sabato 18 luglio 2020

La scienza economica e il mito della crescita

E' molto difficile indicare con precisione quando, e ad opera di chi, nacque la scienza economica in senso moderno.
Si ritiene comunque che occorra arrivare sino ad Adamo Smith ed a Ricardo (fine '700 / inizi '800) per avere le prime riflessioni economiche approfondite sulla via migliore per assicurare la floridezza degli Stati; la cui ricchezza, a sua volta, derivava dall'interazione delle tre classi sociali che lo componevano: i proprietari terrieri, i capitalisti (o imprenditori) ed i lavoratori.
Da allora, la scienza economica ha incominciato a correre e non si è più fermata.
A questa “disciplina”, e soprattutto ai suoi presupposti impliciti, è dedicato questo post di Marco Pierfranceschi, tratto dal su blog “Mammifero Bipede”. 
LUMEN


<< In una cultura come la nostra, che si pretende razionale, esistono dei concetti in qualche modo “totemici”, il principale dei quali è probabilmente l’idea della “crescita indefinita dell’economia”. Di certo in questi mesi di crisi l’avrete sentita evocare innumerevoli volte, dal politico o dall’economista di turno a mo’ di mantra, penso sia ora di andargli a fare un po’ “le pulci”.

Tutto nasce dall’invenzione, nel recente passato, delle “scienze economiche”, la cui funzione sta nel cercare di comprendere e descrivere, ed in ultima istanza prevedere, lo sviluppo delle economie planetarie, a livello di stati prima ancora che al livello dei singoli. Appare immediatamente evidente come i termini in gioco siano talmente tanti da non poter fare dell’economia una scienza deterministica.

L’economia si adattò perciò a diventare una disciplina non deterministica, basando le proprie analisi sul metodo statistico e cercando, a mio parere con scarsa efficacia, di dare una descrizione plausibile ed attendibile di sistemi troppo complessi per sottostare ad un’analisi puntuale. La scienza economica effettua quindi proiezioni di trend senza poter realmente spiegare quali sono i termini in gioco, se non per sommi capi.

La questione non assumerebbe aspetti drammatici se lo sviluppo di questa disciplina non fosse avvenuto in concomitanza con una fase del tutto atipica nella storia dell’uomo, caratterizzata da uno sfruttamento senza precedenti delle risorse energetiche fossili e da un’impennata drammatica del progresso tecnologico.

In mancanza della comprensione capillare dei moventi primi, l’unica possibilità per la neonata scienza dell’economia è stata di analizzare e descrivere questa singola fase, caratterizzata appunto da una crescita della ricchezza collettiva e pro-capite.

Il salto logico successivo, tuttavia, è venuto a mancare. L’idea che un modello che si è basato su una continua crescita per più di due secoli potesse essere un unicum del tutto atipico nella storia dell’umanità non ha trovato posto nelle teorie economiche, che a furia di descrivere un’economia in crescita non sono state in grado di immaginarne altre.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nonostante tutti gli indicatori mondiali raccontino del progressivo esaurimento di materie prime e fonti energetiche fossili, gli economisti continuano ad aggrapparsi a modelli matematici astratti, privi di collegamenti col mondo reale, ed a proporre soluzioni tutte interne al modello della “crescita indefinita”.

Una fra tutte l’idea che ad un indebitamento possa (debba?) seguire una successiva fase di arricchimento tale da compensare il debito e lasciare della ricchezza aggiuntiva (in particolar modo sulla scala di intere nazioni).

Ma possiamo davvero crescere indefinitamente? Ragioniamoci un po’ su. Ai tempi dei miei nonni le famiglie con tanti figli convivevano in un’unica casa, dividendosi tra i vari ambienti. Al crescere della ricchezza abbiamo costruito altre case, tanto che al momento la norma per le abitazioni attuali è che per ognuno di noi siano disponibili diversi ambienti. Molti ormai possiedono più case, una per l’abitazione nel corso dell’anno e le altre per la villeggiatura.

Dove ci stia portando tutto ciò è chiaro a chiunque abbia occhi per vedere: consumo del territorio, cementificazione, degrado paesaggistico. Meno evidente è il fatto che la semplice manutenzione e fruizione di tutte queste abitazioni ha un costo notevole, compatibile con un’economia basata su energia largamente diffusa ed a basso costo (la fase precedente), e progressivamente meno compatibile con una fase come l’attuale di costi crescenti per l’energia e riduzione dei margini di guadagno per ogni tipo di attività.

Nel pradigma della crescita, se in Italia ci sono attualmente due case a testa, più in là ce ne saranno tre, poi quattro, ed il tutto considerando una popolazione anch’essa crescente. Anche ammesso che ciò possa accadere che senso avrebbe tutto ciò? L’espansione urbanistica dei piccoli centri e la progressiva “villettizzazione” del territorio non farebbe altro che rendere tali luoghi via via meno appetibili e desiderabili, esattamente il contrario di quella che potrebbe essere una previsione di crescita del valore degli immobili stessi!

