Tutte le
forme di governo che si sono succedute nella storia della civiltà
hanno avuto le loro elités, chiamate con nomi diversi, ma sempre
destinate a guidare la società nel loro principale interesse.
Anche le
democrazie moderne, quindi, nonostante le differenze formali ed i
pregi indiscutibili, finiscono per condividere la stessa sorte.
Ma come
funziona, come viene strutturata nella pratica, una società elitaria
di tipo democratico ? Ce ne parla Marco Pierfranceschi in questo
interessantissimo post, tratto dal suo blog.
LUMEN
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Col
termine Democrazia
si indica una forma di governo in cui il potere non è in mano ad una
o più figure
autoritarie, ma al popolo stesso. La maniera in cui questo potere
viene esercitato è per solito in forma rappresentativa: il popolo
viene periodicamente chiamato ad esprimersi attraverso il voto e ad
eleggere i propri rappresentanti, ai quali viene affidato il governo
della nazione.
Di
norma, in un sistema di governo democratico vengono identificati tre
poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, che devono essere
esercitati da entità separate e distinte. (…) [Ma]
l’accumulo di ricchezza da parte di imprese private rappresenta una
sorta di quarto potere, in grado di influenzare da un lato l’opinione
pubblica, dall’altro l’operato dei rappresentanti eletti, e in
ultima istanza l’efficacia dei poteri collegati.
Per
quanto concerne l’influenza sull’opinione pubblica va rilevato
che il potere economico controlla, in maniera diretta ed indiretta,
gli strumenti di comunicazione di massa. In maniera diretta
attraverso il possesso della proprietà, o di quote azionarie, in
maniera indiretta per mezzo della pubblicità e dell’investimento
nella realizzazione di prodotti di intrattenimento.
Ad
esclusione della televisione di stato, i mass media sono essi stessi
imprese commerciali, spesso di proprietà di altre imprese. Nel caso
della proprietà diretta è evidente che un giornale, posseduto da
un’impresa di costruzioni edili, o da un fabbricante di
autoveicoli, tenderà a fornire una visione dei fatti perlomeno
orientata agli interessi dei propri proprietari (l’indipendenza dei
singoli giornalisti non può travalicare le scelte editoriali).
Meno
evidente, ma altrettanto concreto, è che gli introiti della stampa
‘indipendente’
(ma il discorso vale per i media in generale) derivino dalla
concessione di spazi pubblicitari, mentre il ricavato della vendita
delle copie in edicola non basta più nemmeno a coprire i costi di
stampa e distribuzione. In un quadro del genere, qualsiasi testata si
guarderà bene dal pubblicare contenuti che la sua primaria fonte di
sostentamento, gli acquirenti degli spazi pubblicitari, possa
ritenere sgraditi.
Questa
forma di controllo economico, diretto ed indiretto, ha come ultimo
esito una narrazione pubblica totalmente appiattita sui desiderata
delle imprese e del mondo finanziario in generale, che a sua volta si
riflette in un significativo appiattimento del dibattito pubblico per
quanto riguarda i temi micro e macro-economici, ed in un’enfasi del
tutto ingiustificata su questioni sostanzialmente secondarie come le
identità etniche, politiche o religiose.
L’ultimo
tassello del controllo dell’economia sulla comunicazione è
rappresentato dai prodotti di intrattenimento e dei circuiti di
distribuzione ad essi collegati, solitamente imprese commerciali essi
stessi. Il progetto di un film o di una serie televisiva deve
individuare dei finanziatori prima di poter partire, andrà a
cercarli tra chi dispone delle maggiori quantità di denaro da
investire e difficilmente ne troverà se proporrà temi sgraditi agli
investitori. (...)
L’esito
di questo controllo, diretto ed indiretto, sui mezzi di informazione
ed intrattenimento è la diffusione di un ‘pensiero
unico’ sui
temi economici e sociali; un controllo non dissimile da quanto messo
in atto nei sistemi dittatoriali ma molto più sottile, capillare,
pervasivo ed in ultima istanza accettabile dalla popolazione. Quello
che ha conferito ai mass media la definizione, ironica ma calzante,
di “armi
di distrazione di massa”.
Da
quanto esposto fin qui si individua una prima forma di invadenza del
sistema economico nei meccanismi democratici, sotto forma di un
orientamento diffuso delle opinioni dei cittadini, che poi troverà
espressione nel momento del voto. Ma l’invadenza non si ferma qui.
