venerdì 17 aprile 2020

Le crisi periodiche del Capitalismo

Come ho già accennato in altre occasioni, considero il pensiero marxista eccellente nell’analisi dei fatti storici ed economici, ma decisamente carente, quasi ingenuo, nelle proposte politiche.
Non fa eccezione il pezzo che segue, scritto (benissimo) da Moreno Pasquinelli per il sito Sollevazione, in cui si parla di Marx, di Keynes, di capitalismo e di sovrapproduzione, oltreché, inevitabilmente, di socialismo e rivoluzione.
L’analisi – pur essendo stata scritta prima dell'attuale crisi di pandemia – non ha perso nulla della sua validità ed attualità.
LUMEN


<< L'attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il “mercato” il sistema che meglio di ogni altri contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione. (...)

Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni.

Questo contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni (...), lungi dal risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti. Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte degli economisti (…) si consideri keynesiana. (…)

Keynes, malgrado avesse colto le contraddizioni profonde insite nel modo capitalistico borghese, non ha mai nascosto la sua predilezione per il sistema capitalistico, ne ha mai fatto mistero della sua avversione verso il marxismo e l’ideale socialista. Keynes si considerava anzi il medico la cui missione era appunto salvare un capitalismo affetto da malattie e contraddizioni congenite, che se lasciato a sé stesso sarebbe anzi andato incontro alla morte. (…)

L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta la neutralità della moneta considerata solo mezzo di scambio) il mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia di beni che di capitali. (…) Per Keynes il mercato non assicurava [di per sé] né la piena occupazione né un’equa distribuzione della ricchezza.

Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale il denaro non fungeva solo da (1) parametro per misurare valori/prezzi e (2) come mezzo di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione.

Nei cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.

In termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato, non solo non c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di beni, e non esiste alcuna garanzia che il risparmio accumulato ritorni nel mercato sotto forma d’investimenti, il che condetermina la crisi, la stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi destinata al risparmio (tesaurizzazione) invece che agli investimenti.

Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra eccesso di offerta e insufficienza della domanda? E di chiudere la forbice tra la massa accumulata di denaro che se ne sta ferma tesaurizzata, e quella decrescente che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su due fattori principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”).

Ma quali sono queste leve? Dal momento che il mercato non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una forza esterna ad essi, l’autorità statuale titolare di facoltà d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità politica, giuridica e monetaria, deve intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e quattro.

In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria flessibile, abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando così la tesaurizzazione, o l’eccessivo accumulo di risparmi.

In seconda battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una imposizione progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della ricchezza verso i redditi medio-bassi, che per Keynes hanno una più decisa propensione al consumo. (...)

Infine Keynes proponeva che lo Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una politica di ‘deficit spending’, ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso (denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in eccesso. (…)

Marx la pensava diversamente, (…) e riteneva che il modo capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno quattro leggi principali:

(1) più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere;
(2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più generale quanto più il boom è stato consistente;
(3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera: distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con conseguenze sociali devastanti;
(4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.

Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del capitalismo, quella di sfociare nelle crisi di sovrapproduzione (…) che possono essere parziali oppure generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi. E’ proprio quando l’economia incontra queste crisi generali che immani quantità di capitali e forze produttive debbono essere necessariamente distrutte, con conseguenze sociali catastrofiche, con la società che è sospinta indietro di decenni.

Tuttavia è proprio grazie a queste crisi, che attengono alla fisiologia stessa del capitalismo, che esso può far ripartire un nuovo ciclo di crescita, destinato a sua volta e sfociare in una nuova crisi. Lo Stato della borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici delle crisi di sovrapproduzione, differirli nel tempo, non può mai essere risolutivo.

In ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi alle fisiologiche necessità della classe economicamente dominante e quindi, dentro la crisi generale, passare allo Stato d’eccezione per scaricare i costi della crisi sul lavoro salariato, soffocando la sua spinta emancipatrice, e allo Stato di guerra per strappare spazi vitali a capitalismi concorrenti.

La storia ha confermato le analisi di Marx. I suoi detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità, da nessuna parte Marx ha sostenuto che il capitalismo fosse destinato al crollo, se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo “crollo”, come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo storico di convulsioni. (…)

Non vi aspettate che Marx abbia consigliato alla borghesia eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema, che le crisi cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di produzione, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema socialista. (…)

L’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale, al pari delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella economica, finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto economico? Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli spirituali e culturali sarebbero menomati.

