sabato 12 settembre 2020

Autoritratto degli Italiani

Sono trascorsi oltre 150 anni da quando Massimo D'Azeglio (nel 1861) pronunciò la famosa frase: “L'Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”.Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti e gli italiani, nel frattempo, sono stati fatti. Ma come sono venuti ?  Ce lo racconta Gianni Pardo in questo gustoso (auto) ritratto, che mi sembra piuttosto azzeccato. 

LUMEN


<< Gli italiani, presi individualmente, poco ci manca perché siano prodotti di lusso. Certo non più dal punto di vista culturale, dati i mirabili risultati conseguiti dalla scuola “sessantottina”, ma dal punto di vista dell’intelligenza applicata, del “pensiero laterale”, della mancanza di pregiudizi, sono spesso eccezionali.

Il popolo italiano somiglia ad un cesto nel quale si ammonticchino anelli d’oro, capolavori letterari, smeraldi, orologi da polso, miniature, banconote e cristalli veneziani, per alla fine accorgersi che è pieno di patate. Le nostre qualità sono così evidenti che non val la pena di illustrarle. Soprattutto pensando che spesso si manifestano superando condizioni avverse. Il mistero da chiarire è quello del contrasto fra i nostri meriti individuali e i nostri immensi difetti in quanto collettività.

Premetto che i paragoni non possono essere fatti con Stati piccoli e privi di un grande passato. Nell’epoca attuale (e per questo non menziono l’Austria) l’Italia, per la sua storia e per le sue dimensioni, in Europa si può mettere a confronto soltanto con Spagna, Francia, Germania e Inghilterra. Tre su quattro di questi Stati, diversamente da noi, sono stati a lungo monarchie unitarie.

Due cattolici e due protestanti, anche se la Germania non interamente e l’Inghilterra a modo suo. Infine tutti e quattro, dai tempi dell’Impero Romano, hanno avuto una storia in salita, nel senso che hanno avuto sempre più importanza, mentre l’Italia ha avuto una storia in discesa, fino all’insignificanza.

Il fatto di essere stata a lungo un Paese suddiviso in piccoli Stati, nessuno in grado di pesare seriamente in Europa, ha seminato nell’anima di noi italiani il Dna della dipendenza e della sconfitta. È triste doverlo dire, ma gli inglesi o i francesi trattengono a stento un sorriso, se gli si parla dell’esercito italiano. Se noi italiani siamo lungi dal sentirci dei guerrieri è perché la nostra storia è piena di sconfitte. E perché non abbiamo nessuna fiducia nei nostri capi.

I francesi battevano immense coalizioni perché avevano una totale fiducia in Napoleone; i nostri soldati invece si sono sempre sentiti poco considerati, male armati e spendibili anche senza scopo. Così sono morti come gli altri, con in più il rischio di essere irrisi. Si pensi alla campagna dell’Africa Settentrionale, durante la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è che dal punto di vista del peso internazionale sentiamo di non contare nulla. Le esperienze, dal Risorgimento in poi, hanno soltanto confermato il peggio che pensiamo di noi.

Ma gli italiani, più ancora di sé stessi, disprezzano i loro governanti. Costoro non hanno mai avuto la statura dei grandi sovrani e sono stati troppo spesso pronti ad azzuffarsi fra loro. Magari chiamando poi in soccorso le potenze straniere, come se non fosse ovvio che alla fine ci avrebbe perso l’Italia.

Per l’italiano medio lo Stato è un’entità, se non nociva, senza importanza. Chi lo governa pensa innanzi tutto agli interessi della propria fazione, quando non al suo proprio. Ecco perché il cittadino non sente nessun obbligo di lealtà, nei suoi confronti. Persino l’evasione fiscale è considerata una forma di legittima difesa. Da noi l’individuo è in lotta contro l’intera collettività, in quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava Hobbes.

Riguardo a questa caratteristica italiana per contrasto val la pena di ricordare una teoria di Montesquieu. Nell’Esprit des Lois egli scrive che, mentre la molla fondamentale della dittatura è la paura, la molla fondamentale della monarchia è il senso dell’onore. I cittadini obbediscono al re perché il loro onore richiede che essi gli siano devoti e il re è anch’egli obbligato dal suo onore a non abusare del suo potere ed anzi ad agire per il bene del popolo. In Francia nessuno ha riso, leggendo questa tesi, come si sarebbe riso in Italia.

Non per caso i francesi che non amavano François Mitterrand, per condannarlo senza appello, lo chiamavano “le Florentin”, il fiorentino. In Italia lo Stato non è né stimato né amato. È soltanto un concorrente avido e sleale da cui guardarsi. In Sicilia, dove il governo è stato assente come protettore, e presente come esattore, si è vista con favore la Mafia perché, almeno, era “Cosa Nostra”, non “Cosa Loro”.