Ricordiamo
che le imprese, al di là dell’avidità di chi le gestisce, si
fanno bandiera di una sorta di ‘obbligo
morale’
nel produrre ricchezza per sé e per i propri investitori. Ne
consegue la necessità, riconosciuta e pubblicamente accettata, di
intervenire per orientare a proprio vantaggio le decisioni dei poteri
democratici: legislativo, esecutivo e giudiziario.
Da
questo punto di vista, il soggetto speculare ai produttori e
distributori di contenuti culturali, nell’ambito politico, sono i
partiti. Al pari delle grandi testate giornalistiche, i partiti sono
in parte espressione diretta di interessi economici (al punto da non
doverlo neanche nascondere… Forza Italia di Berlusconi docet), in
parte soggetti sedicenti ‘indipendenti’,
sorretti da sistemi di finanziamento raramente trasparenti.
La
pressione dei potentati economici sulle decisioni delle linee
politiche da promuovere si esprime, quindi, anche indipendentemente
dai meccanismi corruttivi tradizionali, mentre il caso estremo di
invadenza agisce per mezzo di trasferimenti di denaro, a singoli
uomini politici o figure tecniche in ruoli di grande responsabilità,
effettuati in totale segretezza grazie ai paradisi fiscali. Il trait
d’union formale tra mondo economico e mondo politico è
rappresentato dai cosiddetti lobbisti, che hanno il ruolo di mediare
tra gli interessi delle imprese e quelli della classe politica.
Il
controllo dei potentati economici sui partiti si riflette
nell’emanazione di leggi che favoriscono interi comparti, quando
non singole imprese, e nelle scelte di destinazione di fondi pubblici
(ad esempio quelli destinati all’estensione e manutenzione della
rete stradale, che favorisce il comparto del trasporto e della
mobilità privata ai danni delle reti su ferro e del trasporto
pubblico).
Per
inciso, non è strettamente necessario che le leggi approvate siano
esplicitamente
a favore di determinati interessi economici. È infatti sufficiente
che tali leggi siano confuse, inapplicabili, farraginose e prive di
decreti apllicativi perché portino acqua al mulino di chi ha
investito per renderle inefficaci.
Così
come non è strettamente necessario che i poteri economici siano
legali perché possano prodursi i meccanismi sovra descritti: sistemi
economici criminali come quelli legati al narcotraffico, che ha una
rilevanza significativa su PIL nazionale, hanno anch’essi canali di
accesso ai piani alti della politica. Pecunia non olet, dicevano i
latini.
Quali
sono le conseguenze ultime
di questo quadro? Da
diverso tempo una delle mie citazioni preferite è la frase di Mark
Twain: “se
votare servisse a qualcosa, non ce lo lascerebbero fare”.
Più vado avanti ad analizzare i meccanismi sottesi all’esercizio
di governo democratico, ed alla loro sostanziale corruttibilità, più
mi convinco della veridicità di tale assunto.
Possiamo
attenderci, ad esempio, che le esigenze di salute pubblica vengano
poste in secondo piano rispetto alla redditività delle imprese. In
Italia abbiamo innumerevoli esempi, dall’inquinamento diffuso nelle
aree più ‘produttive’
(…),
fino all’onnipresente invadenza del trasporto privato causata da
scelte urbanistiche e trasportistiche scellerate, con tutto il suo
portato di morti e feriti.
Possiamo
attenderci che le misure di contrasto al crimine organizzato siano
poche ed inefficienti, ed è facilmente verificabile come anche
questa situazione si verifichi con frequenza. Possiamo attenderci che
la certezza della pena sia messa in discussione da una legislazione
eccessivamente
garantista, e che l’efficacia degli iter processuali sia minata da
una quantità di problemi, lungaggini e questioni tecniche derivanti
da norme inutilmente complesse e disfunzionali.
Possiamo
attenderci un teatrino della politica in cui i partiti ‘di
destra’ promulgano impunemente politiche a favore dei grandi
gruppi industriali, mentre i partiti sedicenti ‘di sinistra’
mettono in atto anch’essi politiche di destra anteponendo
l’interesse dei grandi gruppi privati a quello pubblico, al più
mascherandole da misure necessarie o scegliendo di rinunciarvi e
perdere la successiva tornata elettorale per fare in modo che le
stesse scelte politiche possano essere portate avanti dai loro
teorici oppositori.
Il
trucco sta nel mantenere l’apparenza di un sistema democratico,
quando sono invece grandi imprese e gruppi finanziari a controllare
quello che pensiamo, attraverso i mass media, e quello che decidono
di fare i rappresentanti che eleggiamo, attraverso i partiti. >>
MARCO
PIERFRANCESCHI