Parliamo allora di altri beni di consumo, come l’automobile. Al momento in Italia abbiamo 60 automobili ogni 100 abitanti. È il valore più alto in Europa. Cosa può significare una crescita in questo senso? Dovremmo arrivare ad un’automobile a testa, compresi neonati, anziani, disabili e non patentati? Due automobili a testa? Le nostre città già scoppiano per il numero di auto parcheggiate, tutte le altre in più (ammesso che mai ce le potremo permettere) dove le andremmo a mettere? E per farci cosa, poi?

Per questo ogni volta che sento parlare di “crescita dell’economia” in termini totalmente astratti non posso non provare il brivido tipico del passeggero dell’autobus coi freni rotti che viaggia in direzione di un burrone. Cos’è che dovrebbe “crescere” nel concreto, ovvero al di fuori dei freddi numeri e di indicatori come il PIL che tutto ci raccontano tranne quale sia il nostro reale benessere?

L’aumento del numero di automobili e dei chilometri percorsi ha comportato nel tempo un aumento di morti e feriti per l’incidentalità stradale, del numero di ore perse per ingorghi nel traffico, nel numero di patologie polmonari e neoplastiche, dell’indebitamento individuale e collettivo, dello stress e della congestione dei centri storici, della cementificazione e del danneggiamento del territorio. Davvero vogliamo che tutto questo “cresca” ulteriormente?

La cultura del consumismo ha prodotto negli anni un numero crescente di rifiuti da smaltire, che sono finiti a danneggiare il territorio, inquinare fiumi e falde acquifere, sporcare ed intossicarci. Crescita dell’economia, fin qui, ha significato anche questo: davvero ci interessa che tale processo progredisca senza alcun controllo o siamo in grado, scientemente e razionalmente, di decidere cosa è desiderabile e cosa no?

Quantomeno dovremmo essere capaci di fermarci un attimo e riconsiderare questo totem della crescita senza limiti, a cui stiamo sacrificando le nostre vite e la speranza di felicità delle future generazioni. Possiamo fermarci e ragionare su cosa realmente ci serve e cosa è invece superfluo.

Allo stesso modo in cui le popolazioni più povere del mondo antico venivano spogliate di oro e ricchezze in cambio di perline colorate, noi stiamo ora regalando le nostre vite e la nostra felicità in cambio di automobili, smart-phones, abiti firmati ed oggetti variamente inutili. Forse è il momento di cominciare a crescere, sì, ma in termini umani e non economici, e di provare a diventare degli adulti consapevoli e responsabili. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

3 commenti:

  1. Condivido pienamente i dubbi, le apprensioni di Pierfranceschi. Il suo è un discorso ragionevole. Eppure proprio in questi giorni il mio quotidiano ripropone il mantra: la crescita non solo non può essere fermata, ma è persino necessaria. Infatti grazie alla crescita sarà possibile ovviare ai problemi che essa crea (per es. l'inquinamento). Ovvero: prima inquiniamo, ma poi grazie alla crescita, che significa anche innovazione, più tecnologia ecc., saremo in grado di riparare i danni provocati dalla crescita. L'importante è crescere come che sia - perché senza crescita è la fine: niente investimenti, meno posti di lavoro, tensioni sociali ecc. E poi la domanda di crescita è generale: destra, sinistra, governo, Chiesa, popolazione, terzo mondo, tutti vogliono una cosa sola: stare meglio, avere di più.

    Si può uscire da questa perversa spirale? Sembra impossibile. L'unica soluzione sembra essere quella di andare a sbattere, ciò che prima o poi è probabile accadrà. Di nuovo: sì allo sviluppo, al progresso, al miglioramento delle condizioni di vita - e per tutti -, ma ciò non può significare accumulo indefinito di beni poi da smaltire (chissà come! ah sì, con più innovazione e tecnologia!).
    Dunque dovremo cozzare contro i limiti fisici del pianeta (che esistono) per ricuperare il senno, ma dopo aver causato danni e sconquassi.

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    1. Caro Sergio, qualcuno (purtroppo non ricordo chi) ha detto che la tecnologia non può essere la risposta ultima, perchè mentre risolve i problemi esistenti, inevitabilmente ne crea dei nuovi.

      Albert Einstein, invece, era ancora più pessimista, ed affermava che “Il progresso tecnologico è come un'ascia nelle mani di un criminale patologico”.

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  2. A proposito del mantra della crescita (che può essere sia quantitativa che qualitativa), l'amico Agobit, nel suo ultimo post, fa questa considerazione, che condivido:

    << Non ritengo possibile un regresso o anche solo uno stop tecnologico.
    Quello su cui è necessario intervenire e' il fattore P, cioè' il numero della popolazione. (...)
    Ogni intervento sulla tecnologia, senza un adeguata riduzione del numero della popolazione, rischia di portare indietro l'orologio della storia, portando a situazioni di crisi sociale e ambientale senza precedenti. >>

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