lunedì 7 agosto 2023

La settima Arte – (2)

Il post di oggi è nuovamente dedicato al cinema (la 'settima arte') e contiene la recensione di altri 3 film famosi, scelti fra i miei preferiti. Anche in questo caso, i testi sono tratti dal sito 'Gli Spietati'.
LUMEN



I TRE GIORNI DEL CONDOR

TRAMA - Joe Turner, ricercatore della CIA, si salva per puro caso dalla strage in cui cadono i suoi colleghi. Presto scopre di non potersi fidare dei superiori, e di doversi salvare da solo. Non è detto che ci riesca.

<< Il film coglie perfettamente la temperie di anni che videro l'orizzonte luminoso della Nuova Frontiera intorbidirsi di trame oscure (il Watergate), intrighi internazionali (il colpo di Stato in Cile tramato dalla CIA), prospettive angosciose. La perdita dell'innocenza vissuta, anche per il sanguinoso fallimento del Vietnam, dalla coscienza collettiva degli U.S.A. diffuse ovunque i suoi riverberi (...), e il Condor si colloca in tale contesto opponendosi alla (…) agiografia ufficiale.

Al centro del dramma sta l'uomo comune, la cui inflessibile limpidezza lo spinge a sfidare coraggiosamente chi complotta nella partita del potere (e del petrolio); è il paradigma hitchcockiano, senza l'umorismo di Hitchcock e con una cupezza di fondo senz'altro giustificata dalla materia lutulenta.

Il ritmo è serrato (con la prima macrosequenza eccezionale per costruzione drammatica e scenica), e l'aspra inquietudine priva di catarsi non cessa di turbare. L'intatta forza del film dipende certo dalla sobrietà stilistica immune da smancerie romantiche (il rapporto fra Joe e Kathy si regge su un'ammirevole tensione, e la scena di sesso trasmette tutta la disperazione e la furia di cui è pervasa), ma pure da un fattore oggi negletto in tanto cinema virtuosistico e indiavolato: l'assenza della fretta.

Le sospensioni dell'azione sono utili ad affezionarsi ai protagonisti, il cui profilo viene curato con brevi tocchi efficaci - le fotografie scattate da Dunaway, l'affetto di Redford per l'amica ignara - e non mortificano il crescendo della tensione (la scena dell'ascensore, così elementare all'apparenza) anche per il soccorso di espedienti di solido mestiere, come il montaggio alternato che illustra le mosse del sicario. Lezione per i registi ambiziosi: orditi complicati che piombano i personaggi nell'impotenza e nel disagio risaltano meglio dalla trasparente vigoria dello stile di Pollack. >> (Hans Ranalli)


IL CASO SPOTLIGHT

TRAMA - Quando “Spotlight”, il tenace team di reporter del Boston Globe, scava nelle accuse di abuso contro la Chiesa cattolica, la lunga indagine svela l’insabbiamento che per decine di anni ha protetto i livelli più alti del sistema religioso, legale e amministrativo della città, rivelandolo a tutto il mondo.

<< Film di sapore quasi retrò, l’opera di Tom McCarthy rievoca quel cinema civile americano anni Settanta che metteva in scena battaglie e inchieste giornalistiche, gettando luce su scandali e malcostume.

Su quel solco (Lumet è, per il regista, un mentore dichiarato) la messa in scena del lavoro di indagine svolto dal team Spotlight del Boston Globe (vincitore per questo reportage investigativo del premio Pulitzer) sui casi di pedofilia a Boston (numeri impressionanti: 249 sacerdoti implicati, quasi 1500 vittime), su cardinali che hanno sempre saputo, su documenti sigillati, su omertà inaccettabili, rende conto, con la limpidezza argomentativa propria di una cultura cinematografica (quella hollywoodiana, che non sacrifica comunque mai il lato spettacolare) delle subdole tecniche di persuasione, degli abusi anche piscologici esercitati dai ministri della Chiesa, delle sottili strategie per circoscrivere e neutralizzare le conseguenze pubbliche del fenomeno e puntualmente insabbiarlo attraverso laboriose procedure.

