Come
ho già accennato in altre occasioni, considero il pensiero marxista
eccellente nell’analisi dei fatti storici ed economici, ma
decisamente carente, quasi ingenuo, nelle proposte politiche.
Non
fa eccezione il pezzo che segue, scritto (benissimo) da Moreno
Pasquinelli per il sito Sollevazione, in cui si parla di Marx, di
Keynes, di capitalismo e di sovrapproduzione, oltreché,
inevitabilmente, di socialismo e rivoluzione.
L’analisi
– pur essendo stata scritta prima dell'attuale crisi di pandemia –
non ha perso nulla della sua validità ed attualità.
LUMEN
<<
L'attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi
la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia
liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura
squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo
egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare
quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il
“mercato” il sistema che meglio di ogni altri contribuisce alla
ricchezza generale e alla sua equa distribuzione. (...)
Ci
si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito
spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge
l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le
devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del
crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”,
troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale
del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni.
Questo
contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale
studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni (...), lungi dal
risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto
collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare
eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti. Assistiamo,
di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J.
M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte
degli economisti (…) si consideri keynesiana. (…)
Keynes,
malgrado avesse colto le contraddizioni profonde insite nel modo
capitalistico borghese, non ha mai nascosto la sua predilezione per
il sistema capitalistico, ne ha mai fatto mistero della sua
avversione verso il marxismo e l’ideale socialista. Keynes si
considerava anzi il medico la cui missione era appunto salvare un
capitalismo affetto da malattie e contraddizioni congenite, che se
lasciato a sé stesso sarebbe anzi andato incontro alla morte. (…)
L’analisi
di Keynes faceva perno su una premessa: che la devastante crisi del
1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento una legge
caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta
la neutralità della moneta considerata solo mezzo di scambio) il
mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e
domanda sia di beni che di capitali. (…) Per Keynes il mercato non
assicurava [di per sé] né la piena occupazione né un’equa
distribuzione della ricchezza.
Keynes
non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le aporie dei
neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale
il denaro non fungeva solo da (1) parametro per misurare
valori/prezzi e (2) come mezzo di circolazione: il denaro era anche
(3) uno strumento di tesaurizzazione.
Nei
cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi
di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro
tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per
avvizzire sotto il materasso, piuttosto per lievitare nella sfera
della speculazione finanziaria.
In
termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato, non solo
non c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di
beni, e non esiste alcuna garanzia che il risparmio accumulato
ritorni nel mercato sotto forma d’investimenti, il che condetermina
la crisi, la stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi.
Ma la crisi giunge sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita
enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi destinata
al risparmio (tesaurizzazione) invece che agli investimenti.
Visto
che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e solo crisi di
sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra
eccesso di offerta e insufficienza della domanda? E di chiudere la
forbice tra la massa accumulata di denaro che se ne sta ferma
tesaurizzata, e quella decrescente che si muove nel mercato dei
capitali produttivi? Facendo leva su due fattori principali:
sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la
tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”).
Ma
quali sono queste leve? Dal momento che il mercato non è capace da
solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una forza
esterna ad essi, l’autorità statuale titolare di facoltà
d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il
mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle
merci, dei capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua
insindacabile sovranità politica, giuridica e monetaria, deve
intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e quattro.
In
prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti privati e
creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria
flessibile, abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando
così la tesaurizzazione, o l’eccessivo accumulo di risparmi.
In
seconda battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato
dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una imposizione
progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della
ricchezza verso i redditi medio-bassi, che per Keynes hanno una più
decisa propensione al consumo. (...)
Infine
Keynes proponeva che lo Stato varasse un ampio piano di lavori
pubblici, da finanziare con una politica di ‘deficit spending’,
ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai
propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso
(denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di
occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in
eccesso. (…)
Marx
la pensava diversamente, (…) e riteneva che il modo capitalistico
di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno
quattro leggi principali:
(1)
più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa
implacabile, più i profitti sono destinati a scendere;
(2)
il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad
ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è
tanto più generale quanto più il boom è stato consistente;
(3)
il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera:
distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso,
con conseguenze sociali devastanti;
(4)
le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi
di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in
rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.
