Un
pezzo magistrale di Carlo Formenti (tratto dal suo libro “Il
socialismo è morto, viva il socialismo” e pubblicato dal sito
‘Sollevazione’) sulle differenze esistenti tra il nazionalismo
classico “di destra” e quello, forse meno noto, “di sinistra”.
Da
buon marxista, Formenti è eccezionale nella sua analisi
storico-politica (che – in quanto elitista – condivido) ed
inevitabilmente ingenuo nella parte propositiva. Ma non si può avere
tutto.
Il
post, molto lungo, è stato diviso in 4 parti per comodità di
lettura.
LUMEN
<<
1 - Il ‘populismo’ non è un’ideologia: in primo luogo perché
non esistono testi “fondativi” (paragonabili a quelli di Marx per
la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al
discorso populista, poi perché quest’ultimo non è associato a
contenuti programmatici univoci.
Di
più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai
populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento
(entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi
sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron,
Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia,
Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi,
orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi
contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs
Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs
Ciudadanos in Spagna).
Esistono
tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo. Mi
riferisco, in particolare, all’uso di un linguaggio semplificato e
diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice
parlare alla “pancia” delle persone) e teso a istituire
opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per
i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza
politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e
categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di
sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado
di creare un inedito senso comune (…).
2
- Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità
“naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso
politico (a differenza del popolo evocato dal nazi-fascismo, che
rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico,
storico-culturale ecc.). Si tratta al contrario d’una costruzione
politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di
potere consolidato. Il “momento populista” sorge quando una
determinata formazione egemonica (come il sistema
liberal-democratico) non è più in grado di far fronte alla
proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte.
L’accumularsi
di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo
differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si
stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad
accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per
l’emergenza di un popolo, che altro non è se non l’insieme dei
soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti
dell’oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere
economico, politico e mediatico.
In
altre parole, si potrebbe dire che è solo attraverso la relazione
con un sistema di potere vissuto come nemico che si costituisce
l’identità di un popolo. L’unità politica del popolo, in quanto
insieme eterogeneo di settori che vivono una contraddizione
antagonistica con il potere, non è a sua volta un dato: è essa
stessa il prodotto di un progetto di costruzione politica.
Il
“colore” di tale progetto dipende da quale delle domande
insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il
ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per
esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per
esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di
uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli
effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il
programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è
uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e
di sinistra.
3
- Le sinistre tradizionali (social-democratiche e radicali) negano a
priori che possano esistere populismi di sinistra, al punto che fanno
un uso spregiativo dell’aggettivo populista come sinonimo di
reazionario (o addirittura fascista). C’è chi ha giustamente
commentato che populista è l’aggettivo cui la sinistra ricorre per
designare il popolo quando quest’ultimo smette di accordarle
fiducia.
Dopodiché
esistono molti criteri per distinguere fra populismi di destra e
sinistra: i primi rappresentano il popolo come insieme della “gente
comune”, i secondi come insieme degli strati inferiori della
popolazione; i primi si propongono di “sanare” l’ordine
politico strappandone il controllo alla “casta”, senza metterne
in discussione le strutture sociali e istituzionali, i secondi
rivendicano obiettivi anticapitalisti più o meno espliciti e
radicali e si propongono di democratizzare lo Stato.
Non
si può tuttavia negare che esistano zone grigie in cui le visioni si
sovrappongono: dall’opposizione fra localismo e cosmopolitismo a
quella fra valori comunitari e individualismo borghese,
all’atteggiamento critico nei confronti dell’esaltazione del
nuovo e della modernità.
4
- Anche se e quando riconoscono l’esistenza di populismi di
sinistra, le sinistre tradizionali ne contestano la rappresentazione
del popolo come totalità che prescinde dalle divisioni di classe
(…). Qui entra in gioco un nodo cruciale, che occorre sciogliere se
si vuole cogliere l’essenza del fenomeno populista come forma della
lotta di classe nell’era del capitalismo globalizzato e
finanziarizzato. Le ambiguità ideologiche del populismo sono
inevitabili nella misura in cui esprimono ampie alleanze fra classi
sociali, a loro volta incerte sulla propria identità, nonché prive
di autonomia politica e autocoscienza.
