Per domesticazione, in biologia, si intende il processo attraverso cui una specie animale o vegetale viene resa "domestica", cioè dipendente dalla convivenza con l'uomo e dal controllo da parte sua.
In molti casi, la domesticazione ha comportato, per le specie coinvolte, notevoli modificazioni del comportamento, del ciclo bilogico e della stessa fisiologia.
Ma, utilizzando il termine in senso traslato, si può parlare anche di 'auto-domesticazione', con riferimento alla capacità umana di convivere pacificamente in una società complessa. E, magari, utiizzare questo concetto per spiegare la nascita dei rapporti di classe, tipici delle società umane.
Ce ne parla Marco Pierfranceschi in questo testo, molto acuto e provocatorio, tratto dal suo blog Mammifero Bipede.
LUMEN
In molti casi, la domesticazione ha comportato, per le specie coinvolte, notevoli modificazioni del comportamento, del ciclo bilogico e della stessa fisiologia.
Ma, utilizzando il termine in senso traslato, si può parlare anche di 'auto-domesticazione', con riferimento alla capacità umana di convivere pacificamente in una società complessa. E, magari, utiizzare questo concetto per spiegare la nascita dei rapporti di classe, tipici delle società umane.
Ce ne parla Marco Pierfranceschi in questo testo, molto acuto e provocatorio, tratto dal suo blog Mammifero Bipede.
LUMEN
<< La strutturazione sociale [in classi] può essere descritta come un’ulteriore articolazione della catena trofica umana: attraverso l’efficientamento nell’acquisizione di cibo, e più avanti nella sua produzione, una porzione crescente della popolazione risulta svincolata dal provvedere direttamente alle proprie necessità, e finisce col dipendere dal lavoro altrui.
In termini di “domesticazione”, ciò significa che il lavoro eseguito dall’allevatore sulle specie animali da cui egli trae nutrimento, mostra delle affinità con l’operato degli strati sociali sovrastanti l’allevatore stesso, che dai suoi prodotti traggono sostentamento.
Vediamo altresì al lavoro l’ingegno umano, e non potrebbe essere diversamente: in un caso (l’allevatore) nel massimizzare la resa dei processi di allevamento animale e produzione di cibo, nell’altro (le classi dirigenti) nel massimizzare la quantità di ricchezza trasferita dai produttori diretti al livello successivo della scala sociale, quindi ad essi stessi.
Essendo i due processi mentali del tutto analoghi, è evidente come non ci si possa legittimamente attendere venga messo in atto, nei confronti di altri umani coi quali non si intrattengano relazioni dirette, una modalità di sfruttamento radicalmente differente da quella riservata al bestiame di cui ci si nutre.
Per quanto eticamente discutibile (ma, faccio notare, l’etica stessa altro non è che un costrutto culturale basato su assunti arbitrari, e pertanto indimostrabile) lo sfruttamento del lavoro altrui appare essere un tassello chiave nel processo di auto-domesticazione che coinvolge la nostra specie. Un comportamento ‘emergente’ che (...) discende in linea diretta dall’evoluzione dei processi correlati allo sviluppo del potenziale cognitivo del cervello umano.
La differenza sostanziale, nei due meccanismi descritti, sta nel differenziale intellettivo tra domesticatore e domesticato. Nei processi di domesticazione animale la specie umana ha buon gioco, disponendo di capacità intellettive largamente superiori alle specie ridotte in cattività, nel realizzare recinti e gabbie dalle quali gli animali non sono in grado di scappare.
Nel processo di auto-domesticazione le intelligenze in campo sono identiche, e la partita si gioca interamente su un piano culturale. I recinti in questione diventano quindi ‘recinti culturali’, schemi di pensiero collettivamente condivisi che ottengono di racchiudere gli individui all’interno di ‘gabbie mentali’, nelle quali risultano intrappolati e costretti a limitarsi al ventaglio di comportamenti socialmente accettati.
Ciò rappresenta un’ulteriore fonte di sofferenza psichica, che trova sfoghi attraverso modalità e rituali definiti dalla cultura stessa.