Queste
quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del capitalismo,
quella di sfociare nelle crisi di sovrapproduzione (…) che possono
essere parziali oppure generali, coinvolgendo tutti i comparti e
cronicizzarsi. E’ proprio quando l’economia incontra queste crisi
generali che immani quantità di capitali e forze produttive debbono
essere necessariamente distrutte, con conseguenze sociali
catastrofiche, con la società che è sospinta indietro di decenni.
Tuttavia
è proprio grazie a queste crisi, che attengono alla fisiologia
stessa del capitalismo, che esso può far ripartire un nuovo ciclo di
crescita, destinato a sua volta e sfociare in una nuova crisi. Lo
Stato della borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici
delle crisi di sovrapproduzione, differirli nel tempo, non può mai
essere risolutivo.
In
ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi alle fisiologiche
necessità della classe economicamente dominante e quindi, dentro la
crisi generale, passare allo Stato d’eccezione per scaricare i
costi della crisi sul lavoro salariato, soffocando la sua spinta
emancipatrice, e allo Stato di guerra per strappare spazi vitali a
capitalismi concorrenti.
La
storia ha confermato le analisi di Marx. I suoi detrattori invece lo
negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di un crollo
certo del capitalismo è stata invalidata. In verità, da nessuna
parte Marx ha sostenuto che il capitalismo fosse destinato al crollo,
se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un
meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo
“crollo”, come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto
occupare un lungo periodo storico di convulsioni. (…)
Non
vi aspettate che Marx abbia consigliato alla borghesia eventuali
terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un
rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato
questa consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del
problema, che le crisi cicliche generali sono il risultato necessario
del modo capitalistico di produzione, propose con forza (necessità
contro necessità) il dovere di oltrepassare il capitalismo e di
edificare sulle sue ceneri un sistema socialista. (…)
L’idea
del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che
la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e
razionale, al pari delle altre sfere della vita associata, quella
basilare, quella economica, finalizzandola al bene comune. Perché
tanta insistenza sull’aspetto economico? Per la ragione che è la
sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran parte bisogni
primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli
spirituali e culturali sarebbero menomati.
Per
realizzare questo controllo sociale, questo è il punto, occorre
sottrarre i mezzi di produzione e di scambio dal dominio proprietario
della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a
fare i suoi propri egoistici interessi, e diventare, al pari di tutti
gli altri beni comuni, proprietà sociale. (…) La statizzazione è
solo una forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la
statizzazione verticistica, che farebbe della burocrazia statale un
demiurgo autoritario, e la completa e orizzontale autogestione,
possono esistere innumerevoli soluzioni mediane.
E
della stessa pianificazione economica, considerata con orrore dai
liberisti, ne esistono svariate modalità. Lo stesso capitalismo, in
barba alla “mano invisibile del mercato” conosce plurime forme di
pianificazione: cos’altro è la politica economica keynesiana se
non una pianificazione generale? (…)
Fanno
altrettanto anche i grandi gruppi monopolistici, che crollerebbero
facilmente se non pianificassero fin nei dettagli tutto il ciclo
produttivo, dal reperimento delle materie prime alla
commercializzazione del prodotto finito. Solo un’economia
razionalmente pianificata può debellare la principale calamità che
affligge il capitalismo: la sovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile
sperpero di risorse e di energie consistente
nell’accumulare mezzi di produzione e beni (sotto forma di merci)
che non solo si riveleranno inutili alla società e dovranno essere
distrutti, ma che arrecano danni spesso irreversibili al nostro
pianeta. >>
MORENO
PASQUINELLI
COMMENTO DI SERGIO (inserito da me per motivi tecnici)
RispondiEliminaCaro Lumen, ho letto con molta attenzione questo articolo - nella speranza di acquisire qualche conoscenza utile. Non sono deluso, ma direi che c'è troppa carne al fuoco per poterne discutere pacatamente in un commento. Da dove cominciare del resto?
Tanto per dire qualcosa: la tesaurizzazione è davvero un male, asociale?
