Si
conclude qui l’articolo-recensione di Michele Silenzi (tratta da Il Foglio) sui limiti
dell’empatia. LUMEN
(seconda
parte)
<<
La parte emozionale degli individui, la loro sensibilità, è stata
posta al centro del villaggio occidentale non come una delle tante
componenti importanti dell’uomo ma come la sua componente più
importante, come ciò che rende un uomo un uomo. E’ stata concessa
un’esacerbante importanza all’aspetto emozionale. Ma come si è
venuta a creare questa necessità parossistica di buoni sentimenti?
Questa
idea che ogni uomo debba essere in grado di sentire la sofferenza
degli altri e quindi assumerla su di sé e, addirittura, agire in
base a questo tipo di sentimento come guida morale? L’unico che
potrebbe assumersi un ruolo del genere sarebbe Dio, un essere
onnicomprensivo che tutto riconduce a sè e da cui tutto si emana.
Questo
tipo di approccio iper-sentimentale ha a che fare con la nostra
fragilità spirituale, con la scomparsa di un sostrato di riferimento
condiviso e vero su cui basare le nostre azioni. Uno non dovrebbe mai
stancarsi di rileggere la citazione di Benedetto XVI in cui dice
“senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo”. E’ una
delle frasi più importanti e coraggiose della nostra epoca.
Scomparso il sostrato di riferimento, la ragione ci sembra
insufficiente e allora fondiamo le nostre azioni sul terreno melmoso
dei buoni sentimenti.
Questa
mania dell’empatia ha quindi anche a che fare con il peso
esacerbante dato proprio al ruolo di un uomo, di un individuo, che
non sente più nulla di grande sopra di sé a trarlo verso l’alto
né nulla di stabile sotto di sé a sostenerlo ed elevarlo ma
soltanto la pura contingenza. L’uomo occidentale cerca di colmare
questo vuoto con un insostenibile aspetto emozionale in cui far
convergere e soddisfare le altre mancanze. Ma tutto questo è
impossibile.
Come
ha ripetuto con ironia Elmar Salmann, alla fine di una conferenza
tenuta davanti a un gruppo di economisti e industriali, “Dio esiste
e non sei tu quindi rilassati”. Tutto ciò che l’uomo può fare
all’interno di un orizzonte limitato come il suo, limitato sia per
risorse emozionali e intellettuali che economiche, è cercare di
massimizzare la propria azione all’interno di una morale
compassionevole e razionale.
L’empatia,
purtroppo, oltre a non essere un fondamento per la morale spesso la
erode. E’ l’empatia che invade il nostro spirito e distrugge ogni
capacità di giudizio oggettivo e di elaborazione morale portando le
nostre azioni lontano da ciò che sarebbe giusto e vero. L’empatia
può generare un’ubriacatura emotiva che impedisce e corrode
persino la capacità di azione. E’ infatti evidente che, assorbendo
troppo le sofferenze degli altri, si rischia di diventare incapace di
prestare aiuto perché raggiungere risultati positivi nel lungo
periodo spesso implica dolore nel breve.
Come
detto prima, l’empatia è il fattore determinante nel favorire il
processo d’identificazione. “I am the man, I suffered, I was
there”. Non è da escludere che un grande spirito artistico, come
quello di Walt Whitman in questo caso, possa sentire in alcuni
momenti questa sensazione di comunione empatica universale.
Ma
sono momenti e casi specialissimi, non è questo l’ordinario, non è
questa una ricetta da adottare per la nostra condotta quotidiana ed è
tanto meno un fondamento morale o un programma di azione politica e
sociale. I processi d’identificazione sono un’illusione
sentimentale. Nessuno di noi è un bambino affamato dell’Africa
profonda, un orfano che vive mendicando per le strade di Phnom Penh o
una famiglia siriana.
Quello che possiamo e dobbiamo fare, invece, è comprendere razionalmente e provare a trovare soluzioni utili e reali. Non c’è bisogno d’identificazione, anche perché è impossibile, ma di comprensione realistica e lucida. L’empatia, l’illusione identificatoria, non aiutano a fare altro che a sentirci meglio, a sentirci buoni e bravi, e a confondere le idee.
