Si
dice che la quota di arte falsa esposta nei musei del mondo sia
incredibilmente alta, di gran lunga superiore ai casi manifesti.
Spesso
lo si scopre per caso, in seguito a restauri o grazie ad un’indagine
condotta da un curatore. Altre volte per via giudiziaria, in quanto i
musei sono stati ingannati volutamente da qualcuno.
Ma
nella maggioranza dei casi è possibile che nessuno si accorga mai di
nulla.
Ovviamente,
e per fortuna, a volte accade il contrario ed alcuni dipinti
considerati di autori minori, vengono riconosciuti come grandi opere.
Ma ci sono anche dei casi limite, in cui la realtà supera la
fantasia, come nella complicata vicenda di De Chirico “falsario di
se stesso”.
Il testo è tratto dal sito del Corriere della Sera. Buona lettura.
LUMEN
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La vicenda [del quadro ‘Piazza d’Italia’ di Giorgio de Chirico]
è assai nota nell’ambiente dell’arte.
All’epoca
ebbe una risonanza internazionale, vuoi per la notorietà delle
persone coinvolte, vuoi perché su di essa pesava l’ipotesi di un
complotto. Il principale attore le dedicò ampio spazio nelle sue
memorie, uno spazio pari a quello che riservò agli anni cruciali
della sua vita, gli anni compresi tra il 1911 e il 1915, quelli che
Giorgio De Chirico (giacché di lui parliamo) trascorse per lo più a
Parigi, dipingendo opere destinate ad avere un’incidenza
fondamentale sugli sviluppi dell’arte contemporanea.
Il
fatto in questione risale però all’immediato secondo dopoguerra.
Era un pomeriggio d’aprile del 1947 quando una signora si presentò
nello studio dell’artista per mostrargli una Piazza d’Italia,
ossia un tipico esempio della pittura metafisica che egli era andato
elaborando proprio nel suo periodo parigino. La firma datata sulla
tela diceva infatti: «1913».
Appena
vide il quadro, De Chirico comprese però che si trattava di un falso
e, d’imperio, lo sequestrò: «Il meno che potevo fare era di
fermarlo onde non circolasse più. Non l’avessi mai detto: quella
signora cominciò a strillare e a dire che quello che volevo fare era
una cosa gravissima, che il quadro era stato affidato a lei, che lei
ne era responsabile, che il quadro aveva un valore enorme, ecc.
ecc.».
Per
chi compra arte o se ne fa garante, per chi colleziona o si dichiara
esperto, quel che De Chirico liquida con un «ecc. ecc.» è
l’insidia peggiore. E non sono tanto i danni materiali, ai quali in
fondo si può trovare rimedio, quanto quelli morali, il vero
problema. Lo smacco, l’umiliazione, la perdita di credibilità.
Diceva
Friedrich Winkler, storico dell’arte, che per affinare la propria
capacità di distinguere ciò che è autentico, il migliore esercizio
è riconoscere ciò che è falso. Ed è così. Disquisendo attorno
alle opere autentiche si corrono rischi scarsissimi. Sull’effettiva
bellezza di un’opera autentica si può bisticciare all’infinito,
come pure sul suo significato, su quel che l’artista ha inteso
comunicare. Ma quando ci si imbatte in un falso, le opinioni contano
poco o nulla. Un’opera o è buona o non lo è. Non riconoscere un
falso significa annientare d’un colpo la propria reputazione di
intenditore, di ‘connoisseur’ a vario titolo.
Ferite
che lasciano cicatrici. Il grande pubblico ancora sghignazza se
ripensa alla sicumera con cui certi critici insigni scorsero la mano
di Modigliani in tre false sculture riemerse dalle acque di un canale
livornese. Meno noto, ma ancor più sconcertante, è l’infortunio
capitato al Victoria Museum di Melbourne; soltanto nel 2007 si è
scoperto che un Van Gogh orgogliosamente esposto nelle sue sale per
ben 67 anni era un falso.