Gli Italiani sono tra i più grandi risparmiatori, ma non credo che lo facciano per speculare. Il risparmio (della formica) è cosa saggia, avrà da mangiare in inverno (ovvero in periodi di magra o di crisi). Errore, ci dicono oggi: bisogna spendere per mantenere in piedi la baracca. E visto che non lo volete capire introduciamo oggi i tassi negativi sui conti correnti, e domani aboliamo il contante obbligandovi a spendere i vostri soldi che se no si riducono (c'è chi dice che le banche potrebbero arrivare a tassi negativi financo del 10%, un autentico esproprio o furto).
È una spirale infernale: devi consumare per forza, se no ci rimetti. E se cominciassimo a discutere di questa ossessione consumistica che oltre tutto accresce l'inquinamento, il buco dell'ozono, lo sperpero inaudito di risorse per niente - produrre per produrre e distribuire salari -, ma anche di intelligenza e di energia?
Il fine del capitalismo non è il bene comune, ma il profitto (giusto, nessun moralismo). Ovviamente i beni prodotti soddisfano le richieste di almeno una parte della popolazione e sarebbero dunque - secondo Cipolla - degni di essere prodotti (chi giudica dell'opportunità di un prodotto? Il consumatore, punto e basta).
Ma ormai siamo quasi otto miliardi e dobbiamo metterci d'accordo almeno sul minimo indispensabile per tutti gli otto e gli ulteriori miliardi prossimi venturi. La ricetta di Pardo - detassare perché gli imprenditori creino ricchezza - non mi sembra proponibile. O può funzionare per qualche tempo, come pure la ricetta di Keynes.
Eppure ritengo ancora possibile arrivare a un compromesso ovvero a un accordo fra tutte le parti in causa (attualmente otto miliardi). In fondo l'economia sociale di mercato è una formula valida: si salva il mercato, l'impresa, la creatività umana, ma si procurano a tutti i beni indispensabili,
almeno il minimo vitale (ovviamente su questo punto sarà difficile - ma non impossibile - accordarsi).
Caro Sergio, che il capitalismo sia il sistema economico migliore non credo che possa negarlo nessuno, che non sia offuscato da motivi ideologici.
EliminaNon perchè sia privo di difetti, ne ha moltissimi, ma perchè l'alternativa, ovvero l'economia pianificata di Stato, è di gran lunga peggiore.
Perchè nell'economia centralizzata un solo errore di pianificazione (causato da un burocrate particolarmente stupido o corrotto) determina la catastrofe di tutta l'economia, mentre nell'economia di mercato ci sono mille decisioni continue ed indipendenti dei vari imprenditori, che garantiscono sempre una certa quota di decisioni giuste.
Il vero difetto del capitalismo, in fondo, è la sua efficienza, che danneggia terribilmente l'ambiente e porta al collasso il pianeta.
Ma basterà questo per determinare la sua fine ? Forse no.
Sarà sufficiente che la crisi ambientale spazzi via una grande parte del peso antropico (cosa tragica, ma possibile), ed ecco che l'economia di mercato sarà pronta a ripartire di nuovo.
A proposito della resilienza dell'economia di mercato, ecco cosa scrive Ugo Bardi nel suo post di ieri:
Elimina<< In effetti, la prossima crisi potrebbe rivelarsi così pesante da riportarci al Medioevo. Ma è anche vero che tutte le principali epidemie della storia hanno visto un robusto rimbalzo dopo il crollo.
Consideriamo che, a metà del XIV secolo, la ”Peste Nera" aveva ucciso forse il 40% della popolazione europea, ma, un secolo dopo, gli europei scoprivano l'America e iniziavano il loro tentativo di conquistare il mondo.
Può darsi che la peste nera sia stata determinante in questo rimbalzo: la riduzione temporanea della popolazione europea aveva liberato le risorse necessarie per un nuovo balzo in avanti.
Potremmo vedere un rimbalzo simile della nostra società in futuro? Perchè no? >>
Critica facile, arte difficile.
RispondiEliminaVale anche per i marxisti e la loro proposta fallimentare.