A parte questa differenza, ci troviamo di fronte ad una modalità classica di equilibrio predatore/preda, del tutto analoga a quelle descritte dal modello evolutivo darwiniano. O, per altri versi, a quell’ Homo homini lupus ben sintetizzato dall’autore latino Plauto.
Numerosità e benessere della popolazione dei ‘predatori’ discende dalla disponibilità di ‘prede’. Quando tuttavia si verifica un’interruzione della catena trofica (carestia) questa si ripercuote verso l’alto mettendo in discussione le modalità redistributive stabilite dalla cultura contingente, portando ad un riassestamento.
Un esempio fra tanti è quello della caduta dell’Impero Romano, dove la costosa macchina amministrativa e le imponenti opere infrastrutturali da essa richieste non sono state in grado di sopravvivere ad un sopravvenuto collasso dei flussi di ricchezza (cibo, metalli preziosi e schiavi) dovuto all’eccessiva espansione delle terre conquistate.
Le organizzazioni sociali che ne sono emerse, nel Medioevo, si sono quindi riarrangiate sulla base di una disponibilità inferiore di risorse, che ha condotto ad una drastica riduzione dei ruoli sociali ‘improduttivi’. (…)
Come ‘emerge’ una cultura? Partendo dall’evidenza che il cervello umano è capace di auto-ingannarsi, diventa possibile strutturare, fissare e rendere replicabili le modalità di reazione, in gruppi ed intere collettività, mediante l’elaborazione e la diffusione di specifici costrutti culturali.
Tali costrutti possono essere descritti come strutture ideologiche auto-coerenti in cui, a partire da una serie di assunti, alcuni dei quali arbitrari, si derivano le conseguenti modalità comportamentali da mettere in atto. (...)
Ogni società umana ha pertanto dovuto elaborare un proprio specifico modus-operandi legato alla sopravvivenza, ed ha prodotto una propria, unica, cultura sviluppando un sistema di idee capace di combinare elementi eterogenei in un costrutto efficace, composto, ove possibile, dalle evidenze oggettive note, e riempendo le inevitabili lacune con assunti indimostrabili. >>
In termini di “domesticazione”, ciò significa che il lavoro eseguito dall’allevatore sulle specie animali da cui egli trae nutrimento, mostra delle affinità con l’operato degli strati sociali sovrastanti l’allevatore stesso, che dai suoi prodotti traggono sostentamento.
Vediamo altresì al lavoro l’ingegno umano, e non potrebbe essere diversamente: in un caso (l’allevatore) nel massimizzare la resa dei processi di allevamento animale e produzione di cibo, nell’altro (le classi dirigenti) nel massimizzare la quantità di ricchezza trasferita dai produttori diretti al livello successivo della scala sociale, quindi ad essi stessi.
Essendo i due processi mentali del tutto analoghi, è evidente come non ci si possa legittimamente attendere venga messo in atto, nei confronti di altri umani coi quali non si intrattengano relazioni dirette, una modalità di sfruttamento radicalmente differente da quella riservata al bestiame di cui ci si nutre.
Per quanto eticamente discutibile (ma, faccio notare, l’etica stessa altro non è che un costrutto culturale basato su assunti arbitrari, e pertanto indimostrabile) lo sfruttamento del lavoro altrui appare essere un tassello chiave nel processo di auto-domesticazione che coinvolge la nostra specie. Un comportamento ‘emergente’ che (...) discende in linea diretta dall’evoluzione dei processi correlati allo sviluppo del potenziale cognitivo del cervello umano.
La differenza sostanziale, nei due meccanismi descritti, sta nel differenziale intellettivo tra domesticatore e domesticato. Nei processi di domesticazione animale la specie umana ha buon gioco, disponendo di capacità intellettive largamente superiori alle specie ridotte in cattività, nel realizzare recinti e gabbie dalle quali gli animali non sono in grado di scappare.
