Si conclude qui il post di Lorenzo Mesina, tratto da Pandora Rivista, sui rapporti tra Democrazia ed Elitismo (LINK) (seconda ed ultima parte).
LUMEN
(segue)
<< L’indagine di Gaetano Mosca sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del suo intreccio con la democrazia.
Consapevole dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in espansione contro i vecchi ceti dominanti. Mediante l’uso di principi universali (libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia ha coinvolto il popolo nella sua ascesa al potere, legittimandosi come rappresentativa di tutta la nazione e non come classe particolare.
Dall’analisi di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo: la legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere. Contrariamente a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma gli interessi particolari del ceto politico o, peggio, dei suoi singoli membri.
La ricca riflessione condotta da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere si confronta con la scienza politica élitista con l’intenzione di superare le sue obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno. Le critica gramsciana all’elitismo si inserisce nell’orizzonte di una scienza politica integralmente storicizzata e incentrata sul concetto di egemonia, come categoria generale della politica e della storia. Obiettivo di Gramsci è quello di superare dialetticamente la teoria delle élite, sviluppandola in una prospettiva radicalmente democratica.
È soprattutto sulle opere di Gaetano Mosca (e in misura minore quelle di Michels e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci. Le sue critiche riguardano sia l’impianto analitico della teoria moschiana sia il suo implicito orientamento politico conservatore. Gramsci condivide il principio secondo cui in ogni formazione sociale «esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti», come condivide il fatto che «tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)».
Anche per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli élitisti. La critica gramsciana all’elitismo riguarda il suo impianto positivista, che si limita a registrare meccanicamente determinati fatti e processi per poi elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della storia. Tale approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e oligarchico dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a mantenere le disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.
Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca, sia nella Teorica sia negli Elementi di scienza politica (1896, 1923), accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di concetti vaghi. Quello che gli élitisti italiani non sono in grado di comprendere sono la natura e le dinamiche delle élite nel momento in cui le masse irrompono sulla scena politica europea, in particolare con l’avvento del primo conflitto mondiale.
Per questo Gramsci intende indagare la nascita, la selezione e le dinamiche politiche delle élite in una prospettiva essenzialmente storicista e dialettica. Questa deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto comprendere le modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono coscienza di sé e del proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente degli intellettuali.
Nelle ricerche condotte nei Quaderni Gramsci non intende limitarsi a constatare la divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana. Per questo si domanda «come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti».
Formazione dei dirigenti che deve avvenire muovendo dal presupposto che la distinzione tra governanti e governati non rappresenti un destino immutabile, ma «sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni». Il problema che Gramsci si pone è quello di tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il soggetto e lo Stato. Questi permangono contrapposti in modo conflittuale e contraddittorio nelle architetture istituzionali liberal-democratiche.
L’elitismo approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice, affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e governati. Per Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.
Nel partito politico Gramsci individua il mezzo «più adeguato per elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di un’educazione delle masse capace di integrarle nel progetto di una piena autodeterminazione del corpo sociale («società regolata»).
Nel partito come «moderno Principe», l’esercizio delle funzioni politiche da parte delle proprie élite non è semplice dominio sulle masse. Al contrario costituisce quella combinazione di direzione, produzione di consenso, senso storico e organizzazione che ne determina la capacità egemonica nella società.
La prospettiva radicalmente democratica di Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese. Superamento della contrapposizione netta tra governanti e governati attraverso le funzioni organizzative di un partito che ha l’ambizione di porsi come l’elemento rappresentativo e direttivo dello sviluppo dei conflitti e delle forze sociali.
Il pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa il problema del rapporto tra élite e democrazia. Se per Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per Antonio Gramsci la soluzione del problema indicato dagli élitisti consisteva nel superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.) hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore in una prospettiva liberale.
Obiettivo comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la presenza di un pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema democratico. L’immagine di democrazia che ne emerge, specialmente dall’opera di Schumpeter, è quella di uno strumento istituzionale in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi di élite, elette attraverso il voto popolare.
La democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite. Ne emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership: i cittadini dispongono del diritto di scegliere chi si assumerà la responsabilità di prendere le decisioni politiche e solo indirettamente cosa deciderà per la comunità intera.
Se, come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni: la loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento (le elezioni). In altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci, della mediazione tra élite e società. >>
LORENZO MESINI
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