(Dal
libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo
Boncinelli” – Ottava parte. Lumen)
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Quando si scende al livello dei geni e delle molecole il panorama
cambia radicalmente e molti termini introdotti per l'analisi al
livello degli organismi perdono parte del loro significato. Dobbiamo
sbarazzarci quindi del tutto di questi termini? Direi di no. Sono
ancora utili al livello descrittivo e illustrativo, allo stesso modo
in cui si può parlare di febbre, anche se oramai si conoscono i
meccanismi che la generano, o di prurito, anche se si sa con
precisione che cosa c'è dietro.
Non
c'è dubbio per esempio che nel quadro generale di una
diversificazione degli organismi viventi si possono riconoscere
innumerevoli esempi di strutture più o meno ben adattate ad alcuni
aspetti dell'ambiente e dello stile di vita tipici delle singole
specie. In questo contesto il concetto di adattamento è uno di
quelli più usati e più presenti nella mente di chi parla, con
professionalità o meno, di evoluzione.
Più
o meno inconsciamente, molti sono portati a concepire le varie specie
come statuine di plastilina che possono assumere varie forme e
acquisire varie caratteristiche sotto la spinta della selezione
naturale, che le modella sulle caratteristiche del loro ambiente.
Non
si tratta di un'immagine del tutto campata in aria, a patto però che
si consideri che l'evoluzione naturale plasma, col tempo, solo ciò
che è di fatto plasmabile; cioè ciò che non è vietato dalle leggi
della fisica e della chimica e, soprattutto, ciò che è compatibile
con l'esistenza di un genoma che deve permanere non molto diverso da
se stesso ed essere trasmesso da una generazione all'altra.
L'esistenza
di un genoma attribuisce al blocco di plastilina un'anima di metallo
all'interno. Queste limitazioni ineludibili – di natura fisica,
chimica o biologica – che condizionano il processo evolutivo vero e
proprio, effetto della variazione e della conseguente selezione,
vengono dette vincoli evolutivi.
Per
esempio, il fatto che le balene e i delfini non abbiano sviluppato
strutture di tipo branchiale, certamente più adatte dei loro polmoni
alla vita acquatica, deve essere considerato come effetto di qualche
tipo di vincolo essenzialmente biologico, dovuto alla struttura del
genoma o alle leggi dello sviluppo.
Va
detto inoltre che il concetto di adattamento e la schiera di termini
che lo accompagna trovano la loro più legittima utilizzazione quando
si segue l'evoluzione di una specie o di un genere lungo una
particolare linea evolutiva. In quel caso, poiché si sa già come va
a finire la storia, almeno fino a un certo punto, i concetti di
valore adattivo e selettivo coincidono e l'evoluzione acquista una
sua plausibilità e un grado di persuasione psicologica di cui è
difficile ignorare l'influenza.
Prendiamo
la storia del cavallo. Negli ultimi cinquantacinque milioni di anni
si è passati da un piccolo Mammifero che possedeva quattro zampe a
cinque dita, terminanti con altrettanti piccoli zoccoli, e che si
cibava di foglie a un animale un po' più grande che si cibava d'erba
e infine al possente animale che conosciamo oggi, che si ciba sempre
di erba ma possiede zampe dotate di un solo dito a forma di zoccolo.
Il
cavallo che ci è familiare appartiene al genere Equus, che
comprende al momento sei o sette specie più o meno rappresentate.
Grazie ai resti fossili, la storia degli antenati del cavallo si può
appunto delineare almeno a partire da circa cinquantacinque milioni
di anni fa. A quell'epoca, dieci milioni di anni dopo l'estinzione in
massa dei dinosauri e l'inizio del faticoso cammino dei Mammiferi, si
fa risalire l'esistenza di un animale delle dimensioni di un grosso
gatto chiamato oggi Hyracotherium, un tempo Eohippus.
Questo
ungulato primitivo viveva in un ambiente caldo e umido. Con le sue
svelte zampe (quelle davanti con quattro dita, e tre per quelle
posteriori) si muoveva agevolmente sui terreni melmosi e si cibava
delle foglie tenere dei rami bassi degli arbusti di latifoglie. Da
questo proto-cavallo deriva direttamente il Mesohippus che popolò
l'America Settentrionale venti milioni di anni dopo. Era leggermente
più alto del suo antenato, le sue zampe possedevano tre dita (quella
centrale più sviluppata delle altre due), aveva un muso più
allungato e un cranio leggermente più voluminoso.