Quello che possiamo e dobbiamo fare, invece, è comprendere razionalmente e provare a trovare soluzioni utili e reali. Non c’è bisogno d’identificazione, anche perché è impossibile, ma di comprensione realistica e lucida. L’empatia, l’illusione identificatoria, non aiutano a fare altro che a sentirci meglio, a sentirci buoni e bravi, e a confondere le idee.
In
conclusione, Bloom ci tiene a ribadire che avere un alto grado di
empatia non rende una persona migliore rispetto a un’altra che ne
ha di meno. Ci sono intere ricerche dedicate, per esempio, alla
capacità dei criminali più efferati di riuscire a commettere le
peggiori nefandezze proprio perché in grado di entrare in empatia
con l’altro, con la vittima, di leggergli dentro e di manipolarlo.
Questo vale tanto nel piccolo, quanto nel grande per i dittatori e i
demagoghi. I comportamenti positivi, razionali e moralmente giusti
sono, invece, relazionati alla compassione e alla capacità di
curarsi degli altri.
L’alternativa
all’empatia, scrive Bloom, è quindi quella della compassione
razionale, dell’interessamento al miglioramento della condizione di
chi soffre e della gentilezza in una prospettiva che sia accettabile,
sostenibile e lucida nel lungo periodo. Questo è ciò che possiamo
fare e che ci permette una visione e una capacità di azione
ragionevoli e non obnubilate dall’ubriacatura dell’identificazione
empatica con l’altro. I comportamenti dettati dall’empatia sono
troppo esacerbanti e l’identificazione empatica tende a portare,
nel migliore dei casi, all’inazione.
Tutti
i grandi raggiungimenti sociali dall’uomo, il superamento dei
pregiudizi nei confronti degli altri, la tolleranza, la comprensione
di chi è diverso non è stata raggiunto attraverso un’empatia
impossibile con chi è radicalmente distante da noi, ma grazie alla
comprensione razionale, allo studio e alla compassione. >>
MICHELE
SILENZI
Discorso molto ragionevole. I sentimenti sono una bella cosa, chi non ne prova è un mostro, non un essere umano. Il sentimentalismo invece è cosa da donnette, da gente fiacca e poco razionale. Non equiparerei però l'empatia al sentimentalismo. L'empatia è la facoltà di immedesimarci negli altri o, come si dice, di mettersi nei loro panni. Ma è un'operazione limitata a un certo numero di persone (numero piuttosto basso). Quelli che amano o dicono di amare il mondo intero temo non amino nessuno in particolare. Farci carico di tutto il dolore del mondo è impossibile e controproducente, ci paralizzerebbe, non potremmo più metterci nemmeno a tavola ("ma come, tu ti abbuffi mentre milioni non hanno da mangiare!"). Nel piccolo invece possiamo fare qualcosa, mostrarci umani, compassionevoli, empatici (ma con misura). Il numero fa la differenza.
RispondiElimina<< Il numero fa la differenza. >>
EliminaUna sintesi perfetta.
Ma quanti se ne rendono conto ?
Lasciamo pure da parte i dittatori, secondo i quali "il numero è potenza" (cosa che, dal loro punto di vista, è sicuramente vera), ma per noi gente comune, come può essere la stessa cosa ?
Perchè non ci rendiamo conto che, in una società moderna, ci sono dei limiti (di numero e/o di quantità) che è pericoloso superare ?
Questi sono forse i retaggi ancestrali della mentalità tribale: più siamo numerosi, più siamo forti.
Ma il mondo è cambiato.
Si alla comprensione realistica e lucida e ad un approccio globalmente di stampo "illuminista", No all'irrazionalismo visceralmente sentimentale di matrice idealistico-romantica (nel quale sguazzano alla grande gli attualmente trionfanti nazionalismi & protezionismi) ma anche alle citazioni di un Pontefice fieramente anti-illuminista... Saluti
RispondiEliminaBeh, non credo che la storia ci abbia mai presentato dei Papi illuminsti (almeno per quanto ricordo).
EliminaDirei anzi che parlare di "Pontefice illuminista" sia un bell'esempio di ossimoro...