In
realtà, si dovrebbe essere più comprensivi. Riconoscere un’opera
d’arte contraffatta è a sua volta un’arte. Un’arte difficile
per di più. Persino più difficile dell’arte della falsificazione
stessa, che pure richiede abilità non indifferenti.
Non
per nulla Eric Hebborn, leggendario contraffattore inglese scomparso
nel 1996, ricorda che in passato «non soltanto gli artisti si
formavano eseguendo copie e imitazioni, ma anche gli studiosi e tutti
coloro che volevano diventare esperti». Tirando per i capelli il
principio di Aristotele per cui l’arte è in primo luogo
imitazione, il famigerato Hebborn cercò di nobilitare il proprio
mestiere sostenendo che la sola differenza tra artisti e falsari è
che i primi imitano la natura, mentre i secondi imitano l’arte.
Il
caso De Chirico è tuttavia più ingarbugliato. L’eccetera eccetera
ebbe un lungo strascico fatto di carte bollate, tribunali e verdetti
contrastanti. L’artista sbandierò ai quattro venti la sentenza
della Cassazione per avvalorare il teorema che l’ossessionava da
tempo: erano i surrealisti a invadere il mercato di sue tele apocrife
e ciò allo scopo di screditarlo. In prima istanza, però, i giudici
si erano espressi diversamente, stabilendo che il pittore aveva
mentito. Ma, se così stavano davvero le cose, perché mai l’artista
avrebbe negato l’autenticità del dipinto? E soprattutto: perché
mai gli premeva tanto toglierlo dalla circolazione?
Domande
cui danno risposta definitiva Paolo Baldacci e Gerd Roos, profondi
conoscitori del maestro, che hanno ricostruito la vicenda in Piazza
d’Italia. Con un piglio da ‘legal thriller’, il loro libro
[“Giorgio de Chirico, Piazza d'Italia”] risolve un mistero
dell’arte moderna e fa luce sul lato oscuro di un genio. Racconta
la storia di un uomo dal carattere fragile e irriflessivo che per
turlupinare galleristi e collezionisti divenne il principale falsario
di se stesso. Ai «veri» falsi che già inquinavano il mercato, si
aggiunsero quindi i falsi veri realizzati da de Chirico stesso.
Da
un certo momento in poi, il pittore cominciò infatti a realizzare
copie del periodo metafisico delle Piazze d’Italia. Copie spesso
mal dipinte che retrodatava per venderle a un prezzo più alto,
perché il periodo metafisico era quello che tutti volevano. Lo fece
sia per lucro, ovvio, sia per vendicarsi del mondo, della modernità
che detestava. Così facendo si screditò, ma dimostrò al contempo
che il falso può avere un suo doppio, qualcosa di autentico che,
alla maniera di un lapsus, lo rende più rivelatore del vero. >>
TOMMASO
PINCIO
Strana storia. Giorgio de Chirico sencondo me non ci fa una bella figura, sia che abbia creato dei falsi per lucro che per prendersi gioco di critici e amatori d'arte. Giorgio aveva una fratello, Alberto Savinio (nome d'arte), un notevole artista e intellettuale (musicista, pittore, scrittore). Mentre la pittura di Giorgio, almeno quella prima maniera, è "metafisica" (chissà cosa vuol dire), quella di Alberto è "allegra", ma non superficiale. Io preferisco l'allegria di Alberto alla metafisica di Giorgio. Che però a un certo punto cambiò stile diventando, a detta di Alberto, "pompiere", cioè tradizionale. Tanto che i due andarono in rotta.
RispondiEliminaAlberto Savinio scrittore è esilarante, ma anche acuto. Fu riscoperto o rilanciato da Leonardo Sciascia che curò un grosso volume di "Scritti dispersi" (interessantissimi, godibilissimi). Fra l'altro Savinio era per l'abbattimento dei confini e un'Europa unita, ma era il suo stato d'animo dopo la guerra (e non eravamo ancora 7,7 miliardi ...).
