Tra
i termini che hanno fatto versare nei secoli i classici ‘fiumi di
inchiostro’ per la loro analisi e comprensione, c’è sicuramente
“Felicità”, uno status di cui tutti abbiamo fatto esperienza
diretta e di cui tutti abbiamo tentato una definizione profonda, in
genere senza riuscirci.
L’enciclopedia
Treccani la definisce così: “Stato d’animo di chi è sereno, non
turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato“, ma
si avverte subito una sorta di inadeguatezza di fronte alla
descrizione formale di questo fenomeno così speciale.
Tra
le tante riflessioni sull’argomento, il cui elenco è quasi
sterminato, quella che mi ha colpito di più è stata quella che
Massimo Gramellini ha esposto recentemente sul Corriere della Sera
(nella sua rubrica quotidiana “Il caffè”) e che, guarda il caso,
viene direttamente dal mondo della scienza, anziché da quello della
filosofia (che sia una coincidenza ?). Buona
lettura.
LUMEN
<<
C’è stato un tempo infelice in cui anch’io collezionavo
definizioni sulla felicità. Da Epicuro a Seneca — gli «influencer»
del mondo classico — fino a Oscar Wilde, nessun fabbricante di
sentenze memorabili veniva risparmiato. Foglietti e foglietti gravidi
di citazioni. Ne avevo le tasche talmente piene che a un certo punto
ho cominciato a svuotarle. «La felicità è accontentarsi di quello
che si ha» lo gettai nella pattumiera durante una giornata di
particolare ingratitudine in cui mi sembrava di non avere più nulla.
Invece
«la felicità non è il traguardo, ma la strada per raggiungerlo»
lo accartocciai sul cruscotto dell’auto durante un ingorgo al
casello di Imperia. A furia di alleggerirmi, di foglietti in tasca me
ne sono rimasti soltanto due. Li hanno scritti James Hillman,
psicanalista junghiano, e Albano Carrisi, cantante pugliese.
Per
Hillman la felicità consiste nell’appagare il proprio «demone»,
cioè il proprio carattere, l’imprinting, il talento unico e
irripetibile che viene consegnato a ciascuno di noi al momento della
nascita. Purtroppo — lo spiega uno dei miti più intriganti di
Platone — un attimo prima di incarnarsi, l’anima beve l’acqua
del fiume della Dimenticanza e piomba nel mondo materiale senza
ricordarsi che cosa ci è venuta a fare: scrivere poesie, amare i
cani, giocare in Borsa o cucinare spaghetti al pomodoro? Se nel corso
del tempo riuscirà a scoprirlo e a seguirne il richiamo, si sentirà
felice, altrimenti condurrà una vita inutile. Non per niente in
greco antico Felicità si dice Eudaimonia: fare stare bene il proprio
demone.
La
definizione di felicità di Al Bano è racchiusa nella canzone
omonima e risulta meno centrata sull’individuo rispetto a quella di
Hillman. Per lui e Romina Power la felicità «è tenersi per mano»
(è anche «un bicchiere di vino con un panino», però non ci
allarghiamo). Tenersi per mano. Vegani e carnivori, sovranisti e
globalisti, bianchi e neri, o al verde.
Chiunque
abbia mani da tenere, o da cui fare tenere la propria, è considerato
una persona felice. Mentre chi ne è sprovvisto brancola nella
tristezza. Vi sembra un’affermazione banale e buonista? Lo pensavo
anch’io. Fino a quando non mi sono imbattuto nel discorso sulla
felicità di Robert Waldinger. Lo trovate su Internet, con i
sottotitoli o anche senza, per chi non sa l’italiano.
Il
professor Waldinger lavora a Harvard ed è il quarto direttore di una
ricerca unica al mondo, non fosse altro perché dura
ininterrottamente dal 1938. Ottant’anni fa, il primo predecessore
di Waldinger scelse 724 ragazzini di ogni ceto e classe sociale. E
cominciò a tenerli d’occhio anno dopo anno, sottoponendoli a
interviste, questionari, esami clinici e sedute psicologiche per
scoprire che cosa li rendeva più o meno felici. 724 persone —
ricche e povere, famose e anonime, cadute nella polvere o salite fino
alle stelle — sono state analizzate per tutta la durata della loro
vita.