Nel processo di auto-domesticazione le intelligenze in campo sono identiche, e la partita si gioca interamente su un piano culturale. I recinti in questione diventano quindi ‘recinti culturali’, schemi di pensiero collettivamente condivisi che ottengono di racchiudere gli individui all’interno di ‘gabbie mentali’, nelle quali risultano intrappolati e costretti a limitarsi al ventaglio di comportamenti socialmente accettati.
Ciò rappresenta un’ulteriore fonte di sofferenza psichica, che trova sfoghi attraverso modalità e rituali definiti dalla cultura stessa.
A parte questa differenza, ci troviamo di fronte ad una modalità classica di equilibrio predatore/preda, del tutto analoga a quelle descritte dal modello evolutivo darwiniano. O, per altri versi, a quell’ Homo homini lupus ben sintetizzato dall’autore latino Plauto.
Numerosità e benessere della popolazione dei ‘predatori’ discende dalla disponibilità di ‘prede’. Quando tuttavia si verifica un’interruzione della catena trofica (carestia) questa si ripercuote verso l’alto mettendo in discussione le modalità redistributive stabilite dalla cultura contingente, portando ad un riassestamento.
Un esempio fra tanti è quello della caduta dell’Impero Romano, dove la costosa macchina amministrativa e le imponenti opere infrastrutturali da essa richieste non sono state in grado di sopravvivere ad un sopravvenuto collasso dei flussi di ricchezza (cibo, metalli preziosi e schiavi) dovuto all’eccessiva espansione delle terre conquistate.
Le organizzazioni sociali che ne sono emerse, nel Medioevo, si sono quindi riarrangiate sulla base di una disponibilità inferiore di risorse, che ha condotto ad una drastica riduzione dei ruoli sociali ‘improduttivi’. (…)
Come ‘emerge’ una cultura? Partendo dall’evidenza che il cervello umano è capace di auto-ingannarsi, diventa possibile strutturare, fissare e rendere replicabili le modalità di reazione, in gruppi ed intere collettività, mediante l’elaborazione e la diffusione di specifici costrutti culturali.
Tali costrutti possono essere descritti come strutture ideologiche auto-coerenti in cui, a partire da una serie di assunti, alcuni dei quali arbitrari, si derivano le conseguenti modalità comportamentali da mettere in atto. (...)
Ogni società umana ha pertanto dovuto elaborare un proprio specifico modus-operandi legato alla sopravvivenza, ed ha prodotto una propria, unica, cultura sviluppando un sistema di idee capace di combinare elementi eterogenei in un costrutto efficace, composto, ove possibile, dalle evidenze oggettive note, e riempendo le inevitabili lacune con assunti indimostrabili. >>
MARCO PIERFRANCESCHI
Un'ulteriore considerazione di Marco Pierfranceschi sui condizionamenti del vivere in gruppo:
RispondiElimina<< Perché il gruppo agisca come un sovra-organismo e possa diventare, in termini di sopravvivenza e riproduzione, fattivamente più efficace rispetto ad uno stile di vita solitario, è necessario che le azioni dei singoli individui siano coerenti e coordinate.
Ciò può avvenire unicamente con l’instaurarsi di modalità relazionali condivise ed approvate dai singoli membri, ovvero attraverso l’elaborazione di quella che definiamo una ‘cultura’.
La cultura del gruppo deve necessariamente tener conto delle esigenze dei singoli individui, anche di quelle irrazionali, incorporandole nello schema condiviso. Ecco come i bias cognitivi prendono corpo, e si fissano, sotto la forma di ‘bias culturali’.
Siccome i singoli individui hanno necessità di esorcizzare la paura dell’ignoto, la cultura del gruppo provvederà a rassicurarli, elaborando descrizioni (narrazioni) della realtà utili ad esorcizzare tale angoscia. >>
A proposito della "cultura di massa" ho trovato casuamente sul web questa acuta riflessione:
RispondiElimina<< La cultura di massa si distingue dalla cultura per la tendenza a dividersi sempre in due fazioni mutualmente nemiche.
Se una posizione colta puo’ mantenersi equidistante o prendere il meglio di ogni cosa, una massa di distingue da un popolo per un semplice automatismo: quello di dividersi in due fazioni opposte e nemiche su ogni possibile argomento. >>