Quando
il clima da caldo e umido divenne sempre più freddo e più arido, le
foreste di latifoglie cedettero il posto a grandi estensioni di
steppe erbose. Si osservò allora una radiazione di vari generi,
alcuni dei quali continuarono a mantenere il loro stile di vita
cercando sempre nuovi ambienti finché non si estinsero. Esaminando i
resti fossili di questi generi estinti appartenenti a linee evolutive
collaterali possiamo trovare le tracce degli esperimenti naturali più
diversi che includono sia forme giganti (Megahippus) che forme nane
(Archaeohippus).
Il
genere destinato a perpetuarsi fino ad arrivare al cavallo dei giorni
nostri è invece il Merychippus che quindici milioni di anni fa
imparò a cibarsi di erba, grazie a una progressiva trasformazione
della sua dentatura, e a correre sicuro sul terreno compatto delle
praterie, grazie alle sue zampe che terminavano con uno zoccolo
centrale, già preminente rispetto a quelli delle altre due dita. Nel
periodo successivo seguirono molte altre radiazioni evolutive, tra le
quali vale la pena di ricordare il genere Pliohippus, che visse
meno di dieci milioni di anni fa e che mostra ormai quasi tutti i
caratteri del cavallo moderno.
Percorrendo
questa serie evolutiva dall'Hyracotherium all'Equus si possono
osservare molte trasformazioni secolari come l'aumento delle
dimensioni del cranio e di tutto il corpo e la progressiva
trasformazione degli arti e della dentatura. Accanto a queste
trasformazioni che col senno di poi ci sembrano condurre da qualche
parte, si possono però osservare innumerevoli tentativi di
percorrere altre vie.
Le
specie di cui ci sono giunti i resti fossili, senza contare quelle
delle quali non possediamo al momento alcuna documentazione concreta,
testimoniano chiaramente di un continuo, quasi affannoso, tentativo
di proporre nuove soluzioni evolutive. Solo pochissime di queste si
sono rivelate valide, per pregi intrinseci o per puro caso, e hanno
condotto al cavallo. Questo a sua volta non è l'unico mammifero di
successo. È solo uno dei tanti che popolano il nostro pianeta.
La
storia evolutiva del cavallo, una delle meglio costruite e
probabilmente emblematica di molte altre, non è che una successione
di eventi individuati dal naturalista e collocati da questi in un
ordine temporale significativo. Come questa se ne potrebbero
individuare miriadi di altre: la stragrande maggioranza di tali
storie non avrebbe un lieto fine ma rappresenterebbe un ramo morto.
L'unico dato certo è la continuità per discendenza diretta di un
certo numero di individui e il fatto, innegabile, che ci sia qualcuno
che li sta studiando.
Un'altra
applicazione molto conveniente del concetto di adattamento si può
riscontrare nell'analisi dell'evoluzione delle caratteristiche di un
organo specifico lungo una particolare linea evolutiva. L'elefante,
per esempio, non aveva probabilmente alcuna necessità di possedere
una proboscide. Ma dal momento che gli è toccata, la selezione ha
fatto in modo che questo organo fosse sempre più utile, anche se
nessuno conosce ancora tutte le sue potenzialità.
Insomma,
data una struttura o una funzione biologica, la selezione opera in
modo da renderla sempre più adatta al suo ruolo. Ancora una volta
possiamo dire che la selezione naturale rifinisce e perfeziona
secondo criteri suoi propri ciò che il caso ha offerto e messo in
campo. >>
EDOARDO
BONCINELLI
(continua)
Da quest'altro passo di Boncinelli mi sembrano uscire corroborate le tesi dei due grandi biologi francesi Premi Nobel '65 per la Medicina: la teoria del Caso & della Necessità di Monod (che so molto apprezzata da Lumen) e quella della Selezione naturale come 'bricoleur' di Jacob...
RispondiEliminaSono d'accordo.
RispondiEliminaMonod, in effetti, è uno dei miei autori preferiti, mentre Jacob non lo conosco molto.
Però il concetto di selezione naturale come 'bricoleur' è sostenuta anche da Richard Dawkins, di cui ho letto (quasi) tutto.