Degli accordi sottobanco, delle risoluzioni bonarie lontane da qualsiasi forma di ufficialità, di come le autorità ecclesiastiche non abbiano fatto mai nulla per arginare gli episodi o per mettere in guardia le potenziali vittime delle violenze. La ricerca di testimoni e l’ottenimento della loro fiducia fanno comprendere ai giornalisti della testata le dimensioni reali del caso, quali segni questo ha lasciato sulle persone coinvolte (condannate a convivere con quell’esperienza per tutta la vita), quanto duro sia ingaggiare un confronto con un’istituzione come la Chiesa Cattolica. Cosa vuol dire, in definitiva, farle causa.

Colpisce, soprattutto in un paese come il nostro che un film del genere non se lo può politicamente permettere (...), la denuncia a chiare lettere di un comportamento che non si esita a definire sistematico e predatorio, l'esposizione lineare delle dimensioni del fenomeno e della sua natura (si proclama a chiare lettere che esso, essendo di natura psichiatrica, è indissolubilmente legato al modus vivendi del clero).

Il tutto narrato in modo piano e classico, con uso cosciente di cliché di genere e attraverso vari fili (i percorsi dei singoli giornalisti) con un rigoroso crescendo, senza patetismi (nessuna enfasi o svenevolezza) né trionfalismi (se è vero che sono il team e il suo lavoro il vero centro del film, non si tace sul fatto che il Boston Globe avesse evidenza degli avvenimenti già dieci anni prima dell'inchiesta), con superba resa delle dinamiche ambientali. Gli ottimi interpreti fanno il resto. >> (Luca Pacilio)


VI PRESENTO JOE BLACK

TRAMA - La Morte fa un patto con un milionario morituro: se la guiderà alla scoperta della Vita, gli darà più tempo per vivere. Prende le sembianze di un giovane di cui si è innamorata sua figlia.

<< [Il film] è un rifacimento di 'La morte in vacanza' di Mitchell Leisen del 1934, di cui ripropone le ambientazioni di lusso (scenografie di Dante Ferretti), l’unione bizzarra di serio e faceto, l’anomala accoppiata maschile (...), ma con una traccia d’amore stregato di maggiore impatto.

Entrambe le opere, poi, condividono la poco elegante ipotesi che la Morte, per cogliere il meglio della vita, scelga un uomo ricco e si materializzi in un adone che dà ai potenti l’ulteriore privilegio di contrattare. Nella nuova versione l’intuizione pare più intrigante delle premesse con zuccherosa traccia sentimentale agita da super-belli, prevedibile conclusione e fare moraleggiante (gli affetti familiari e non il lavoro, l'amore monogamo e per sempre, davanti alla morte tutto si ridimensiona: Leisen era più speculativo).

Ma accade il miracolo, lo schermo inghiotte magnetico lo sguardo e ritrova l'incanto perduto delle migliori pellicole della Hollywood classica (non a caso, echeggiano brani musicali di allora, per lo più di Irving Berlin): gli incontri fra Brad Pitt e Claire Forlani tolgono il fiato. Quello di Pitt è un ruolo difficile, giocato fra i divertenti imbarazzi del pesce fuor d’acqua di Starman e l’estrema sicurezza di sé dell’onnipotente: l’attore è a tratti spaesato e gli autori non hanno saputo agevolarlo con tracce coerenti.

La vera sorpresa è la luce che emana Claire Forlani: nei suoi occhi sedotti (degni di Vivien Leigh, Veronica Lake, Greta Garbo: quando bastava un’attrice a fare la differenza) si specchia un'orgia d'amore e commozione che travolge lo spettatore ben disposto. Brest coglie tale potenzialità, il suo cine-occhio s’innamora degli innamorati e li guida magistralmente mentre si esplorano, si assaporano, si desiderano. Lo zucchero diventa miele pregiato.