Per realizzare questo controllo sociale, questo è il punto, occorre sottrarre i mezzi di produzione e di scambio dal dominio proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a fare i suoi propri egoistici interessi, e diventare, al pari di tutti gli altri beni comuni, proprietà sociale. (…) La statizzazione è solo una forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la statizzazione verticistica, che farebbe della burocrazia statale un demiurgo autoritario, e la completa e orizzontale autogestione, possono esistere innumerevoli soluzioni mediane.

E della stessa pianificazione economica, considerata con orrore dai liberisti, ne esistono svariate modalità. Lo stesso capitalismo, in barba alla “mano invisibile del mercato” conosce plurime forme di pianificazione: cos’altro è la politica economica keynesiana se non una pianificazione generale? (…)

Fanno altrettanto anche i grandi gruppi monopolistici, che crollerebbero facilmente se non pianificassero fin nei dettagli tutto il ciclo produttivo, dal reperimento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Solo un’economia razionalmente pianificata può debellare la principale calamità che affligge il capitalismo: la sovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile sperpero di risorse e di energie consistente nell’accumulare mezzi di produzione e beni (sotto forma di merci) che non solo si riveleranno inutili alla società e dovranno essere distrutti, ma che arrecano danni spesso irreversibili al nostro pianeta. >>

MORENO PASQUINELLI

9 commenti:

  1. COMMENTO DI SERGIO (inserito da me per motivi tecnici)

    Caro Lumen, ho letto con molta attenzione questo articolo - nella speranza di acquisire qualche conoscenza utile. Non sono deluso, ma direi che c'è troppa carne al fuoco per poterne discutere pacatamente in un commento. Da dove cominciare del resto?
    Tanto per dire qualcosa: la tesaurizzazione è davvero un male, asociale?
    Gli Italiani sono tra i più grandi risparmiatori, ma non credo che lo facciano per speculare. Il risparmio (della formica) è cosa saggia, avrà da mangiare in inverno (ovvero in periodi di magra o di crisi). Errore, ci dicono oggi: bisogna spendere per mantenere in piedi la baracca. E visto che non lo volete capire introduciamo oggi i tassi negativi sui conti correnti, e domani aboliamo il contante obbligandovi a spendere i vostri soldi che se no si riducono (c'è chi dice che le banche potrebbero arrivare a tassi negativi financo del 10%, un autentico esproprio o furto).
    È una spirale infernale: devi consumare per forza, se no ci rimetti. E se cominciassimo a discutere di questa ossessione consumistica che oltre tutto accresce l'inquinamento, il buco dell'ozono, lo sperpero inaudito di risorse per niente - produrre per produrre e distribuire salari -, ma anche di intelligenza e di energia?
    Il fine del capitalismo non è il bene comune, ma il profitto (giusto, nessun moralismo). Ovviamente i beni prodotti soddisfano le richieste di almeno una parte della popolazione e sarebbero dunque - secondo Cipolla - degni di essere prodotti (chi giudica dell'opportunità di un prodotto? Il consumatore, punto e basta).
    Ma ormai siamo quasi otto miliardi e dobbiamo metterci d'accordo almeno sul minimo indispensabile per tutti gli otto e gli ulteriori miliardi prossimi venturi. La ricetta di Pardo - detassare perché gli imprenditori creino ricchezza - non mi sembra proponibile. O può funzionare per qualche tempo, come pure la ricetta di Keynes.
    Eppure ritengo ancora possibile arrivare a un compromesso ovvero a un accordo fra tutte le parti in causa (attualmente otto miliardi). In fondo l'economia sociale di mercato è una formula valida: si salva il mercato, l'impresa, la creatività umana, ma si procurano a tutti i beni indispensabili,
    almeno il minimo vitale (ovviamente su questo punto sarà difficile - ma non impossibile - accordarsi).

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    1. Caro Sergio, che il capitalismo sia il sistema economico migliore non credo che possa negarlo nessuno, che non sia offuscato da motivi ideologici.
      Non perchè sia privo di difetti, ne ha moltissimi, ma perchè l'alternativa, ovvero l'economia pianificata di Stato, è di gran lunga peggiore.

      Perchè nell'economia centralizzata un solo errore di pianificazione (causato da un burocrate particolarmente stupido o corrotto) determina la catastrofe di tutta l'economia, mentre nell'economia di mercato ci sono mille decisioni continue ed indipendenti dei vari imprenditori, che garantiscono sempre una certa quota di decisioni giuste.

      Il vero difetto del capitalismo, in fondo, è la sua efficienza, che danneggia terribilmente l'ambiente e porta al collasso il pianeta.
      Ma basterà questo per determinare la sua fine ? Forse no.
      Sarà sufficiente che la crisi ambientale spazzi via una grande parte del peso antropico (cosa tragica, ma possibile), ed ecco che l'economia di mercato sarà pronta a ripartire di nuovo.