Altre
celebri ricerche sulla felicità hanno chiesto agli anziani di
ripercorrere il proprio passato, ma la memoria è selettiva e
nostalgica, tende a imbellettare i ricordi e a rimuovere i traumi.
Invece seguire un’esistenza in tempo reale garantisce risultati
molto più oggettivi.
Ebbene,
quale verità si è dipanata sotto gli occhi dei ricercatori di
Harvard? Che a rendere felici gli esseri umani non sono né la
ricchezza né la fama, i feticci della modernità. È la qualità
delle loro relazioni. Soltanto quella. La solitudine e le
frequentazioni sbagliate atrofizzano il cuore, peggiorano la salute e
fanno arrugginire precocemente il cervello.
Chi
a cinquant’anni si comportava da orso o da animale in gabbia, e
magari era un manager di successo in perfetta forma fisica, è
invecchiato male oppure è morto. Mentre chi già allora coltivava
buone relazioni con la famiglia, gli amici e la propria comunità è
diventato un vegliardo felice, vispo e in salute, anche se aveva il
colesterolo alto.
Il
calore umano sarebbe dunque l’elisir di lunga e felice vita che
l’uomo cerca da millenni senza sapere di averlo sotto il naso.
Ovviamente non basta circondarsi di legami: si può essere soli anche
in una folla o in un matrimonio sbagliato. Perché quei legami si
scaldino e diventino affetti occorre investirci lo stesso tempo e le
stesse energie che normalmente vengono dedicate a procacciarsi fama e
ricchezza (quasi sempre senza riuscirci, oltretutto). >>
MASSIMO
GRAMELLINI
In effetti la felicità è un concetto personale, soggettivo, mentre quello che serve ad una società per mantenersi viva e vitale sono le virtù civiche.
RispondiEliminaMa è anche vero che occorre trovare un equilibrio tra le due tendenze, perchè alla base dei nostri comportamenti non c'è solo il genotipo che spinge per il bene del gruppo, ma anche il fenotipo che spinge per il benessere dell'individuo.
In fondo le religioni lo hanno trovato, questo equilibrio: ti chiedono le virtù eroiche nell'aldiqua, promettendoti la felicitàù eterna nell'aldilà.
Se ci credi, funziona a meraviglia; ma se non credi è un bel problema.
Ecco una bella riflessione sul rapporto tra Democrazia e Felicità. E' di Mattia Feltri, un giornalista della Stampa (da che pulpito...):
RispondiElimina<< come scrive Giovanni Orsina nel suo imperdibile «La democrazia del narcisismo», la democrazia fu il trasferimento della promessa di felicità dall’aldilà all’aldiquà.
Per questo si tagliò la testa a Carlo I e poi a Luigi XVI, per stabilire che la loro autorità non era di origine divina, che ogni uomo non si sarebbe più accontentato di ubbidire al re e a Dio in attesa di una felicità come ricompensa ultraterrena, ma che ogni uomo sarebbe diventato titolare del diritto di essere felice in vita.
Questo ha imposto alle democrazie di rilanciare all’infinito, e ormai come giocatori di poker impazziti, con promesse di felicità sempre più mirabolanti e irraggiungibili, ancora più chimeriche della felicità celeste.
E di conseguenza, come la crisi della religione porta ognuno a costruirsi un Dio su misura, così la crisi della politica porta ognuno a costruirsi una democrazia su misura, in obbedienza all’unico folle imperativo: ho il diritto di essere felice. Punto e basta. >>
Con tutto il rispetto per Gramellini e per il Prof. Waldinger, ritengo decisamente improbabile che esista una modalità UNICA E INCONTROVERTIBILE per (il raggiungimento del)la Felicità, o (per fare riferimento a un concetto meno "impegnativo") verso la Serenità d'animo: ogni individuo tendenzialmente ha una propria ricetta e inoltre nello stesso individuo tale ricetta muta nel tempo.