Secono me, De Chirico è stato un artista modesto, che ha avuto però la fortuna (o l'abilità) di inventarsi uno stile pittorico nuovo, quello della metafisica appunto, che lo ha fatto emergere.
EliminaNon dimenticare che nel novecento l'abilità tecnica non aveva nessuna importanza nell'arte: l'unica cosa che contava era inventarsi qualcosa di nuovo, era la novità in quanto tale.
E lui ci era riuscito.
A conferma della pochezza artistica della pittura metafisica, ti riporto qui di seguito un breve estratto della pagina Wiki:
Elimina<< I caratteri fondamentali della pittura Metafisica sono:
= La prospettiva del quadro è costruita secondo molteplici punti di fuga incongruenti tra loro (l'occhio è costretto a ricercare l'ordine di disposizione delle immagini);
= Assenza di personaggi umani quindi solitudine: vengono rappresentati manichini, statue, ombre e personaggi mitologici;
= Campiture di colore piatte e uniformi;
= Scene che si svolgono al di fuori del tempo;
= Le ombre sono troppo lunghe rispetto agli orari del giorno rappresentato. >>
Purtroppo anche per Alberto Savinio la novità è tutto. Dico purtroppo perche qui non lo seguo. Per Savinio il concetto di bello è obsoleto, ciò che conta è l'invenzione, la novità. In altre parole anche il brutto è bello basta che sia nuovo. È la novità, l'invenzione che conta non la riproposta del vecchio concetto di bello. Quanto dire che ogni schifezza va bene purché sia nuova di zecca. Assurdo. A me continuano a piacere tanti capolavori dell'arte antichi (la Nunziata di Antonello, l'Annunciazione dell'Angelico ecc.) e mi piace molto meno, anzi per niente, il cubismo, l'astrattismo in genere.
RispondiEliminaÈ chiaro che la pura replica dell'antico non è vera arte, è solo imitazione. Non avrebbe senso riscrivere Guerra e Pace o I Promessi Sposi, esistono già. Ma che la novità in sé sia già arte, cioè qualcosa che ti rapisce, ti entusiasma, ti comunica qualcosa di grande o ineffabile, mi sembra una sciocchezza.
Per secoli o persino millenni gli antichi egizi hanno fatto sempre le stesse cose.
Oggi naturalmente non possiamo accontentarci di repliche e imitazioni, saremmo pompieri, come era diventato Giorgio per Savinio. Gli artisti o cosiddetti tali sono ormai eserciti e tutti devono in qualche modo differenziarsi per essere notati o sono diversi per natura. Ma per "piacere", toccarci nel profondo, devono creare bellezza, e non è proprio da tutti. C'è un pittore cattolico, G. Gasparro, che dipinge quadri religiosi che trovo molto attraenti e sconvolgenti. Meglio questi di certi mostri picassiani.
Che cosa è un capolavoro? Il critico letterario americano Harald Bloom, recentemente scomparso, ne dà una definizione semplice e pertinente: è un'opera che entusiasma. Piacere soltanto è troppo poco, deve proprio entusiasmarci. Nelle lettere per lui il più grande è Shakespeare. Tra i cento geni a cui ha dovuto limitarsi per il suo canone (Il Genio) ha messo cinque italiani: Dante, Leopardi, Pirandello, Italo Calvino e Montale. Be', gli ultimi tre proprio geni non li definirei. Mi piacciono, ma appunto non mi
entusiasmano.
<< Che cosa è un capolavoro? Il critico letterario americano Harald Bloom, recentemente scomparso, ne dà una definizione semplice e pertinente: è un'opera che entusiasma. >>
EliminaNon conoscevo questa definizione, ma mi piace molto.
Grazie per avermela segnalata.
Ovviamente, in questo giudizio, c'è anche una quota di soggettività.
I grandi geni, però, sono quelli che sono riusciti ad entusiasmare tutti (o quasi tutti).