Un'analisi degli aspetti meno nobili del mitico '68, in questo pezzo scritto da Ferdinando Bilotti per il sito 'Partenza da Zero' (LINK).
LUMEN
<< Dobbiamo (...) tenere presenti le trasformazioni a cui la società andò incontro nel ventennio di forte sviluppo successivo alla seconda guerra mondiale. Il rapido avanzamento sia demografico, sia economico di quella fase ebbe tra i suoi effetti quello di ampliare i ranghi del ceto medio in misura tale da rendere problematico l’assorbimento delle sue nuove leve da parte delle università e poi del mercato del lavoro intellettuale.
Alla fine degli anni Sessanta, questa incapacità del sistema sociale di soddisfare le ambizioni di formazione e di occupazione nutrite dai giovani esponenti di tale classe spinse molti di loro su posizioni fortemente critiche nei confronti dei esso: si spiegano così, almeno in parte, l’esplodere della protesta studentesca e più in generale l’assunzione da parte della gioventù dell’epoca di atteggiamenti radicali.
Dal momento che questa contestazione degli assetti vigenti avvenne in nome della realizzazione di una società dalle maggiori capacità inclusive, era del tutto naturale che essa assumesse in massima parte una connotazione politica progressista.
A orientarla in tal senso, tuttavia, dovette valere anche la parallela esplosione della protesta operaia, che faceva dell’adesione alla dottrina marxista un potenziale strumento di saldatura fra le due lotte, saldatura che avrebbe consentito agli intellettuali di avvalersi, per realizzare i propri obiettivi di trasformazione della società, della forza del numero su cui potevano contare le masse operaie.
Questa radicalizzazione delle nuove generazioni di intellettuali, però, evidentemente in molti casi non mise radici profonde negli animi degli interessati, rimanendo così legata alle loro condizioni del momento e dunque risultando suscettibile di venir meno una volta che essi fossero riusciti a integrarsi nella società.
In ragione di ciò, a partire dai tardi anni Sessanta i partiti di sinistra furono colonizzati da un gran numero di militanti la cui adesione ai loro ideali di progresso sociale era sincera ma superficiale, perché figlia di contingenti motivazioni personali, o peggio ancora opportunistica, perché finalizzata a volgere a proprio vantaggio la forza del movimento operaio, e quindi in entrambi i casi destinata a scomparire una volta che il raggiungimento di una posizione elevata in seno alle strutture partitiche li avesse resi soddisfatti della propria condizione.
Venuta meno l’adesione ai valori inizialmente professati, nell’animo di tali politici rimase poi soltanto la volontà di affermazione personale, che aveva costituito il movente originario della loro militanza: essi pertanto non esitarono a tramutarsi da nemici in servitori del potere economico, in modo da facilitare la propria ulteriore ascesa procurandosi il sostegno di quest’ultimo.
La contestazione giovanile ebbe anche motivazioni culturali. Come a suo tempo rilevò Daniel Bell (nel suo “The cultural contradictions of capitalism”), la società capitalista si fonda su due sistemi di valori in opposizione fra di loro, uno funzionale a sostenere la produzione e l’altro a spingere il consumo.
Nel ventennio di forte sviluppo 1950-70, l’incremento della produttività del lavoro da una parte rese più agevole la produzione di beni, facendo perdere rilevanza alle tradizionali virtù borghesi funzionali al compimento d’investimenti e a un’efficiente conduzione delle attività economiche (risparmio, laboriosità, disciplina); e dall’altra, come abbiamo già spiegato, fece sorgere la necessità di valorizzare questa sempre più ingente quantità di beni prodotta, imponendo perciò la promozione di una mentalità di segno opposto.
Inoltre, la crescita del benessere rese non più necessaria la concentrazione delle risorse nelle mani dei capifamiglia, consentendo l’assunzione di decisioni di consumo autonome (e quindi una più generale autonomia di pensiero e di azione) da parte di soggetti tradizionalmente subalterni, quali le donne e per l’appunto i giovani.
Questi, pertanto, divennero propensi a mettere in discussione l’autoritarismo e la gerarchizzazione che alla fine degli anni Sessanta ancora informavano la vita sociale (sia pure in misura già spontaneamente calante).
Logicamente, un simile atteggiamento critico nei riguardi della cultura e dei valori dominanti induceva ad assumere una posizione critica anche verso le situazioni di ineguaglianza e di sfruttamento che connotavano i rapporti fra i ceti. Questo orientamento antisistema di marca progressista, però, si fondava su una visione della società individualista e libertaria che coincideva con l’apparato valoriale del capitalismo consumista ed era suscettibile di sposarsi anche con una mentalità improntata al più gretto egoismo di classe.
Nel lungo periodo, pertanto, la cultura della contestazione non fu in grado di fare da argine, nelle coscienze dei reduci da quell’esperienza, alla pressione che la convenienza personale esercitò in direzione dell’accettazione del ‘patto col diavolo’ costituito dalla propria trasformazione in rappresentanti degli interessi capitalistici.
Naturalmente, va precisato che questo processo di subordinazione dei partiti di sinistra al potere economico non ha riguardato l’intero arco politico della sinistra stessa, in quanto al suo interno hanno comunque continuato ad esistere delle forze di ispirazione marxista fortemente orientate in difesa dei lavoratori. Esse, tuttavia, hanno mantenuto un peso politico modesto, non riuscendo quindi a diventare i nuovi punti di riferimento dei ceti abbandonati dai grandi partiti socialdemocratici.
Ciò si spiega, in parte, con la difficoltà di fare presa sulle coscienze di una cittadinanza la cui cultura e il cui immaginario sono stati manipolati in maniera tale da renderla largamente priva di coscienza politica e votata a un individualismo che esclude dall’orizzonte mentale la prospettiva di una salvezza collettiva; in parte ancora, con le ridotte possibilità di fare proseliti che inevitabilmente hanno connotato movimenti poveri di risorse finanziarie e condannati a operare in un ambiente mediatico ad essi ostile; ma in parte anche col fatto che le proposte politiche di tali formazioni sono state segnate da gravi elementi di criticità, i quali hanno finito per respingere molti loro potenziali elettori. >>
FERDINANDO BILOTTI
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