Senza dimenticare la grande prova di Anthony Hopkins, schiacciato fra il dramma "finanziario" e quello della Morte che conosce (ricorda, nel suo caso) la bellezza della vita: il detto “A pagare e a morire si fa sempre in tempo” è centrato. Una favola nera in rosa e viceversa. >> (Niccolò Rangoni Machiavelli)


6 commenti:

  1. Sempre a proposito del film 'I tre giorni del Condor', ecco un'altro commento positivo, tratto da un altro sito (Longtake):

    << I piccoli difetti (come l'intreccio un po' macchinoso e un liberale poco credibile che lavora per la CIA) svaniscono nella visione d'insieme, bilanciata tra gioco edonistico e racconto pessimista, dove la lezione di Hitchcock, trasferita in un contesto paranoico, proietta le ombre dei temi d'autore sulle maglie del genere.
    Condor è un 'common man' incappato in una tela mortale e circondato da un nugolo di solitudine – stemma della mutata stagione sociale dell'America che in quegli anni usciva dal Watergate e dal Vietnam – sintetizzato dall'ultimo fermo immagine, un volto tra la folla alla ricerca di anonimato e pubblica denuncia, ultima contraddizione di uno scacco esistenziale, sociale, storico.
    Nella più pura tradizione della New Hollywood, i protagonisti sono spigolosi, gli antagonisti emblematici, espressione di un cinismo naturale prima che politico, interpretati da un terzetto d'attori in stato di grazia: Redford, Cliff Robertson e il killer filosofico di Max von Sydow.
    È il suo monologo finale a consegnare la macchina del thriller a una più inquietante e riuscita riflessione sull'uomo contemporaneo e sul suo negativo destino: condannato a non fidarsi di nessuno, ad essere un paria solo perché incapace di sottomettersi alla spietata logica capitalista che ha piegato il mondo intero. >>

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  2. Il grande Monicelli diceva che un film funziona,oppure no, i messaggi eventuali li ricava lo spettatore. Lui, Dino Risi, Salce, ne hanno fatti di film che hanno funzionato. Per non parlar di De Sica eccetera. Altri sommi sono stati osteggiati politicamente, i vari Vancini, Pontecorvo eccetera...

    Fra gli americani stimo Wilder, Kubrik, Ford, Capra ed altri, ma non molti ,anche se il cinema americano è di una spettacolarità unica, sostanza e contenuti a parte...

    Grande impostore il Fellini, contatore di storie, storielle, specchio vita grama e provinciale, i vizi italici duri a morire,le furbate,gli imboscati. Foraggiato dagli americani, propaganda irriverente sui sudditi della colonia Italia. Sul comparto circense, onirico, stendiamo pietoso velo. Avrebbe dovuta smetteremo dopo I Vitelloni. Meglio prima....

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  3. << il cinema americano è di una spettacolarità unica, sostanza e contenuti a parte... >>

    In effetti, gli americani li possiamo criticare per tante cose, ma il cinema lo sanno fare ed il loro livello di recitazione è altissimo.
    Non solo fra le stelle di prima grandezza (che raggiungono comunque vette inarrivabili agli altri) ma anche tra i comprimari ed i caratteristi.
    Merito di una scuola di recitazione di altissimo livello, ma merito anche dei registi migliori, che sanno tirare fuori dai loro interpreti il meglio delle loro capacità.
    Ovviamente non mancano i film pessimi, o recitati male, ma ci sono tantissimi capolavori assoluti.
    Quanto a Fellini, concordo in pieno con le tue critiche e mi chiedo sinceramente come abbia fatto a diventare famoso (se non per il motivo 'esterno' che indicavi tu).

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  4. Già, concordo. Un attore come Danny De Vito, per esempio, non gratificato da madre natura recita balla,canta,suona un paio di strumenti....Uscito dall'Actor Studio, non a caso.

    Mi dimenticavo di un capolavoro assoluto della nostra cinematografia, a mio parere, e cioè Una Gita Scolastica, di Pupi Avati. realizzato con misero budget funziona, eccome ! Grande prova di Carlo Delle Piane. Mi commuovo ogni volta che lo rivedo.

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    1. Una storia esemplare è quella di Dustin Hoffman.
      Come forse ricorderai, lui è diventato famoso interpretando 'Il Laureato'.
      Eppure aveva già 31 anni (anche se nel film interpreta un ventenne) e non era nessuno.
      Eppure la sua recitazione fu eccezionale e lo proiettò tra i grandi, come meritava.

      Quanto ai film italiani c'è davvero di tutto, dal capolavoro a basso costo, al film sfarzoso ed inguardabie.
      Bisogna avere pazienza e saper scegliere (anch'io ho i miei preferiti).

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