La
grande narrazione marxista si è sempre fondata sulla ricerca di un
soggetto rivoluzionario privilegiato. Tale ricerca suona
anacronistica in un’epoca in cui ristrutturazione capitalistica,
de-localizzazioni produttive, globalizzazione e finanziarizzazione
dell’economia, annientamento delle rappresentanze tradizionali
degli interessi proletari hanno causato una stratificazione delle
classi subalterne, fino a ridurle ad amorfo insieme di individui. In
tale contesto la classica contraddizione fra capitale e lavoro sembra
lasciare il campo alla contraddizione ‘capitale contro tutti’.
In
effetti, è questa la filosofia che ispira la categoria
post-operaista di “moltitudine”, fondata sulla tesi che il
capitalismo contemporaneo mette al lavoro la vita stessa. Ma tale
visione ha il difetto di riproporre la logica della definizione di un
Soggetto salvifico della rivoluzione: la si potrebbe descrivere come
il tentativo di estendere l’identità operaia all’umanità
intera. La logica gramsciana della costruzione di un blocco sociale
articolato su differenti classi, gruppi e identità collettive appare
assai più realistica.
Nella
versione del populismo di sinistra tale logica assume una coloritura
“plebea”, nella misura in cui l’analisi della composizione di
classe viene di fatto ricondotta alla distinzione fra tre grandi
“stati” postmoderni: oligarchi, classe media e un gigantesco
terzo Stato composto da tutti i perdenti della globalizzazione. Di
conseguenza, l’obiettivo diventa costruire il blocco sociale fra
terzo Stato e classi medie impoverite e/o minacciate dalla
globalizzazione (per esempio, piccoli-medi imprenditori). Per
concludere: costruire l’unità popolare significa organizzare il
potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del
movimento operaio non funzionano più.
5
- Un altro aspetto del populismo che irrita le sinistre è
l’impossibilità di fare a meno della figura di un leader
carismatico. Queste forze presentano un contraddittorio miscuglio di
democraticismo (contingentamento dei tempi di intervento nelle
assemblee, reversibilità delle cariche, vincolo di mandato per gli
eletti a cariche istituzionali, esaltazione della Rete come canale di
partecipazione democratica ecc.) e centralizzazione del ruolo di
direzione politica che, quasi sempre, si concentra nelle mani di un
leader e del “cerchio magico” dei suoi più stretti collaboratori
e consiglieri.
Premesso
che l’esaltazione del leader è un elemento ricorrente anche nella
storia del movimento operaio, alcuni suggeriscono che sia possibile
distinguere fra populismo di destra e di sinistra proprio a partire
dalla rappresentazione del leader, il quale è, per il primo, un uomo
dotato di virtù eccezionali che si eleva al di sopra della massa,
per il secondo un uomo dotato di qualità non comuni ma non diverso
dall’uomo comune, un ‘primus inter pares’.
Non
credo però che il vero problema sia questo. Il punto è che tanto
l’esaltazione del leader quanto quella della democrazia diretta e
partecipativa rispecchiano la natura di forze politiche che sono
partiti-movimenti scarsamente istituzionalizzati. È possibile che
questa struttura rifletta una fase sperimentale e transitoria nel
percorso di ricerca di soluzioni organizzative e istituzionali alla
crisi della democrazia rappresentativa.
Che
le istituzioni liberali si siano trasformate in regimi
post-democratici, svuotando di senso qualsiasi reale possibilità dei
cittadini di condizionare le scelte del potere, è un dato di fatto.
Tale evoluzione può essere descritta come una sorta di divorzio fra
tradizione liberale e tradizione democratica (a sua volta riflesso
del divorzio fra democrazia e mercato). L’articolazione fra la
prima (fondata sul governo delle leggi, sulla libertà individuale e
sui diritti umani) e la seconda (fondata sulla sovranità popolare e
sui principi di uguaglianza e di parità fra governanti e governati)
si sta rivelando come il prodotto contingente di una fase storica in
via di esaurimento.
Se
le cose stanno così, è evidente che il populismo, con tutti i suoi
limiti e contraddizioni, rappresenta l’unico concreto tentativo di
reintrodurre l’elemento democratico negli attuali sistemi
rappresentativi. >>
CARLO
FORMENTI
(continua)
"Se le cose stanno così, ...."