Comunque, sia marxisti che capitalisti (un bel duo affiatato, i primi non possono esistere senza i secondi) sono crescitisti "senza se e senza ma".
Il problema e'... un problema di scala.
Le piccole comunita' sono intrinsecamente "socialiste" nel senso che c'e minore alienazione, minore differenza di reddito.
Per assurdo le uniche comuni che con disciplina sovrumana (sono quasi tutte deflagrate, le comuni sono degli straordinari generatori di odio) sono le uniche comunita' socialiste/comuniste con qualche autenticita'.
I marxisti hanno la hybris di volersi sostituire alle religioni ugualiste tradizionali o solo meno recenti (illuminismo).
I capitalisti vogliono il profitto che si ottiene dalla massimizzazione (quella massima e' quella planetaria) degli affari.
Non e' affatto un caso che i piu' grandi finanziatori della sinistra (e.g Georges Soros, oppure le varie castalie ultracapitalistiche alla Zuckierberg, etc.) siano sostenitori feroci della globalizzazione e delle distruzione delle identita', delle culture locali, del radicamento.
Io voglio guardare al problema della scala perche' li' e' possibile trovare delle migliorie.
Buonasera, Lumen.
Caro UUIC,
Eliminati ringrazio per il tuo intervento e le tue considerazioni, che condivido senz'altro.
In particolare, hai perfettamente ragione quando dici che solo "le piccole comunità sono intrinsecamente socialiste" nel senso che c'è minore alienazione, minore differenza di reddito".
Il fatto è che nelle piccole comunità prevale il rapporto interpersonale, in luogo di quello formale-normativo e questo cambia tutto.
Non per nulla, il regno assoluto del comunismo è la famiglia, nella quale davvero si può applicare la regola aurea del comunismo, ovvero "da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni".
Ma nella famiglia, come (spesso) nelle piccole comunità, comanda la vicinanza genetica, l'unica che può costringere il gene egoista ad essere anche (un poco) altruista.
COMMENTO DI SERGIO
RispondiEliminaStanno tutti aspettando che finisca questa storia del coronavirus per ... ripartire (insomma, "come prima più di prima ... ti amerò").
Si stanno pompando somme mostruose per tappare tutti i buchi possibili, venire incontro ai bisogni di tutti (lavoratori, imprese) e ricominciare (rilancio dell'economia, crescita à gogo - "non c'è alternativa", alternativlos dicono i crucchi - e invece è nato un nuovo partito che si chiama Alternativa per la Germania, AFD - ovviamente un partito di estrema destra, sovranista, nazionalista, razzista, fascista ecc. ecc., un partito con cui Angela non parla nemmeno, lei la ex comunista).
L'operazione rilancio dell'economia si prospetta però stavolta difficile, questa "strana" epidemia è una brutta gatta da pelare, che sia naturale o indotta.
Ma c'è una cosa, caro Lumen, a cui non hai risposto. Fermo restando che non vogliamo falcidiare l'umanità, eliminare miliardi di esseri umani (come sognava il principe Filippo) siamo posti davanti al grave problema di come sovvenire ai bisogni primari degli attuali otto miliardi. E pensare che con la detassazione - ricetta Pardo - o con il capitalismo ovvero con il libero mercato si risolverà questo problema immenso, mi sembra molto opinabile.
Sia come sia (rivoluzione industriale, petrolio, esplosione demografica ecc.) siamo ormai tanti, probabilmente troppi, e non vedo proprio come si possa risolvere il problema. Forse è insolubile e finirà male.
Comunque tengo a precisare (l'ho sempre detto) che quelli che ci sono (8 miliardi) - e per conto mio potete aggiungerne altri di miliardi (abbondiamo, diciamo 10-12 miliardi - CI SONO e non voglio ammazzarli come insinuava Lorenzo.
Ecco, come pensi, come pensate di organizzarci per sopravvivere (perché alla fine si tratterà di questo soltanto: sopravvivere)? Economia sociale di mercato? Di fronte a certe cifre - 8, 9, 10, 12 miliardi di esseri umani - anche l'economia sociale di mercato sembra una formuletta da quattro soldi.