Al livello morale della nazione non è stata utile nemmeno la religione. Mentre nel Nord il Protestantesimo ridava vita all’etica del cittadino in quanto membro di una comunità (fino agli eccessi calvinisti della Svizzera) in Italia la Chiesa è rimasta ricca, ipocrita, perfino simoniaca. Il Papa somigliava troppo agli altri sovrani, e a volte in peggio. Così si è accentuata la divaricazione rispetto agli altri popoli.

Il cittadino è rimasto credente, soltanto perché voleva salvarsi l’anima; ma non raramente ha accoppiato alla religione un acido anticlericalismo. Magari il parroco era una persona per bene, ma il cardinale? Uno che non si vergognava di autodefinirsi “principe della Chiesa”, confessando la sua natura di ambizioso, che esempio costituiva?

Come cittadini gli italiani si sono sempre sentiti orfani. Ottenuta la democrazia, hanno avuto dei governanti che provenivano dal popolo, per subito scoprire che ne avevano i vizi, non le qualità. A cominciare dal disinteresse per il bene comune. Così la situazione non rischia certo di cambiare in meglio. I politici, sapendo di essere a priori considerati immorali e non potendo contare su nessun ideale, cercano di conquistare il consenso promettendo vantaggi materiali e appena possono distribuiscono posti di lavoro fasulli (ma pagati con soldi veri), inventano sussidi e regalie, a costo di fare debiti e coltivano l’idea che si possa vivere a spese dello Stato.

Persino la Costituzione ha fatto credere che si possa avere “diritto alla casa”, come se lo Stato potesse regalarne una ad ogni cittadino. Ma già, in materia di diritti non ci siamo fatto mancare nemmeno il “diritto al lavoro”. Il fatto che poi lo Stato deluda questi sogni non lo rende certo più amato.

Le case degli italiani sono linde e non raramente eleganti (lontana eredità del nostro Rinascimento) le strade italiane sono sporche e piene di buche. Gli italiani considerano la spesa per la difesa inutile perché, pensano, se c’è una guerra, o ci difende un possente alleato o noi la perdiamo. La scuola va male, ma tanto a che serve? L’essenziale, per avere un reddito assicurato, non è meritarlo, è avere le amicizie giuste. Soltanto i più forti si avventurano nella libera impresa ma sanno di avere tutti contro. Lo Stato li considera come nemici o, ad andar bene, come vacche da mungere.

La vita pubblica è di livello talmente basso che i politici cercano di avere successo coltivando i peggiori pregiudizi degli italiani. Per esempio, sposano l’assioma che chiunque sia ricco è tale perché ha saputo rubare, imbrogliare, intrallazzare meglio degli altri. Tanto che la cosa moralmente più giusta sarebbe impiccarlo a un lampione e dividersi i suoi beni. Né la Chiesa ha mai contraddetto queste idee, se nel Vangelo si sostiene che il ricco è uno che preferisce la propria corruzione alla salvezza dell’anima. È più facile che una gomena passi per la cruna di un ago che un ricco entri in Paradiso.

Noi abbiamo uno Stato che disprezza il merito e coltiva l’invidia. L’imprenditore dovrebbe lavorare sedici ore al giorno ma soltanto per creare posti di lavoro e guadagnare quanto i suoi operai. Se invece diviene ricco, è segno che ha rubato ed ha evaso le tasse. Cosa, quest’ultima, in buona parte vera perché lo Stato pone spesso l’imprenditore dinanzi all’alternativa di imbrogliare o fallire.

Gli italiani nel prossimo futuro potrebbero pagare a caro prezzo i difetti della loro collettività. Perché a titolo individuale sono eccellenti soggetti ma come popolo sono il peggio del peggio. >>

GIANNI PARDO

8 commenti:

  1. Divertente (per modo di dire), ma direi anche eccessivo. Dài, siamo davvero il peggio del peggio (come popolo)?

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    1. Forse sembriamo tra i peggiori (come popolo) proprio perchè siamo tra i migliori (come singoli).
      E' come un calciatore di grande talento ma tatticamente indisciplinato: non sai se amarlo o mandarlo in panchina...

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  2. Ovviamente, gli aneddoti sul carattere degi italiani si sprecano. L'ultimo che ho letto, raccontato da Massimo Fini in una recente intervista, è questo:

    << Siamo individualisti, possiamo esprimere straordinarie individualità ma non siamo un popolo. Ma ci sono stati (sporadici) momenti in cui lo siamo stati. Penso, per esempio, a quanto successo dopo la disfatta di Caporetto. C'è un bell'aneddoto, raccontato da Montanelli: un siciliano sembrava fregarsene della guerra, poi arriva una granata vicino a lui e dice: Ammìa ? E allora diventa un combattente. >>.