RispondiEliminaAppunto, se. Io ci ho capito poco o niente. Mi sono annoiato, un gran blablablà senza capo né coda apparente (e in più ci saranno altre tre puntate ... mi sa che non le leggerò, tempo perso).
La gente ha bisogno di un reddito e, possibilmente, anche di un lavoro decente, utile, non massacrante. Il reddito ovviamente deve assicurare una vita decente e "dignitosa" a tutti (mi raccomando quel dignitosa, c'è nella costituzione e lo ricorda pure il papa). Vista così la questione è più semplice, non c'è bisogno di tante analisi come quella proposta E CHE PERSONE NORMALI, cioè la stragrande maggioranza, nemmeno capiscono, ci si perdono. Troppe parole, troppi sofismi quando la questione è semplice (a mio modo di vedere): come assicurare a tutti gli Italiani, anzi a tutta l'umanità, una vita decente? Solo lo Stato può garantire a tutti almeno il minimo necessario, non certo la libera impresa. La gente però preferirebbe il massimo al minimo, ma ci sono i limiti fisici del pianeta. Del resto essere tutti degli statali non è proprio il massimo. Uguaglianza, ridistribuzione della ricchezza, delle risorse ecc. Quale autorità può assicurare tutto ciò? Il governo mondiale? Vedi l'ultimo post di Lorenzo in cui si ricorda il lungimirante, anzi geniale Berlinguer, che ebbe - non fu certo il primo - la grande pensata del governo mondiale per assicurare la pace mondiale e la giustizia.
Caro Lumen, io volo basso, non mi piacciono i discorsi troppo complicati e fumosi. Ci risentiremo eventualmente dopo le tre prossime puntate.
P.S. Repetita juvant (forse). Tra dieci-dodici anni ci sarà un altro miliardo di persone da mantenere. La questione non interessa, c'è da mangiare per tutti - dicono soprattutto a sinistra. Da bere non si sa, forse liquami riprocessati cento volte. Si sta propagando una dieta mondiale a base di insetti (cavallette, lombrichi, forse anche scarafaggi), visto che il controfiletto ce lo possiamo, dobbiamo levarcelo dalla testa noi occidentali (per motivi di giustizia ed equità verso il resto del mondo). Ma cominciano a scarseggiare anche gli insetti ...
<< la questione è semplice (a mio modo di vedere): come assicurare a tutti gli Italiani, anzi a tutta l'umanità, una vita decente? Solo lo Stato può garantire a tutti almeno il minimo necessario, non certo la libera impresa. >>
EliminaDomanda interessante.
In effetti, la libera impresa da sola, forse, non ce la può fare.
Ma anche lo Stato da solo, ha un bel po' di limiti (basta vedere il marxismo applicato).
Diciamo che l'ideale risiede forse in una equilibrata commistione tra le due cose, che è in fondo la grande "invenzione" dell'occidente.
Ma anche la libera impresa temperata dalla carità privata (anche religiosa, se del caso) potrebbe non essere da meno, come efficienza.
In effetti con la cosiddetta economia sociale di mercato abbiamo già un buon mix di statale e privato. E non dimentichiamo che lo Stato è il più grande datore di lavoro (istruzione, ricerca, sanità, difesa, amministrazione e altro). Ma chiaramente non possiamo diventare tutti statali che sarebbe la società perfetta o comunista di Campanella e ... Toni Negri.
RispondiEliminaComunque l'esplosione demografica (sì, sono fissato) favorirà una qualche forma di comunismo. Lo Stato sarà sempre più costretto a intervenire per prevenire rivolte e rivoluzioni (ma col chip sottopelle o nel cervello fin dalla nascita dovremmo essere costantemente sotto controllo e se del caso eliminati come cellule tumorali).
<< l'esplosione demografica (sì, sono fissato) favorirà una qualche forma di comunismo. >>
EliminaQuesto è probabile, ma non credo che sarà una copia del comunismo storico che abbiamo conosciuto nel '900.
Probabilmente si tratterò si una dittatura soft, esercitata più con il controllo delle menti (tramite i media portatili, ormai onnipresenti) che con il manganello.
E se proprio mi trovassi a scegliere tra la padella e la brace, tutto sommato preferirei evitare il manganello.