Le disincantate considerazioni di Gianni Pardo (tratte dal suo blog) su due aspetti spiacevoli ma ineliminabili della natura umana, quali il razzismo e la xenofobia; e sulla pericolosa stupidità di chi vorrebbe ignorarli.
LUMEN
<< Fra le pulsioni ineliminabili della natura umana possiamo mettere la guerra, che infatti è sempre esistita e non coincide con la semplice “violenza”. Gli animali combattono per le femmine o per il territorio, ma non si associano in grandi gruppi per combattere contro altri gruppi di congeneri. La violenza è individuale, la conoscono moltissimi esseri, la guerra è un “noi” contro “loro” ed appartiene ad alcune specie soltanto. Per esempio le formiche.
Che cosa determini il “noi” e il “loro” ha un’importanza limitata. Può trattarsi del colore della pelle, della lingua che si parla, della religione che si pratica o del territorio di appartenenza: tutto è sufficiente a far scattare una guerra. Basta che ci siano interessi in conflitto, o perfino semplici pregiudizi, tali da operare una distinzione e renderla aggressiva.
In questo quadro il razzismo si configura come una guerra a basso potenziale, spesso ma non sempre incruenta. E, come la guerra, si nutre del sentimento di “noi” e “loro”, quale che sia il discrimine.
Nella cultura occidentale il razzismo fa pensare al disprezzo che l’uomo bianco nutre per l’uomo di colore, ma questo è soltanto un fatto contingente. I greci chiamavano barbari quelli che non parlavano greco. Per i romani il colore della pelle funzionava al contrario e avranno sentito disprezzo per i pallidi e biondi germani, perché rispetto a loro essi erano i barbari. I cinesi e i giapponesi disprezzavano ampiamente i non cinesi e i non giapponesi, inclusi ovviamente gli occidentali.
Un fondamentale motivo di distinzione dei gruppi è il livello di civiltà. Non sarebbe stato possibile che i coloni di lingua inglese non giudicassero inferiori gli aborigeni australiani; questi erano ancora all’età della pietra (come del resto i pellerossa americani) mentre loro venivano da uno degli Stati più moderni del mondo.
Prima di giudicarlo male, bisogna riconoscere che il razzismo è un fenomeno naturale. Il razzista non è un mostro, e a volte il suo atteggiamento è conseguenza della generalizzazione di precedenti esperienze.
Avevo una ventina d’anni quando sentii raccontare che all’Ostello della Gioventù di Monaco di Baviera gli italiani erano ospitati esclusivamente ed obbligatoriamente all’ultimo piano, perché avevano la fama di fare baccano e di disturbare gli altri ospiti. Non so se fosse vero. Se lo era, non sarebbero stati i dirigenti ad essere razzisti, sarebbero stati gli italiani ad essere maleducati. Se invece non era vero, e quella limitazione era stabilita sulla base di un pregiudizio, quei bavaresi erano razzisti nel senso peggiore. Quello stupido.
Purtroppo ciò avviene spesso. Il razzismo inammissibile è quello che si nutre di pregiudizi privi di giustificazione, come nel caso dell’antisemitismo. Ed è anche il caso dell’ostilità contro i “coloured” quando essi – come a New York – sono perfettamente integrati. Dove invece c’è una base reale, il fenomeno inevitabilmente risorge. Negli Anni Cinquanta i torinesi consideravano i meridionali più o meno come i sudisti americani consideravano i negri.
Il razzismo, anche totalmente ingiustificato, nasce pressoché inevitabilmente quando all’interno di un grande gruppo si forma un gruppo minoritario di una certa consistenza. Qualcuno dice l’8%. Basta che fra i due gruppi esista una differenza di religione, oppure di pelle, di costumi, di lingua (si pensi ai valloni e ai fiamminghi, che pure giuridicamente sono tutti belgi) e ciò basta perché nasca tra loro l’ostilità. “Noi” contro “loro”.
Dal momento che il fatto è naturale, la cosa migliore è evitare che il gruppo minoritario divenga tanto grande da acquistare visibilità e far nascere l’attrito sociale. Se mezzo milione di angeli volesse venire a stabilirsi a Roma, bisognerebbe dire: “No grazie”. Perché gli angeli, per il semplice fatto di avere usi e costumi diversi dagli altri, sarebbero “loro” e diverrebbero un problema.
Tutto ciò costituisce un valido motivo per limitare l’immigrazione in Italia. Non per un giudizio negativo sui nuovi arrivati, semplicemente perché gli italiani li sentono come “loro”, in particolare gli “inassimilabili”. Per non dire che gli stessi immigrati si sentono diversi. >>
<< Il razzismo ha ben poco a che vedere con la razza. Basti vedere che se ne parla a proposito degli ebrei e gli ebrei non sono una razza. Sarebbe bene non ripetere questo errore scientifico (e tragico) del XX secolo.
Qualcuno nega l’esistenza delle razze perché tra un norvegese e un senegalese non c’è un salto, ma un digradare dalla colorazione della pelle, andando a nord a sud. Cionondimeno, dal punto di vista della gente normale, un norvegese è un bianco e un senegalese è un nero. Che poi questo abbia importanza o no è del tutto secondario.
I problemi cosiddetti “razziali” si hanno in qualunque società quando un gruppo di abitanti sia sentito come “diverso” dalla maggioranza. La differenza può essere il colore della pelle, la religione, o perfino soltanto la lingua (come in Belgio): ciò che conta è che si possa distinguere un “loro” e un “noi”. (…)
La conclusione è che, dove ci sono gruppi minoritari, si ha un problema, almeno finché non si abbia (quando si ha) una totale integrazione. I nipoti dei (…) [meridionali emigrati] a Torino, sono dei torinesi come gli altri, perché sono partiti come bianchi fra i bianchi, cattolici fra cattolici, italiani fra italiani. Mentre in Francia i magrebini musulmani, anche se francesi di nazionalità, rimangono degli “Arabes”, e sono sentiti come “diversi”.
Il problema dei gruppi a volte si risolve col tempo (Torino), a volte non si risolve nemmeno molti decenni dopo (Francia e Stati Uniti). Questo significa che la vera risposta è evitare che il problema sorga. I rumeni che immigrano in Italia sono bianchi, cristiani, e fieri della loro lingua neolatina. I loro figli e nipoti saranno italiani come gli altri. Ma i figli e i nipoti dei senegalesi rimarranno diversi e questo costituirà un problema, anche per loro.
La risposta morale e culturale è bella e desiderabile, ma non tutti sono disposti a darla e comunque funziona – quando funziona – dopo molti decenni. Né vale di più la risposta legale. Dichiarare tutti i cittadini uguali dinanzi alla legge conta poco, quando ci si presenta per prendere in locazione una casa. Perché se la nostra faccia non piace al proprietario, nessuno può obbligarlo a darci la chiave dell’appartamento.
Inoltre, finché il gruppo allogeno rimane piccolo, le discriminazioni sono odiose ma non turbano l’ordine sociale. Quando invece il gruppo allogeno diviene notevole (dicono: quando supera l’8%) la maggioranza – come spesso avviene composta da stupidi – si sente in pericolo e si possono verificare episodi di violenza criminale. Si pensi al Ku Klux Klan. (…)
Chi non vuole tenerne conto, preferisce l’ideale e dice che tutti gli uomini sono fratelli. Il messaggio della realtà è invece che ogni gruppo minoritario inassimilabile prima o poi crea un problema insolubile. >>
GIANNI PARDO