclassiche sulla autoregolazione dei mercati sono palesemente false, e la crisi del 2008 ne è la prova: il sistema è sopravvissuto solo grazie a un intervento massiccio dello Stato.
    Quanto al welfare, mi sembra che le conquiste sociali ed economiche delle Trente Glorieuses (come dicono i Francesi) siano state dovute in larga misura dalla presenza dell'Unione Sovietica, con il suo sistema socio-economico alternativo, e dei partiti alla stessa collegati. Non appena l'URSS è entrata in crisi, nei primi anni '80, è subito cominciata l'erosione e poi la distruzione sempre più rapida ed estesa dello Stato sociale in tutto l'Occidente.

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    1. Caro Beppe, l'intervento massiccio dello Stato fa parte di quel famoso meccanismo economico noto come "privatizzazione degli utili e pubblicizzazione delle perdite".
      Che la teoria ufficiale non cita per ovvii motivi di opportunità.

      Quanto al secondo punto, qualcuno ha detto, con un mezzo paradosso (ma non troppo), che il comunismo sovietico ha ottenuto più risultati in occidente (per il meccanuismo che tu citi) che non in casa propria.

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