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    2. A proposito della resilienza dell'economia di mercato, ecco cosa scrive Ugo Bardi nel suo post di ieri:

      << In effetti, la prossima crisi potrebbe rivelarsi così pesante da riportarci al Medioevo. Ma è anche vero che tutte le principali epidemie della storia hanno visto un robusto rimbalzo dopo il crollo.
      Consideriamo che, a metà del XIV secolo, la ”Peste Nera" aveva ucciso forse il 40% della popolazione europea, ma, un secolo dopo, gli europei scoprivano l'America e iniziavano il loro tentativo di conquistare il mondo.
      Può darsi che la peste nera sia stata determinante in questo rimbalzo: la riduzione temporanea della popolazione europea aveva liberato le risorse necessarie per un nuovo balzo in avanti.
      Potremmo vedere un rimbalzo simile della nostra società in futuro? Perchè no? >>

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  2. Critica facile, arte difficile.
    Vale anche per i marxisti e la loro proposta fallimentare.
    Comunque, sia marxisti che capitalisti (un bel duo affiatato, i primi non possono esistere senza i secondi) sono crescitisti "senza se e senza ma".
    Il problema e'... un problema di scala.
    Le piccole comunita' sono intrinsecamente "socialiste" nel senso che c'e minore alienazione, minore differenza di reddito.
    Per assurdo le uniche comuni che con disciplina sovrumana (sono quasi tutte deflagrate, le comuni sono degli straordinari generatori di odio) sono le uniche comunita' socialiste/comuniste con qualche autenticita'.
    I marxisti hanno la hybris di volersi sostituire alle religioni ugualiste tradizionali o solo meno recenti (illuminismo).
    I capitalisti vogliono il profitto che si ottiene dalla massimizzazione (quella massima e' quella planetaria) degli affari.
    Non e' affatto un caso che i piu' grandi finanziatori della sinistra (e.g Georges Soros, oppure le varie castalie ultracapitalistiche alla Zuckierberg, etc.) siano sostenitori feroci della globalizzazione e delle distruzione delle identita', delle culture locali, del radicamento.

    Io voglio guardare al problema della scala perche' li' e' possibile trovare delle migliorie.

    Buonasera, Lumen.

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    1. Caro UUIC,
      ti ringrazio per il tuo intervento e le tue considerazioni, che condivido senz'altro.
      In particolare, hai perfettamente ragione quando dici che solo "le piccole comunità sono intrinsecamente socialiste" nel senso che c'è minore alienazione, minore differenza di reddito".

      Il fatto è che nelle piccole comunità prevale il rapporto interpersonale, in luogo di quello formale-normativo e questo cambia tutto.
      Non per nulla, il regno assoluto del comunismo è la famiglia, nella quale davvero si può applicare la regola aurea del comunismo, ovvero "da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni".
      Ma nella famiglia, come (spesso) nelle piccole comunità, comanda la vicinanza genetica, l'unica che può costringere il gene egoista ad essere anche (un poco) altruista.

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  3. COMMENTO DI SERGIO

    Stanno tutti aspettando che finisca questa storia del coronavirus per ... ripartire (insomma, "come prima più di prima ... ti amerò").
    Si stanno pompando somme mostruose per tappare tutti i buchi possibili, venire incontro ai bisogni di tutti (lavoratori, imprese) e ricominciare (rilancio dell'economia, crescita à gogo - "non c'è alternativa", alternativlos dicono i crucchi - e invece è nato un nuovo partito che si chiama Alternativa per la Germania, AFD - ovviamente un partito di estrema destra, sovranista, nazionalista, razzista, fascista ecc. ecc., un partito con cui Angela non parla nemmeno, lei la ex comunista).
    L'operazione rilancio dell'economia si prospetta però stavolta difficile, questa "strana" epidemia è una brutta gatta da pelare, che sia naturale o indotta.