A meno che ... mah, chissà, forse il termitaio o formicaio umano troverà più o meno spontaneamente un suo equilibrio e sopravvivrà.
Quando è che avete visto l'ultima volta un formicaio? Ce n'è uno vicino a casa mia, è uno spettacolo. Le formiche sono operose, sempre in movimento, si scansano che è una bellezza (non si danno capocciate) e il tutto funziona a meraviglia. Che sia forse questo il destino dell'umanità, facilitato dalla tecnologia (5G, tutti interconnessi)?
<< Fermo restando che non vogliamo falcidiare l'umanità, eliminare miliardi di esseri umani (...) siamo posti davanti al grave problema di come sovvenire ai bisogni primari degli attuali otto miliardi. >>
EliminaCaro Sergio, certamente nessuno intende procedere, di proposito, alla falcidia di una parte della popolazione umana.
Questa però potrebbe avvenire ugualmente, indipendentemente dalla nostra volontà.
Potrebbe essere determinato da un nuovo virus ancora più potente e letale, o da gravi problemi alimentari (siccità e simili), o da atti di violenza sociale (guerre e sommosse), oppure da altro ancora.
Noi siamo abituati, nella vita di oggi, ad un grado elevato di controllo dell'ambiente e diamo per scontanto che il principio di precauzione (che applichiamo quasi in ogni circostanza) ci salverà praticamente da ogni rischio.
Ma la natura è molto più potente di noi, ed anche (come diceva il grande Leopardi) spietatamente indifferente.
Tutto in natura, dalle leggi della fisica a quelle della chimica, tende all'equilibrio.
E la presenza umana non può fare eccezione, se non per breve tempo.
Pertanto, se non sarà possibile gestire 8 miliardi di persone in una stato di equilibrio (e io non credo che sia possibile), succederà qualcosa che ci riporterà ad un livello di stabilità inferiore.
COMMENTO DI SERGIO
RispondiElimina1. Interessante: il comunismo funziona in famiglia per la vicinanza genetica. Vale lo stesso per i piccoli gruppi o tribù nei villaggi di una volta o forse ancora dell'Amazzonia? Io invece pensavo che fossero la vicinanza, la familiarità, la reciproca conoscenza e l'appartanenza a un destino comune a rendere gli individui meno aggressivi o anche cooperativi, non per una questione genetica. Ma ciò è possibile appunto solo in comunità di ristretto numero (mi sembra che una volta tu abbia citato un numero, credo 150 persone). Superato un certo numero ci vogliono regole, regolamenti, prescrizioni, divieti, leggi impersonali.
2. "Tutto in natura, dalle leggi della fisica a quelle della chimica, tende all'equilibrio. Pertanto, se non sarà possibile gestire 8 miliardi di persone in una stato di equilibrio (e io non credo che sia possibile), succederà qualcosa che ci riporterà ad un livello di stabilità inferiore. ”
Intendi che il livello di stabilità inferiore comporterà inevitabilmente anche un numero inferiore di individui? Forse non necessariamente. Scoperte, tecnologia e quant’altro potrebbero permettere il mantenimento indefinito di civiltà e stabilità, persino superiore a oggi, di una tale massa d’individui. Ho però dei seri dubbi in proposito, molto più probabile un collasso. A meno che non arrivi la fusione nucleare di Agobit … con cui potremmo produrre scemenze di ogni genere à gogo.
1 - Ti confermo che la cooperazione da vicinanza ha basi genetiche. Il che non vuol dire che funzioni solo per i consanguinei, in quanto il fenotipo non può conoscere tutti i legami.
EliminaPuò però partire dal presupposto (statisticamente corretto nelle società pre-moderne) che chi gli vive vicino è un suo parente.
Il numero ottimale per una interazione collaborativa è detto numero di Dumbar (dallo studioso che l'ha elaborato) e corrisponde a circa 100 persone, con un massimo di 150.
2 - Può darsi che la tecnologia consenta la coesistenza pacifica di 8 miliardi di persone, ma l'ambiente, secondo me, non potrà sopportarne il carico.
Pertanto ritengo estremamente probabile una riduzione per via traumatica.