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  3. Vissi, in passato, per periodi di fino ad alcune settimane, ripetutamente, in Baviera (la madre di mio figlio e' bavarese): i tedeschi hanno il loro cinismo tra le varie parti/classi/gruppi del "popolo".
    In Italia abbiamo differenze assai piu' rilevanti tra un calabrese e un furlan, tra un napoletano e un valtellinese.
    Perche' la storia e' stata molto piu' differente, rispetto ad altri luoghi. La questione e' che bisogna/bisognerebbe ancora fare gli Italiani.
    E' necessario?
    Adotterei un approccio laico e disincantato: impossibile (in tempi brevi).
    Certamente questa frammentazion culturale espone l'Italia a vari rischi e la caratterizza con alcune debolezze tra le quali, essere soggetta a ingerenze di vario tipo (quelle arabe per colonizzazione migratoria, quelle nazionali, ad esempio con le mire della Francia sulla Libia, collegate alle prime dopo l'assassinio di Gheddafi, con quelle imperiali degli SUA, etc. ).
    Il martellamento incessante, da parte degli utili idioti arcobalenghi, sull'abolizione dei confini, sui presunti diritti di chiunque di migrare ovunque ci ha gia' imposto l'arrivo di masse alloctone spesso fatte di balordi, senz'arte ne' parte, non qualificati e perfini delinquenti, sia comuni che organizzati (mafie nigeriane, associazioni islamiste, etc.) e reso intere zone delle ns. citta' delle banlieue nelle quali il diritto, la legalita' hanno lasciato il posto a degrado, violenze e crimini.
    Potete stare tranquilli;) l'entropia tende ad un massimo pure in ambito sociale e qui essi, i sinistranti masosadici, stanno disfando il poco d'Italia che fu fatto.

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    1. Scusate i refusi, avevo scritto di fretta.
      UUiC

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    2. Caro UNIC, mi ha colpito molto la tua ultima considerazione sull'entropia.
      In effetti la tendenza al degrado (che alcuni fanno coincidere con la freccia del tempo) regna sovrana sull'universo e quindi anche, inevitabilmente, sugli esseri viventi e le società umane.

      Comunque la poca coesione che l'Italia ha maturato come nazione dopo l'unità politica è stata in buona parte compensata dalla forte coesione locale che abbiamo mantenuto a livello regionale.
      Pertanto, la nostra resilienza culturale all'omologazione mondialista potrebbe anche risultare superiore a quanto pensiamo.

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    3. "... la nostra mente si è evoluta in forma 'duale', cioè convinta che la materia e lo spirito siano due entità separate."

      Ma cosa è lo spirito? Diceva sarcastico Schopenhauer: "Lo spirito, lo spirito? Io questo giovanotto non lo conosco!" Sembra (non lo so esattamente) che materia e spirito siano due entità o sostanze diverse. Dio poi sarebbe puro spirito. Se Dio fosse materia sarebbe soggetto ai mutamenti della materia e non sarebbe dunque perfetto. Vabbè. Ma lo stesso pongo la mia ingenua domanda: ma che c... è questo spirito? Non è materia, non si vede, non si tocca, ma esiste o esisterebbe. Forse una specie di energia oscura o una forza che abbraccia o attraversa l'intero universo (i credenti dicono che Dio è "dappertutto", vede tutto ecc. - e alla fine dei tempi, nel Dies irae - liber scriptus proferetur, in quo totum continetur, unde mundus iudicetur). Vabbè. Il Dies irae è una sequenza drammatica e infernale, indegna di un Dio somma bontà. Ma i grandi compositori non si sono lasciati sfuggire l'occasione di metterla in musica
      (Cherubini, Mozart, Berlioz, Verdi - il mio Dies irae preferito è quello di Berlios, troppo teatrale Verdi). Fauré però ha omesso il Dies irae dal suo Requiem, una scelta appropriata.
      Ma di nuovo: come nasce l'idea o il concetto dello spirito? L'uomo si è visto confrontato con forze inspiegabili e invisibili ma reali perché incidevano sulla sua esistenza e ha forse immaginato l'esistenza di Dio o di dèi, del resto molto antropomorfi una volta?
      Lo spirito poi sembra essere pure superiore alla materia corruttibile. Mah!
      "Veni, creator Spiritus, mentes tuorum visita ..."

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    4. Caro Sergio, immagino che questo commento sia relativo ad un altro post.
      Però, tutto sommato, può avere un senso anche qui, in quanto ritengo che gli Itaiani, da questo punto di vista, siano particolarmmente attratti dal pensiero magico-spirituale (se non sono religiosi, sono facilmente superstiziosi).

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