    Ma c'è una cosa, caro Lumen, a cui non hai risposto. Fermo restando che non vogliamo falcidiare l'umanità, eliminare miliardi di esseri umani (come sognava il principe Filippo) siamo posti davanti al grave problema di come sovvenire ai bisogni primari degli attuali otto miliardi. E pensare che con la detassazione - ricetta Pardo - o con il capitalismo ovvero con il libero mercato si risolverà questo problema immenso, mi sembra molto opinabile.
    Sia come sia (rivoluzione industriale, petrolio, esplosione demografica ecc.) siamo ormai tanti, probabilmente troppi, e non vedo proprio come si possa risolvere il problema. Forse è insolubile e finirà male.
    Comunque tengo a precisare (l'ho sempre detto) che quelli che ci sono (8 miliardi) - e per conto mio potete aggiungerne altri di miliardi (abbondiamo, diciamo 10-12 miliardi - CI SONO e non voglio ammazzarli come insinuava Lorenzo.
    Ecco, come pensi, come pensate di organizzarci per sopravvivere (perché alla fine si tratterà di questo soltanto: sopravvivere)? Economia sociale di mercato? Di fronte a certe cifre - 8, 9, 10, 12 miliardi di esseri umani - anche l'economia sociale di mercato sembra una formuletta da quattro soldi.
    A meno che ... mah, chissà, forse il termitaio o formicaio umano troverà più o meno spontaneamente un suo equilibrio e sopravvivrà.
    Quando è che avete visto l'ultima volta un formicaio? Ce n'è uno vicino a casa mia, è uno spettacolo. Le formiche sono operose, sempre in movimento, si scansano che è una bellezza (non si danno capocciate) e il tutto funziona a meraviglia. Che sia forse questo il destino dell'umanità, facilitato dalla tecnologia (5G, tutti interconnessi)?

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    1. << Fermo restando che non vogliamo falcidiare l'umanità, eliminare miliardi di esseri umani (...) siamo posti davanti al grave problema di come sovvenire ai bisogni primari degli attuali otto miliardi. >>

      Caro Sergio, certamente nessuno intende procedere, di proposito, alla falcidia di una parte della popolazione umana.
      Questa però potrebbe avvenire ugualmente, indipendentemente dalla nostra volontà.
      Potrebbe essere determinato da un nuovo virus ancora più potente e letale, o da gravi problemi alimentari (siccità e simili), o da atti di violenza sociale (guerre e sommosse), oppure da altro ancora.

      Noi siamo abituati, nella vita di oggi, ad un grado elevato di controllo dell'ambiente e diamo per scontanto che il principio di precauzione (che applichiamo quasi in ogni circostanza) ci salverà praticamente da ogni rischio.
      Ma la natura è molto più potente di noi, ed anche (come diceva il grande Leopardi) spietatamente indifferente.

      Tutto in natura, dalle leggi della fisica a quelle della chimica, tende all'equilibrio.
      E la presenza umana non può fare eccezione, se non per breve tempo.
      Pertanto, se non sarà possibile gestire 8 miliardi di persone in una stato di equilibrio (e io non credo che sia possibile), succederà qualcosa che ci riporterà ad un livello di stabilità inferiore.

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  4. COMMENTO DI SERGIO

    1. Interessante: il comunismo funziona in famiglia per la vicinanza genetica. Vale lo stesso per i piccoli gruppi o tribù nei villaggi di una volta o forse ancora dell'Amazzonia? Io invece pensavo che fossero la vicinanza, la familiarità, la reciproca conoscenza e l'appartanenza a un destino comune a rendere gli individui meno aggressivi o anche cooperativi, non per una questione genetica. Ma ciò è possibile appunto solo in comunità di ristretto numero (mi sembra che una volta tu abbia citato un numero, credo 150 persone). Superato un certo numero ci vogliono regole, regolamenti, prescrizioni, divieti, leggi impersonali.


    2. "Tutto in natura, dalle leggi della fisica a quelle della chimica, tende all'equilibrio. Pertanto, se non sarà possibile gestire 8 miliardi di persone in una stato di equilibrio (e io non credo che sia possibile), succederà qualcosa che ci riporterà ad un livello di stabilità inferiore. ”

    Intendi che il livello di stabilità inferiore comporterà inevitabilmente anche un numero inferiore di individui? Forse non necessariamente. Scoperte, tecnologia e quant’altro potrebbero permettere il mantenimento indefinito di civiltà e stabilità, persino superiore a oggi, di una tale massa d’individui. Ho però dei seri dubbi in proposito, molto più probabile un collasso. A meno che non arrivi la fusione nucleare di Agobit … con cui potremmo produrre scemenze di ogni genere à gogo.

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    1. 1 - Ti confermo che la cooperazione da vicinanza ha basi genetiche. Il che non vuol dire che funzioni solo per i consanguinei, in quanto il fenotipo non può conoscere tutti i legami.
      Può però partire dal presupposto (statisticamente corretto nelle società pre-moderne) che chi gli vive vicino è un suo parente.
      Il numero ottimale per una interazione collaborativa è detto numero di Dumbar (dallo studioso che l'ha elaborato) e corrisponde a circa 100 persone, con un massimo di 150.

      2 - Può darsi che la tecnologia consenta la coesistenza pacifica di 8 miliardi di persone, ma l'ambiente, secondo me, non potrà sopportarne il carico.
      Pertanto ritengo estremamente probabile una riduzione per via traumatica.

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