RispondiEliminaDunque non penso esista un diritto alla F. in quanto tale, bensì (un po' sulla falsariga del ragionevole liberalismo non-confessionale dei Padri fondatori degli Stati Uniti d'America) il diritto alla RICERCA della F. secondo le modalità che OGNI INDIVIDUO ritiene più adatte a se stesso, con l'unico fondamentale limite che tale ricerca NON pregiudichi quella altrui, a cominciare da quella di figli (eventualmente) messi al mondo (magari in quantità industriale) semplicemente per irresponsabilità, egoismo, familismo, bigottismo o nazionalismo...
Caro Claude,
RispondiEliminacertamente ogni persona ha il suo percorso personale nella ricerca della felicità, percorso che può essere anche diverso nei diversi periodi della propria vita.
Però, essendo l'umo un animale sociale in massimo grado, che in natura NON puàò assolutamente sopravvivere se non in un gruppo di suoi simili, ecco che, anche solo per selezione naturale, il rapporto con gli altri non puà che risultare fondamentale per la propria serenità di spirito.
Ne consegue che, molto spesso, la nostra felicità (o infelicità) dipende molto di più da come stiamo vivendo i nostri rapporti personali più importanti, che non da quello che possediamo o stiamo facendo.
Egregio Lumen,
RispondiEliminaal di là del fatto che per motivi biologico-genetici o storico-biografici non tutti gli esseri umani hanno il medesimo grado di (propensione alla) socialità, non soltanto posso tranquillamente concordare sull'importanza della qualità dei rapporti personali, ma anzi scavalcare "a sinistra" affermando l'importanza anche dei rapporti con gli animali non-umani da una parte, con i prodotti della Tecnica dall'altra e perfino con il contesto ambientale: un ambiente inquinato NON predispone alla felicità/serenità... Saluti
Commento di Sergio
RispondiElimina(inserito da me per motivi tecnici)
Ho letto con piacere sia il post che i commenti. Sarò banale ma c'è naturalmente una differenza tra lo stato di benessere, di soddisfazione, e la felicità che è un momento di intensissima gioia, di esaltazione, entusiasmo, di breve durata. Ma da dove viene l'eterna insoddisfazione dell'uomo? Lorenzo scrive:
"L'essere umano ha evoluto l'eterna insoddisfazione come meccanismo evolutivo che ci spinge sempre ad andare oltre, sia come individui che come specie."
Interessante, ma non mi convince appieno. Su questa insoddisfazione sono state scritte intere biblioteche. La risposta potrebbe essere banale. I nostri antenati dovevano semplicemente sopravvivere: dovevano nutrirsi, ripararsi dalla natura, dai predatori, riprodursi. Bastava, ed erano verosimilmente soddisfatti. L'insoddifazione loro nasceva dalla mancanza di cibo, dalle avversità. Il sapiens sapiens si è ritrovato invece questo po' po' di cervello grazie al quale siamo al punto in cui siamo: eternamente insoddisfatti, tutto viene prima o poi a noia (solo gli anziani si accontentano davvero di quello che hanno, che sono riusciti a strappare alla vita).
Credo comunque anch'io che le relazioni e la qualità delle relazioni siano fondamentali per vivere serenamente e provare poi ogni tanto quei momenti di estrema gioia che chiamiamo felicità. Che però non si può programmare: i momenti di felicità sono inattesi, sorprendenti, massì: grazia. Per la vita associata però è necessaria la virtù che assicura la sopravvivenza e anche serenità e soddisfazione.
A me piace un verso di "Das Lied von der Erde" di Mahler:
"Ein Becher Wein zur rechten Zeit ist mehr wert, ist mehr wert als alle Reiche dieser Erde." [Una coppa di vino al momento giusto vale più, vale più di tutti i regni della Terra.]
Al momento giusto.
Cosa è preferibile: lo splendore della durata (che si ottiene con la virtù, l'esperienza) o il trionfo del momento? È un po' come: meglio un giorno da leone o cento da pecora? Non saprei. Personalmente mi sento più pecora.
<< meglio un giorno da leone o cento da pecora? Non saprei. Personalmente mi sento più pecora. >>
EliminaSono d'accordo, caro Sergio.
Magari però una pecora "consapevole", che cerca di evitare gli aspetti pggiori del suo ruolo.